30 dicembre 2006

EDITORIALE DICEMBRE 2007

Pare che l’Inghilterra non si accorgerà del Natale. Fabbriche, uffici, scuole hanno deciso di non esporre simboli che rimandino alla festività. Motivo: non contrariare cittadini di fede musulmana.
Stimo troppo l’islamico medio per sospettare che Santa Claus lo offenda. E rispetto troppo i padri della democrazia, per credere che questa censura salvaguardi la dignità della persona. Negare un’identità (e un abete, per kitsch che sia, segnala un’identità) è ipocrisia. Ogni dialogo è costruito su una differenza e la profondità dello scambio deriva dalla ricchezza e non dalla negazione di quella differenza.
Viceversa affogheremo nel politically correct e non dialogheremo mai.


Luca Gualtieri

28 dicembre 2006

SATIRA (STELLE E) STRISCE

Chi ancora fosse convinto –a torto- che i fumetti sono solo “roba per bambini” dovrebbe prima di tutto aver letto qualcosa che non sia stato prodotto dalla Disney e uno dei modi migliori per cominciare a farlo è dedicarsi alla lettura di due opere di tutto rispetto: Doonesbury e Boondocks. Queste due opere -entrambe comic strip- seppur nate in periodi diversi, rappresentano ad oggi il meglio della satira a fumetti che il panorama americano possa offrire. Recentemente queste due opere sono state raccolte anche in Italia in alcuni volumi, rendendole di più facile reperibilità anche se -come spesso è accaduto negli ultimi anni-, i primi ad accorgersi del potenziale di queste strisce è stata la preziosissima rivista Linus.

Doonesbury nasce nel 1970 dalla penna di Garry Trudeau e fin da subito si caratterizza per i commenti sagaci,pungenti e irriverenti all’attualità. Pur essendo “temuta” da alcuni potenti, la striscia ha riscontrato un tale successo di pubblico e critica da vincere addirittura il premio Pulitzer nel 1975. I personaggi di Doonesbury -a differenza della maggior parte delle comic-strip- sono molteplici ma tutti pressocchè normali: gente che dopo l’università è diventata mamma o papà, pubblicitario,consulente, giornalista o che è andata in guerra. Henry Kissinger (segretario di Stato sotto le presidenze di Nixon e di Ford e premio Nobel per la pace nel 1973) disse: <>.

Molto più recente invece Boondocks, creato da Aaron McGruder nel 1999. Protagonisti principali della striscia sono due bambini afroamericani: Huley e Riley che dalle strade di Chicago si trasferiscono alla tranquilla provincia periferica. Inizialmente la striscia -a differenza di Doonesbury che presentava commenti di taglio liberale riguardanti tutta l’attualità- era principalmente incentrata ad analizzare la quotidianità americana focalizzandosi sulle questioni razziali; dopo l’attento dell’11 Settembre si è invece potuto assistere ad una correzione di rotta, criticando quasi costantemente l’attuale amministrazione Bush. Ciò pur causando una stagnazione dei temi trattati, non riesce a rendere meno interessanti le strisce che anzi sprizzano energia vitale e tensione civile.


Antonino Marsala

27 dicembre 2006

IL FOTOGIORNALISMO IN MOSTRA

Immagini che raccontano l’Italia e hanno fatto storia

Una civiltà democratica non si salverà se non farà del linguaggio delle immagini una provocazione alla riflessione e non un invito all’ipnosi”.

Sono queste le parole di Umberto Eco che cullano la mostra del fotogiornalismo italiano, attualmente in esposizione presso il Museo di Storia Contemporanea in via Sant’Andrea, a Milano. Paradossalmente un tragitto circolare quello della foto da stampa, nata e cresciuta dopo le censure e le coazioni del regime fascista e oggi, dopo 60 anni, nuovamente in agonia per via di un mercato delle immagini sempre più convulso, ibrido e legato senza trasparenza ai meccanismi pubblicitari e di mercato. Eppure la strada percorsa è molta. Una cammino denso di foto e flash che hanno caratterizzato la scia luminosa del percorso storico del bel paese, unendo ogni evento, ogni sguardo, ogni dettaglio ad un obiettivo e a un diaframma. Dopo il digiuno fascista sono i settimanali come l’Europa, il Tempo, il Politecnico di Vittorini, a riconoscere, per primi, il valore dello scatto finalmente libero. Le immagini di Federico Patellani e Giancolombo raccontano un paese che può per la prima volta, attraverso le foto, guardare allo specchio le proprie miserie (impresse nelle istantanee di una Italia post-bellica in ginocchio) e le proprie ricchezze (la voglia di riscatto negli occhi e nei gesti della gente che, nonostante tutto, sorride all’obiettivo). Una volta in piedi “la nazione danza”, e Tazio Secchiamoli è pronto a raccontarla su pellicola. L’italica necessità d’evasione si stempera nella corsa vivace di Sophia Loren e delle altre miss, nello sguardo di Claudia Cardinale, negli immaginifici set Felliniani. Eppure gli anni ’50 significano per il fotogiornalismo anche più esperienza e maggiori responsabilità.

Testate come Le Ore e Vie Nuove assumono lo spessore di veri rotocalchi, proponendo immagini efficaci nel raccontare storie d’approfondimento e denuncia. Nasce il fotografo free-lance che gira il mondo e vuole vedere oltre. Si viaggia dalla Spagna Franchista al Sud America autocratico, dagli USA della discriminazione e di Martin Luther King all’ “altra Italia” che il boom economico ha obliato e che in pochi narrano. Sono gli anni della Milano capitale intellettuale, che accoglie al cafè Jamaica gli sguardi e le esperienze di Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Nicolai, Mario Dondero. Ed è in questo humus che il fotogiornalismo italiano acquista la sua prima peculiarità, sviluppando, nelle immagini, una tendenza intellettuale in antitesi rispetto al pragmatismo delle foto “sulla notizia” proprie dei reporter d’oltralpe. La fase amatoriale termina definitivamente con la generazione degli anni ’60. Rotocalchi come Epoca (alter ego italiano dello statunitense Life) inquadrano la foto in un’ottica più lambiccata, per cui tutti i colori della cronaca si sovrappongono legandosi fra loro. Autori del calibro di Giorgio Lotti e Pepi Merisio palesano tale tendenza, mentre la bergamasca Carla Cerati regala a Milano alcuni dei suoi scatti più belli e profondi. Le sale della mostra, che si susseguono rincorrendo le tracce cronologiche della foto giornalistica, diventano più dense in simmetria agli anni della contestazione. Dopo il ’68 le nuove tensioni spingono gli obiettivi verso realtà off-limits e verso immagini più decisamente “engagè”. Mutano i modelli di riferimento: ora è Robert Frank (fotografo e regista amico della beat generation) a dettare gli schemi di un mondo che si vuole rendere vivo e parlante. La nuova controinformazione indaga le piaghe più oscure della società: le foto di Maurizio Bizzicari svelano la ferita del lavoro minorile, gli scatti di Luciano D’Alessandro immortalano gli “esclusi” degli istituti psichiatrici. Sarà la progressiva tecnicizzazione dell’immagine a fluidificare una fotografia che rischiava di arenarsi in orge di bandiere mosse dal vento e settarie ideologie. Una realtà sempre più veloce e in fieri costringe il fotogiornalismo, fra gli anni ’70 e ’80, a divenire più rapido e presente, garantendo alle immagini, quasi involontariamente, un impatto maggiormente deciso e secco. Così nasce l’icona di Aldo Moro privo di vita accovacciato nel baule di via Caetani, così si offre pathos alla foto di Franco Zecchin, il quale immortala il funerale di Peppino Impastato, giovane palermitano, militante comunista, ucciso dalla mafia. Gli anni ’90 segnano l’inizio della fine. Si chiude un epoca ed il capitolo che si apre appare tuttoggi nebuloso. I nuovi media, i dispositivi digitali, hanno spersonalizzato il fotogiornalismo, fino a renderlo mero specchio dello show, modaiolo e, come dice Eco, ipnotizzante. La realtà che l’immagine dovrebbe rappresentare viene scalzata dallo “spettacolo” della foto ma, soprattutto, dello spettacolo della vita stessa. E così l’ultima sezione della mostra si fissa su Milano città “invisibile”, (invisibile è divenuta la ricchezza che si produce, il lavoro che la genera) emblema grazie alle sue “situazioni flusso”, quasi impossibili da cristallizzare. La moda, gli uffici, le periferie, l’immigrazione sono solo schegge che si fotografano, senza che la narrazione riesca, come in passato, a riannodare i lacci di realtà e immagine, ormai distanti e perduti nel mare infinito della comunicazione.

Gregorio Romeo

25 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE III

Si stima che i morti a Bhopal quella notte di Dicembre furono 1700- 3000. Ma stabilirlo con certezza non è possibile. Quel giorno e i successivi centinaia di roghi vennero allestiti per bruciare i corpi degli induisti, centinaia di fosse comuni vennero scavate per seppellire quelli dei musulmani. Secondo fonti attendibili, il numero delle vittime dal giorno della fuga di gas ad oggi ammonterebbe a una cifra compresa tra 15000 e 30000. 200000 invece le persone intossicate, costrette a convivere con i devastanti effetti dell’esposizione e dell’inalazione del gas, quali insufficienza respiratoria, disturbi alla vista, cataratta giovanile, depressione, anoressia, febbre ricorrente, stato di debolezza costante, cancro, tubercolosi.

La Union Carbide si è rifiutata di rivelare l’esatta composizione del MIC, impedendo così di prestare adeguate cure alla popolazione colpita.

La Carbide, il cui motto era "Safety first", trovò il suo capro espiatorio in un operaio e si fece sostenitrice della tesi del sabotaggio. Nel 1989, dopo quattro anni di estenuanti trattative la multinazionale pagò alla popolazione colpita un indennizzo di 470 milioni di dollari, una somma sei volte inferiore a quella inizialmente richiesta, che il governo indiano accettò ugualmente. Di questo indennizzo solo una parte irrisoria arrivò nelle tasche delle vittime o dei parenti delle vittime, per la maggior parte poveri e analfabeti abitanti degli slum.

L’allora presidente della Carbide, Warren Anderson, fu citato in giudizio nel 1991 dal tribunale penale di Bhopal con accusa di omicidio colposo. I tagli dei costi avrebbero infatti compromesso gli standard di sicurezza della fabbrica. Anderson ha fatto perdere sue tracce. E’ tuttora ricercato. Su di lui pende un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol.

La Union Carbide non esiste più. Nel 1999 è stata rilevata dalla Dow Chemicals.

Di fronte all'uscita di scena della Carbide, protagonista e carnefice, e alla latitanza di Anderson, l'uomo che incarna il simbolo della tragedia, è il governo indiano a doversi prendere le responsabilità e a pagare le conseguenze.

Nel 2004 la Corte suprema indiana ha approvato lo stanziamento di un fondo di 350 milioni di dollari per le vittime del disastro. Ma molti pensano che non sia stato fatto abbastanza.

Anche quest’anno, il 2 e il 3 dicembre, in occasione del ventiduesimo anniversario della tragedia, gli abitanti di Bhopal sono scesi in strada per ricordare. E per dare voce, più o meno silenziosamente, alla loro sete di giustizia. Alla manifestazione pacifica organizzata dal Sanghatan, associazione che si batte per i diritti delle vittime, in cui i partecipanti portavano ritratti del Mahatma Gandhi, ha fatto da controparte un’altra manifestazione, culminata davanti al memoriale di Bhopal, di fronte alla fabbrica abbandonata. Bandiere della Carbide e immagini del suo presidente sono state bruciate. Dopo più di vent'anni, le richieste ancora urlate al governo dalle vittime di quello che è uno dei più gravi incidenti nella storia dell’industria chimica, sono acqua pura- le falde acquifere sono state contaminate dai resti tossici ancora presenti all’interno della fabbrica in disuso- e più efficienti cure mediche per le decine di migliaia di persone che ancora soffrono di disturbi psichici e fisici legati all'esposizione al gas.

Chiara Checchini

21 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE II

- 3 dicembre 1984 -

L’impianto che dominava la città di Bhopal, su cui sventolava fiera la bandiera della Union Carbide Corporation, all’epoca la terza società di prodotti chimici al mondo, era specializzato nella produzione di Sevin, un innovativo pesticida, la cui vendita deluse le aspettative. Al momento dell’incidente la fabbrica si trovava in condizioni di grave degrado. La multinazionale americana aveva infatti deciso di chiudere la sua sede indiana, costantemente in perdita. Nel tentativo di tamponare questa emorragia di milioni di dollari, erano stati operati pesanti tagli, sia al personale che ai sistemi di sicurezza. La produzione era ferma, quel giorno di dicembre, ma all’interno della fabbrica, in apposite vasche di stoccaggio, erano conservate allo stato liquido decine di tonnellate di Mic (Methyl Iso- Cyanate), isocianato di metile, una molecola che può provocare reazioni di inaudita violenza. Per evitare esplosioni il Mic va tenuto a una temperatura costante di zero gradi centigradi. La notte dell’incidente l’isocianato, durante un improvvisato e maldestro intervento di pulizia delle tubature, entrò in contatto con l’acqua, provocando una reazione esotermica. 42 tonnellate di Mic si disintegrano in un vortice di calore, passando rapidamente allo stato gassoso. I sistemi di sicurezza, come già accennato, erano stati disattivati. Il sistema di refrigerazione che avrebbe dovuto neutralizzare l’agente chimico, era fuori servizio. Il Mic era a temperatura ambiente. In caso di fuga di gas, la fabbrica era provvista di altri due sistemi di sicurezza, la torre di decontaminazione, in cui la soda caustica avrebbe assorbito e neutralizzato il gas, e ancora una torre di combustione, in cui eventuali gas sfuggiti alla soda sarebbero stati definitivamente bruciati. Ma nessuno dei due sistemi poté essere utilizzato. Entrambe le torri erano state smontate per interventi di manutenzione.

Così, la nube tossica fuoriuscì indisturbata dalla fabbrica e serpeggiò per la città. La reazione chimica aveva portato alla liberazione, tra gli altri gas, di acido cianidrico, che se inalato in forti dosi porta alla subitanea morte cerebrale, bloccando l’azione degli enzimi che portano l’ossigeno dal sangue al cervello.

Chiara Checchini

19 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE I

- 3 dicembre 1984 -

Era appena passata la mezzanotte, ma la Baghdad dell’India, vegliata dai minareti e dalle imponenti torri della fabbrica, non dormiva. Dicembre è periodo di matrimoni, e gli astrologi avevano decretato che quel 2 dicembre fosse un giorno propizio per le nozze. La città era tutto un susseguirsi di feste. E il giorno seguente avrebbe ospitato l’Ishtema, l’annuale celebrazione che richiamava migliaia di fedeli musulmani da tutto il paese. Arrivavano a getto continuo, su treni speciali. Quella fresca notte d’inverno il vento soffiava verso sud. Quella notte il vento portò con sé una nube verdastra che mise fine ai festeggiamenti. Poco dopo la mezzanotte, la nube di gas, fuoriuscita dal tecnologico impianto della Union Carbide, si posò come una coltre sulla città vecchia, sulle baraccopoli e sulla stazione, seminando morte. Prima caddero gli animali. Caddero i cani, i gatti, gli uccelli. Caddero le vacche sacre, caddero i tori dalle corna dipinte, caddero le capre, spesso unica fonte di sostentamento per un’intera famiglia. Caddero schiumando dalla bocca. Poi caddero gli invitati ai banchetti, agghindati dei loro gioielli e vestiti dei loro abiti più preziosi, caddero i miserabili abitanti delle baracche adiacenti la fabbrica americana che aveva dato lavoro a tanti, caddero i pellegrini accalcati alla stazione. I loro polmoni scoppiarono. Caddero a terra sputando sangue. Alcuni morirono di una morte immediata. Altri morirono dopo, negli ospedali presi d’assalto da una folla impazzita di terrore, nell’impotenza dei medici, incapaci di contrastare gli effetti dell’avvelenamento. Altri non morirono, ma subirono danni permanenti.

Chiara Checchini

17 dicembre 2006

MAN ON THE MOON

Dietro queste poche parole che non sono nemmeno una frase c’è l’imbocco di una strada che procede su tre sentieri solo apparentemente diversi. Il primo è una canzone dei R.E.M., il secondo un film di Milos Forman e l’ultimo è Andy Kaufman, quell’uomo sulla luna cui il gruppo di Micheal Stipe dedica la faccia più elegiaca di quel diamante opaco che fu “Automatic for the People” del 1992. Andy Kaufman è stato un, se non il più, geniale interprete della comicità contemporanea; morto prematuramente nel 1984 a 35 anni è stato forse l’ultimo vero interprete di quell’avanguardia vicina a Dada e Fluxus che ancora provava a sorprendere e shockare prima di far ridere. Per questo Andy malvolentieri si definiva un comico.”Io non so far ridere” era una delle sue frasi ricorrenti; basava le sue performances sull’illusione e lo sberleffo, poteva stare ore su di un palcoscenico a dormire in un sacco a pelo o a leggere per intero “Il Grande Gatsby” e infine lanciarsi in una appassionata imitazione di Elvis Presley. Kaufman faceva regolarmente scandalo con le sue iniziative, tra le più eclatanti la creazione del”Primo torneo di Wrestling Intergenere”, in cui il comico ha sfidato e sconfitto sul ring oltre 400 donne, aizzate a combattere con insulti e provocazioni sessiste; e l’interpretazione di Tony Clifton (a lungo ritenuto una persona reale e distinta da Andy) e di numerose altre maschere e travestimenti. Non era facile intravedere in quell’uomo istrionico, isterico e assolutamente irrispettoso, la persona buona che fondamentalmente era: devoto alla meditazione trascendentale e convinto della natura illusoria del mondo, dove diventa reale tutto ciò che si riesce a far credere tale.
Di questo parla appunto “Man on the Moon” dei R.E.M., di tutte quelle immagini che sono solide realtà del comune patrimonio umano ma che hanno lo stesso potenziale illusorio di Andy che canta a Las Vegas con i baffoni e si fa chiamare Tony Clifton; e che possono essere una mela che cade sulla testa di Newton o Neil Armstrong che cammina sulla luna (If You believe They Put a Man on the Moon…). Da sempre Stipe e soci sono fans di Andy e si può dire che musicalmente ne abbiano onorato l’indole cangiante ed irrequieta cambiando stile e registro da un album all’altro mantenendo comunque la loro personalità; emblematica in questo senso “Shiny Happy People” di “Out of Time”: canzone pop spensierata in superficie ma intrisa di una malinconia profonda visibile negli occhi di Mike nel videoclip. Depressione mascherata da gaiezza.
Grazie quindi a Milos Forman e chi per lui ha creato la perfetta occasione d’incontro nel suo film, terzo sentiero e unione degli altri due: biografia di Andy Kaufman superbamente interpretato da Jim Carrey con colonna sonora dei R.E.M. D’altra parte cosa meglio del cinema può raccontare di un uomo la cui ragione di vita e di arte è sempre stata l’illusione e il trucco? Il film è una trasposizione piuttosto fedele della vita del comico, dagli esordi da bambino alla morte per una rara forma di tumore polmonare, tuttavia Forman è persona intelligente e consapevole di cosa il suo mezzo può regalare a Andy e che questi avrebbe sicuramente gradito; molti quindi i ritocchi alla vita “vera” dell’artista di New York. Tra le tante la scena del funerale, dove in una chiesa affollata Andy intrattiene ancora il suo pubblico da un maxi schermo posto proprio sopra il suo feretro chiedendo ai presenti di cantare prima di congedarsi con un “Grazie e arrivederci”. Oppure la sequenza conclusiva, dove in un locale, un anno dopo la morte di Kaufman, fa la sua apparizione un personaggio incappucciato che si rivelerà essere Tony Clifton, accompagnato dagli occhi commossi, durante la sua versione sgangherata di “I Will Survive“, di chi aveva amato Andy. Tra di loro c’è anche Bob Zmuda, suo amico e collaboaratore ma soprattutto interprete di Tony alternandosi a Kaufman, che compare per un istante in una carrellata sui volti del pubblico proprio mentre noi spettatori siamo convinti che ci sia lui su quel palco. Questo l’omaggio finale di Milos Forman al re dell’illusione, personale tributo offerto dal cinema, arte suprema del trucco e dell’inganno, che ci regala ancora qualche istante di Andy.

Nicola Spagnuolo

15 dicembre 2006

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.5

Questo mese, mentre voi eravate assorti nella lettura vostro giornale preferito, Argo 42, si stava per consumare una tragedia che noi, amanti della mia rubrica, avremmo considerato di proporzioni oceaniche: uno tsunami informativo, un terremoto giornalistico, una spallata etica alla libertà di stampa di berlusconiana memoria: stavamo per essere censurati. E’ incredibile, lo so; sarebbe stato come chiudere I Robinson nell’89, un telefilm che faceva l’89 per cento di share: l’unica famiglia repubblicana di neri, non discriminati, a New York. Erano ricchissimi, malgrado i genitori (medico e avvocato) mantenessero circa sette figli nullafacenti di cui uno, Theo, pure dislessico. Che non si sentano offesi i nullafacenti dislessici, che so essere la parte più cospicua del mio bacino di lettori. La seconda figlia Denise (Lisa Bonnet) nel 1987 si sposa con Lenny Kravitz: il matrimonio non dura molto ma, per chi fosse interessato, si lasciano e si prendono in continuazione; come anni fa l’Inter e Georgatos, imbarazzante greco che doveva, secondo i piani, risolvere l’annoso problema della fascia sinistra. Stavamo per ricevere lo schiaffo di Anagni, come quello che ricevettero due illustrissime figure: Bonifacio VIII nel 1303 e il cantante Tony Brando. Molti conoscono il primo, spero altrettanti il secondo, indubbiamente più decisivo e più in linea con il tema odierno. Tony Brando, all’anagrafe Ciardulli, è uno tra i personaggi più riusciti del (forse) capolavoro di Carlo Verdone, Compagni di scuola, 1988. Ricorderemo tutti Tony Brando, interpretato da un grandissimo Cristian De Sica, raccontare all’ex compagno di liceo, il cocainomane onorevole Valenzani (Massimo Ghini), dello schiaffo ricevuto da un dirigente Rai, dietro le quinte del Festival d’Anagni, dopo aver cantato la sua hit Collant, collant (cito dal film: collant, collant, mi fanno impazzire i tuoi collant).

Alla domanda del Valenzani sul perché fosse stato schiaffeggiato, Brando narra l’ardito gesto che di cotal castigo fu la causa: durante il finale dell’esibizione, Tony fece scivolare sinuosamente la mano destra lungo il fianco, bloccandola, in posizione plastica, sul pube: in Rai gesto volgare anzi che no. Ebbe in questo modo, secondo la geniale logica della sceneggiatura verdoniana, la colpa di aver anticipato il discorso di Madonna e Prince, che di questi riferimenti si sono pasciuti. L’amara riflessione sul mondo dello spettacolo, Tony la conclude con una profezia, come sempre tetra e di gran classe: “aò, che poi mò se tolgono le mutande e te ‘e tirano in faccia.” La patetica parabola di Tony Brando è l’allegoria dell’ascesa e del declino di quegli artisti italiani disimpegnati che, dapprima osannati e poi proscritti, pagarono l’appartenenza ad un decennio inutile quanto crudele.

Fabrizio Aurilia

13 dicembre 2006

FINANZIARIA E CONTRADDIZIONI: PIU' SOLDI PER LE SPESE MILITARI

Cosa succede se il governo dell’Unione stanza più fondi per le forze armate di quello della Cdl..

Uno strano spettro s’aggira all’interno della Finanziaria in via di approvazione al Senato, la finanziaria dipinta dall’opposizione come la manovra dei tagli, delle tasse e della “proletarizzazione dei ceti medi”. Lo spettro del militarismo. Uno spettro inquietante, soprattutto perché partorito da un governo che aveva messo al centro del proprio programma il disimpegno italiano da un teatro di guerra come quello iracheno e l’incentivazione di politiche di disarmo (vedi pagine 90, 91 e 109 del programma dell’Unione). E invece nella manovra compare un aumento di circa 2 miliardi di euro sui fondi destinati alle spese belliche. Si va dai 18 miliardi e 862 milioni di spesa militare del 2006 (di cui 17.782 milioni dal bilancio della Difesa e 1.080 aggiunti dalla vecchia finanziaria), ai 21 miliardi e 144 milioni previsti per il 2007 (di cui 18.134 milioni sempre dal bilancio preventivo della Difesa e 3.010 dalla manovra 2007). Qual è il motivo di un tanto inatteso e sorprendente aumento degli stanziamenti?

Andando a spulciare si scopre che, detratte le spese di mantenimento del personale – i circa 193 mila uomini al servizio delle forze armate – che coprono il 72 % del bilancio, rimangono più di 4 miliardi di euro (spalmati su 3 anni) destinati a finanziare un fantomatico “Fondo per il sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico”.

In parte si tratta di progetti già avviati dai precedenti governi, come la partecipazione al faraonico progetto (a guida americana) di costruzione del cacciabombardiere del futuro, l’F35-lightning II, e la parallela collaborazione al suo omologo europeo, l’Eurofighter Typoon, a fianco di Germania, Inghilterra e Spagna. Progetti molto discutibili ma che non esauriscono il quadro degli spese previste nei 4 miliardi del succitato fondo.

Ecco allora comparire – come rivela Carlo Bonini in un articolo su Repubblica di qualche tempo fa - una commessa (del maggio scorso) ad Oto Melara per 49 veicoli blindati su ruota “Freccia”, muniti di torrette per il lancio di missili anti-carro. Piccolo particolare: i veicoli monteranno missili “Spike”, costosissimi apparecchi di fabbricazione israeliana, del valore cinque volte superiore al loro omologo americano, il “Tow”. Perché l’esercito italiano dovrebbe munirsi di queste apparecchiature, considerate troppo costose perfino dall’esercito americano e ignorate pressoché da tutti i paesi della Nato è un mistero che può sciogliere solo l’ex-ministro della Difesa Martino, l’inventore di questa geniale trovata. Un capriccio su cui l’Unione però, dal canto suo, non ha trovato nulla da ridire. Valore dell’operazione 310 milioni di euro.

Assemblati sempre da Oto Melara (seppur fabbricati in Germania) risultano anche 72 obici semoventi (per il valore di 650 milioni di euro) che verranno acquistati per la difesa delle nostre frontiere. Questo malgrado siano pezzi d’artiglieria immaginati per combattere conflitti di posizione lungo linee anche di centinaia di chilometri; conflitti che, per nostra fortuna, non sono previsti a breve scadenza lungo i confini italiani.

Spese alquanto imbarazzanti ma fortemente richieste dagli stati maggiori dell’Esercito e che serviranno – assicurano dalla Difesa – all’«ammodernamento delle nostre forze armate». E che, soprattutto, porteranno grandi proventi, attraverso Oto Melara (ed altre controllate come Vitrocisnet) nientemeno che a Finmeccanica. I cui vertici, guarda caso, provengono tutti dagli stati maggiori delle forze armate. Il tutto in barba alla legge 185 del 1990 che impedirebbe il travaso di personale dall’Esercito all’industria degli armamenti.

Qualche esempio? L’ammiraglio Guido Venturosi da capo di stato maggiore della Difesa alla Vitrociset, il generale Giulio Fraticelli da capo di stato maggiore dell’Esercito all’Oto Melara, il generale Mario Arpino dal medesimo stato maggiore alla Marconi (altra società Finmeccanica). E poi il generale Sandro Ferracuti e l’ammiraglio Marcello de Donno, rispettivamente dagli stati maggiori di Aeronautica e Marina ad Ams e Agusta (altre due società Finmeccanica, impegnate nella produzione di radar ed elicotteri). Molti degli impegni di spesa assunti da questa finanziaria con Finmeccanica risalgono all’epoca dei loro incarichi all’interno delle forze armate e, come sottolinea sempre Bonini: «portano anche le loro firme. Da generali, naturalmente».

Viene quindi da chiedersi se questo aumento delle spese militari non sia soprattutto un gran bel regalo a Finmeccanica, con la quale le forze armate italiane hanno rapporti a dir poco “osmotici”. Il che sarebbe non solo un gigantesco conflitto d’interessi, ma anche una seria minaccia nei confronti delle politiche di disarmo e pace previste nel programma dell’Unione.

Francesco Zurlo

I 100 ANNI DI BECKETT

Era il 1906 quando, in un sobborgo di Dublino, nasceva Samuel Beckett. Da quella grigia e strana città cominciava la sua vita da studente di letteratura, ma presto un’inquietudine interiore l’avrebbe portato in giro per l’Europa, fino a Parigi, la città della stabilità, coronata da un felice matrimonio e dal vero inizio della sua carriera. È con “Aspettando Godot” che il mondo artistico e letterario, e soprattutto il pubblico, lo scoprono. Con la rappresentazione dell’opera, avvenuta per la prima volta nel 1953, al Theatre de Babylone di Parigi, si accende l’interesse per questo prolifico autore, si scopre finalmente il suo mondo, dopo innumerevoli rifiuti. È così che comincia, attraverso i rifiuti, “ è nell’insuccesso che io mi sento molto più a mio agio avendo respirato profondamente la sua aria vivificante durante tutta la mia attesa, sino agli ultimi anni. “, dirà Beckett, nella profonda consapevolezza della propria intimità, custodita gelosamente attraverso la riservatezza, e i silenzi, che insieme alle attese dominano e abbracciano le sue opere, circondandole di fascino e mistero. E i misteri dei personaggi, le origini sconosciute, le storie che sembrano sfuggire alla razionalità, portano presto i critici ad inquadrare il suo lavoro nel “Teatro dell’Assurdo”, a scarnificare i suoi romanzi, alla disperata ricerca di un qualunque messaggio. Ma Beckett, un burbero e scontroso irlandese, rifiuterà per sempre le categorie dei critici, l’arrovellarsi, l’intellettualismo disperato, soffermandosi solo sulla descrizione cruda, pura ed essenziale delle vicende umane dei suoi protagonisti. È dura accettare che dietro alle mille domande che nascono di fronte alle spiazzanti assenze, personificate da Godot, non si nascondono risposte. Le vite strane, alienate, invase con prepotenza dalla solitudine sono poste al centro delle sue produzioni, attraverso i personaggi, da Malone a Bocca, la protagonista di “Non Io”, uomini e donne, derelitti. Ad incorniciare queste esistenze, tali solo grazie alla parola che l’autore dona alle proprie creature, ecco i luoghi, poveri, quasi vuoti: Il salice di “Aspettando Godot”, nel nulla in cui si muovono Estragone e Vladimiro, le stanze spoglie dei romanzi, la distesa d’erba in cui è interrata Winnie di “Giorni Felici”. In ogni particolare sembra riecheggiare questa solitudine, a tratti spaventosa, ma viva, attiva, che ha ancora molto da dire, come sostiene il protagonista de “L’innominabile”, l’ultima opera della trilogia, portato sulle scene da Gassman nel 1967, che, nel finale, così chiosa: “…bisogna continuare, non posso continuare, e io continuo”. Sembrano reagire tutti allo stesso modo, questi individui reietti, finiti, eppure ancorati con le unghie all’esistenza, disposti a dire tutto, fino alla fine, ad essere, perché no, felici, a rendere omaggio alla Vita. Beckett non ha mai promesso risposte, e non ha mai dato spiegazioni. Le sue opere sono storie intense, commoventi, divertenti. Fanno pensare. Non regalano certezze. Ed è per questo che tutti gli autori successivi non hanno potuto fare altro che confrontarsi con il genio che ha lasciato nel teatro. Nell’anno del centenario, numerose sono le iniziative per ricordarlo: a Londra e a Dublino, con due festival a lui dedicati, ad Oxford con una serie di letture e riflessioni, mentre a Parigi, fino a giugno 2007, con continue rappresentazioni nei teatri.

Chiara Caprio

12 dicembre 2006

"FIDUCIOSI" A SENSO UNICO

Dopo l’approvazione della finanziaria alla camera, il solito Schifani ha definito vergognoso l’utilizzo della fiducia da parte della maggioranza. E a ragione. Nulla infatti è più vergognoso che veder un governo aspettar tanto a metter la fiducia, provocando il parziale snaturamento di una manovra che aveva una sua discreta coerenza interna.

A Schifani ha fatto poi eco il sempre savio e moderato Casini parlando di «esproprio dell’aula» e dimostrando così un’indiscutibile conoscenza del voto di fiducia. Conoscenza che nasce, senz’ombra di dubbio, dall’esperienza diretta: quando erano al potere lui e i suoi amici, la fiducia fu posta addirittura 46 volte - perfino sulla legge anti-droga Fini-Giovanardi e sulla
riforma universitaria.

Infine è giunta l’attesa chiosa berlusconiana: «Il ricorso al voto di fiducia sulla finanziaria è una cosa che non appartiene ai metodi di una vera democrazia». Niente male da parte di un veterano del voto di fiducia come lui. Ma a fronte delle accuse di brogli di Deaglio, che cos’è quest’ennesima uscita berlusconiana, un’auto-confessione?

Francesco Zurlo

11 dicembre 2006

THE DEVIL ON MY ROAD

In the seventh hour, in the seventh day… Le radici sono gelosamente conservate nell’Africa nera. Quella povera e disperata. Lì nascono bambini senza futuro. Già sieropositivi. Già condannati. Eppure i figli di quest’Africa non sono poi così diversi dai loro antenati ridotti in schiavitù e condotti a forza fin nelle Americhe. Se dovessero chiedermi di spiegare cosa sia il blues, di rappresentarlo, seppur in modo spannometrico, andrei con molta semplicità alla ricerca di una fotografia di un bimbo africano. Sceglierei un primo piano. Gli occhioni pronti ad abbracciare tutto intorno. Il vuoto. La desolazione. Tutto ciò mi pare in vero stridente. Intendo dire, associare un genere musicale, quindi un qualcosa di molto vicino ad un’idea generica di svago e divertimento, con la più grande tragedia umana a noi contemporanea, può sembrare strampalato. Tanto più se si riflette sul fatto che la gran parte della musica che ascoltiamo in questo nostro occidente globalizzante deriva in ultima analisi dall’Africa. Rock, Jazz, Metal e vorrei dire musica elettronica non sono che i frutti della medesima pianta. È il blues. Un genere musicale nato negli stati meridionali degli Stati Uniti, con una lunga fase di gestazione, individuabile tra il 18^ secolo e gli inizi del 900. Qui centinaia di migliaia di uomini e donne di origine africana vivevano in condizioni di schiavitù. Unica concessione dei bianchi landowners il canto, utilizzato per accompagnare il lavoro. Il trascorrere dei decenni intanto contribuiva a migliorare, anche se con mille ritrosie e rappresaglie dei bianchi proprietari terrieri, la condizione degli schiavi. Il primo barlume di speranza sembrò poter giungere dalla fede cattolica. I canti di lavoro, detti shouters, filtrati da ideologia “sacra”, e venuti a contatto con la musica eurocolta di matrice bianca diedero vita al gospel. Il blues rimase invece legato ad una matrice più terrena. Accade spesso, addirittura, di imbattersi in brani blues di argomento scabroso, come l’amore erotico, l’alcool, l’oscuro simbolismo o la violenza. I musicologi spiegano questa tendenza come una naturale conseguenza “conservativa” all’imposizione della religione cattolica. La malinconia per la casa perduta, la solitudine, l’abbandono, la tristezza e il nichilismo si ergono a presenza costante e caratterizzante dell’intero genere. Angoscia, timori, pene d’amore. Argomenti che hanno trattato tutti i bluesmen passati alla storia, da Robert Johnson, che secondo la leggenda vendette l’anima al diavolo in cambio del talento, a Skip James. Da Muddy Waters, che ha elettrificato il blues, dandogli una dimensione più urbana e moderna a John Lee Hooker (che ha recitato la parte di sé stesso nel film Blues Brothers). Gli anni 60 furono una vera e propria riscoperta del blues. Alcune rockstar, come Jimi Hendrix, Janis Joplin o Eric Clapton coronarono il loro sogno di suonare coi vecchi maestri blues del Delta del Mississipi, dopo aver tratto ben più di qualche ispirazione. Tutto l’occidente beneficia, almeno musicalmente, dell’eredità del blues e, per estensione, dell’Africa intera. Forse l’argomento “musicale” non è quello più forte da utilizzare per convincere un potenziale interlocutore della necessità di mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi africani, ma può, di certo, aiutare.

Davide Zucchi

9 dicembre 2006

SPECCHI, BRAME E REAMI

Specchio, specchio delle mie brame…” Anche senza essere perfidi e vanitosi come la matrigna di Biancaneve, certo a tutti è capitato di guardarsi in uno specchio; e a molti sarà capitato anche di entrare in una sala degli specchi arredata con specchi contrapposti. Questi, rimandandosi all’infinito le reciproche immagini, provocano in chi si osserva una inattesa e piacevole piccola vertigine. Le sale degli specchi sono state per lungo tempo un elemento architettonico fisso in regge e palazzi nobiliari: vi sono sale degli specchi nella reggia di Versailles, a Palazzo Cisterna e a Palazzo Bricherasio a Torino, a Palazzo Giustiniani a Roma, a Palazzo Ducale a Mantova, a Palazzo Orsetti a Lucca, a Palazzo Zenobio a Venezia, a Palazzo Ducezio a Noto, nel castello Esterhàzy ad Eisenstadt, nel castello di Linderhof, e probabilmente in molte altre residenze di potenti. Alla base della scelta di avere una sala degli specchi ci possono essere stati sicuramente dei motivi oggettivi, come ad esempio il desiderio di giovarsi della apparente moltiplicazione dello spazio e delle luci risultante da questo tipo di arredo, per conseguire effetti di magnificenza e grandiosità. Questo proposito, condiviso da molti regnanti e potenti aristocratici, ci fa riflettere che le sale degli specchi si trovano nei luoghi del potere: la scelta di rivestire le pareti di una sala con numerose superfici riflettenti rimanda allora al desiderio del potente di gestire la realtà e l’apparenza secondo il suo volere.

L’inganno percettivo causato dagli specchi era in effetti solo la punta dell’iceberg di quel filtro o distorsione dell’informazione che, nei tempi passati, i potenti potevano sicuramente esercitare. Si può dire allora che queste sale “pubbliche” delle corti e dei palazzi dell’alta aristocrazia erano delle vetrine, o meglio ancora dei teatri, nei quali il padrone di casa svolgeva il doppio ruolo di autore e di regista. Intorno all’autore/regista comparivano molte altre figure, contemporaneamente attori e spettatori, il cui compito era essenzialmente obbedire e plaudere alle iniziative di chi deteneva il potere. E’ vero che le corti erano spesso teatro di macchinazioni e di intrighi tra gruppi di cortigiani, ma forse le lotte fra i sostenitori di diverse “visioni cortigiane” non erano né ignote né invise al monarca, che probabilmente rafforzava il suo potere mettendo in atto l’antico principio del “divide et impera”. Infatti, come gli specchi che moltiplicano frammenti di immagini rendono arduo distinguere tra reale e virtuale, la moltiplicazione di frammenti di informazione disposta dal potente rendeva assai difficile e insidiosa la costituzione e la stabilità di alleanze con funzione sovversiva. Dunque l’apparente quantità di informazioni messa in scena dagli specchi non alludeva certo alla pluralità dei punti di vista dei sudditi, bensì all’accorta opera di informazione/disinformazione gestita dall’autorità centrale. Tuttavia le sale degli specchi non costituivano soltanto la facciata scintillante del potere politico centrale, ma erano anche luoghi di svago e di sogno, in cui venivano tenuti concerti, feste, letture poetiche e teatrali; le stesse decorazioni fantastiche delle pareti e del soffitto (grottesche, maschere, scene mitologiche, ecc.) indirizzavano il pensiero degli spettatori all’evasione nell’immaginario, piuttosto che alla concretezza dell’azione.

Oggi invece il ruolo dello specchio rimanda più che altro all’interiorità: proprio nell’era dell’ipercomunicazione, favorita dall’ingrandirsi degli spazi comunitari (stadi, piazze, ecc.) e dalla capillare diffusione dei nuovi media, il teatro, la letteratura, la psicanalisi pongono l’accento sulla riflessione sul privato. L’immagine di un soggetto che si riflette in uno specchio diventa quindi sinonimo del soggetto che riflette su se stesso: l’antico gioco di specchi tra essere e apparire si arricchisce allora di nuovi accenti, conservando immutati la sua ambiguità e il suo fascino.

Flavia Marisi

7 dicembre 2006

AlLIBIA' - VA TUTTO BENE

Gli Alibìa, già largamente conosciuti nell'universo indipendente italiano, presentano l' EP “Va tutto bene” -composto da cinque canzoni- che fa da apripista al secondo album “Tra tutto e niente” che verrà lanciato a gennaio 2007 e che è stato prodotto con Giacomo Fiorenza (Yuppie Flu, Moltheni, Benvegnù, Parente, Giardini di Mirò, Offlaga Disco Pax) . Come nello stile della band anche questo lavoro presenta intrecci vocali ed elettronici con l'uso di loop e synth. Se l'album seguirà la stessa scia di questo EP, allora siamo di fronte ad un gran bel lavoro della band campana. Il singolo scelto per lanciare il nuovo album è “Va tutto bene”, di cui è stato girato anche un videoclip che troviamo all'interno del cd come traccia rom. Come se non bastasse il video - che è stato girato dal regista Stefano Bertelli per Run Multimedia - ha già vinto in anteprima (luglio 2006) la rassegna Animaclip del Giffoni Film Festival come miglior videoclip in animazione dell’anno. Il singolo e l'EP stesso sono stati lanciati ufficialmente il 20 ottobre, mentre il 28 ottobre è iniziato il tour promozionale. Un disco da non lasciarsi sfuggire, provare per credere.

Antonino Marsala

1 dicembre 2006

CONSIGLI PER ACQUISTI IN MUSICA

Mi sembra doveroso iniziare la carrellata di dischi con l’istrionico, zingaresco, minotauresco(chi ha assistito di recente ad una sua performance live potrà certamente confermare la vocazione taurina del Vinicio nazionale) Capossela che pubblicando nel gelido gennaio scorso “Ovunque Proteggi” ha deliziosamente riscaldato cuori e padiglioni auricolari dei fans con le sue ricercate melodie e la sua voce roca.
L’aggettivo più calzante per “Ovunque Proteggi” è: eterogeneo…scordatevi la compattezza di sound/tematiche del precedente “Canzoni a Manovella”. Tanta varietà è limite e forza nello stesso tempo. Limite, poiché l’album appare poco coeso, direi quasi sfilacciato. Forza, perché Vinicio si trova a perfetto agio nel muoversi tra diversi generi musicali, nel gestire musicisti d’ogni estrazione gusto e stile(Roy Paci (tromba), il newyorkese Marc Ribot (chitarre), Stefano Nanni (piano), Ares Tavolazzi (ex-Area) al contrabbasso e Gak Sato all'elettronica).
Ne scaturisce un viaggio musicale tra il mito(Barbari della Colchide/ I vapori s'alzano nell'ombra) e il quotidiano(Affanculo questa serietà/ Questa lealtà/ Tutta questa impresa/ Poi il sabato all'iper a far la spesa) tra l’ossessione carnale, l’immanente, il viscerale(Patimento della carne/ Corpo sacro della carne/ Compassione della carne/ Fuoco fatuo della carne) e la suggestione del sogno, il trascendente, il misticismo(E accesi sui pennoni/I fuochi fatui, i fuochi alati /Della Santissima/Dei naufragati). Un disco importante.

Ora preparatevi ad un salto spazial/stilistico: dall’Italia alla Scozia, dal cantautorato al post-rock. I Mogwai tornano dopo un latitanza di tre anni e ci regalano “Mr. Beast”. La band di Glasgow prosegue il proprio discorso musicale con coerenza ed uno stile unico, frutto di un lavoro di raffinamento e rielaborazione lungo un decennio. “Mr. Beast” alterna cavalcate esplosive a delicati intermezzi melodici, crescendo sporchi, inquinati da glitch elettronici e distorsioni, che lasciano improvvisamente spazio ad arpeggi dal gusto romantico(senza cadute nel melenso). Insomma, la band “ppò èsse piuma e ppò èsse fero” come la mano del camionista interpretato da Mario Brega in “Bianco, rosso e Verdone”(perdonatemi il paragone ma lo trovo quantomai appropriato). Ennesima riconferma.

Segnalazione lampo per “Lantern” dei Clogs. Siamo sempre nel post-rock, questa volta contaminato con la musica da camera. Tra morbidi riff di chitarra, pennellate d’archi e rarefatte note di basso ci muoviamo in un paesaggio crepuscolare. Malinconico.

Concludo con il mostro di esuberanza Thom Yorke (ogni volta che ascolto il suo cd in auto e disgraziatamente ci sono altre persone a bordo vengo investito da una sequela di: “togli questa roba deprimente!” e frasi dal significato equivalente. Musica da party, insomma). Allontanatosi temporaneamente dai Radiohead, il simpatico ragazzotto del Northamptonshire(bel nome per distretto territoriale) sceglie l’elettronica per il suo esordio solista. “The Eraser” non delude ma neppure convince pienamente. Le nove tracce scorrono via lisce, il marchingegno è presto svelato: una base elettronica, una linea melodica dolce, la splendida voce di Thom a ricamare, amalgamare, accompagnare. Alla lunga stanca.

Enrico Gaffuri

29 novembre 2006

KOINE' - SOSPESO

Lo scorso 22 ottobre è ufficialmente uscito il secondo album della band romagnola dei Koinè sempre pubblicato con la linea low-cost di mini-cd prodotta dall’Alkatraz scrl. Sebbene questo loro secondo disco si presenti allo stesso modo del primo (Senza tranquillità) ossia tre canzoni più un video, i Koinè centrano un’altra volta il bersaglio, producendo un mini-cd di tutto rispetto. Con Sospeso la band dimostra di essere riuscita a crescere artisticamente componendo dei testi più adulti e conferma l’attitudine verso sonorità a tratti più cupe con riff graffianti di chitarra come nell’opener “Rivoluzione”, o con giri di basso accattivanti e facilmente orecchiabili che catturano l’attenzione in “Solo una sensazione”. Con la title track “Sospeso” ritroviamo invece la vena pop del gruppo con un singolo di facile ascolto tipicamente radiofonico anche se attraversato verso la fine – seppur per pochi secondi - da elementi tipici dell’alternative pop-rock. A dispetto del precedente però, questo singolo sembra purtroppo più debole, e soprattutto a metà canzone si sente come una mancanza di mordente. Fortunatamente però questo non intacca eccessivamente la qualità complessiva dell’album, che rimane comunque un disco tutto da ascoltare. Un gruppo sicuramente da tenere d’occhio nel futuro, e che continua a proporre un rock alternativo fresco e dinamico.

Per maggiori informazioni: www.koinemusic.it

Antonino Marsala

24 novembre 2006

BIBLIOTECHE D’ATENEO: NON C'È POSTO PER I QUOTIDIANI

Se siete stanchi della paura che vi attanaglia negli istanti che precedono l’esame, e per una volta siete voi ad aver voglia di far venire il mal di pancia al professore, provate a sventolargli davanti la pagina di un quotidiano: vedrete che spavento.
Da una ricerca effettuata nelle biblioteche universitarie della Statale, nello specifico in quelle di Lettere e Filosofia, risulta che l’ospite più sgradito all’Ateneo è il quotidiano. «Non abbiamo il posto dove metterlo», «non è tradizione averne», «non ce lo possiamo permettere», sono alcune delle spiegazioni date per giustificarne l’assenza, ma anche: «Non lo voglio!», ha tuonato il professor Grado Giovanni Merlo dai corridoi del Dipartimento di Scienze Storiche.
Però nelle biblioteche di Lettere e Filosofia si fa un gran parlare degli assenti: vi si trovano testi come “Letteratura e giornalismo”, “Dizionario di Giornalismo”, “Giornalismo: com’è, come funziona”, “Intervista sul giornale italiano”, per citarne alcuni; ma del diretto interessato non c’è ombra. Può permettersi un’università che ha visto il fiorire negli ultimi anni di svariate cattedre di giornalismo, che segnala il mestiere giornalistico come possibile sbocco lavorativo in praticamente tutte le guide dello studente di Facoltà di Lettere e Filosofia e che ha attivato all’inizio dell’anno accademico un master di giornalismo alle cui selezioni si sono presentati larga parte di laureati in materie umanistiche, può permettersi, questa Università, di non avere i quotidiani in consultazione, almeno in una delle biblioteche del polo umanistico? Ci risponde Elio Franzini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia: «Non è nostro scopo istituzionale fornire l’attualità. Può essere interessante studiare l’evoluzione degli scandali pubblici nella loro ottica storica, non contingente». Altrettanto scettica è Paola Vismara, direttrice scientifica della Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia, che condanna la precoce mortalità del giornale: «Data la carenza dei finanziamenti puntiamo ad avere materiale durevole».
Il timore di Paolo Di Stefano, inviato del Corriere della Sera e docente di Cultura giornalistica in Statale, è che tutto ciò sia una sorta di snobismo verso la stampa quotidiana: «L’auspicabile osmosi tra la cultura accademica e quella giornalistica non si è mai verificata per reciproci sospetti: per i giornalisti la cultura accademica è noiosa, per gli accademici quella giornalistica è di giornata». Sorge un dubbio: quale contributo possono dare lo scandalo calciopoli, la cronaca di un rapimento o le notizie sull’ultimo uscito dall’Isola dei Famosi, a uno che voglia diventare filologo romanzo? «Anche gli aspetti più aberranti dell’attualità sono un contributo allo sviluppo della coscienza critica e civile, il filologo romanzo deve disporre di questa coscienza critica - spiega Di Stefano - anche lo specialista più sofisticato deve sapere che c’è un certo Adriano Celentano che dice agli Italiani certe cose, altrimenti, lo specialista, che tipo d’interazione potrà avere con gli studiosi del futuro che sono gli studenti di oggi?». I professori dal canto loro si dicono perplessi sull’effettivo interesse dei ragazzi verso i giornali. Gli studenti italiani sono attratti dal mestiere del giornalista, ma il quotidiano lo leggono poco e meno dei loro coetanei europei. «Alcuni credono che il giornalista sia quello che si mette la pashmina (sciarpa indiana in lana di capra tibetana) e va a parlare in tv», è l’opinione di Rita Cambria, docente di Storia del giornalismo in Statale. Mentre Di Stefano sottolinea: «I quotidiani fanno una cultura troppo spettacolare e hanno la colpa di non parlare ai giovani, questi ultimi preferiscono riviste specializzate, il modello omnibus è sentito come una lacuna». Occorre evidenziare che le statistiche recentemente hanno registrato un’inflessione positiva, in merito alla questione giornali e giovani, nella fascia di età che va dai 14 ai 17 anni, e questo grazie anche all’Osservatorio Permanente Giovani-Editori che ha promosso la lettura del quotidiano nelle classi delle scuole secondarie superiori.
Tutti i professori difendono la scientificità delle biblioteche, ma queste sono sfruttate dagli studenti fino in fondo? Quanti sanno che la biblioteca digitale dell’Ateneo dispone del prezioso World Biographical Information System, il database biografico più completo e aggiornato? E quanto gli studenti vanno a scandagliare tra i volumi presenti negli scaffali delle biblioteche? «Il giornale potrebbe essere un modo per attirare i ragazzi in biblioteca – afferma Cambria - e trovandosi lì, a scaffali aperti, circondati dai libri, alla fine libro segue libro, potrebbero apprezzare i servizi di una biblioteca scientifica». Come se il giornale fosse un biglietto da visita per i tesori delle biblioteche universitarie.

Vita da quotidiano: l’incomodo di essere carta
Esiste un problema di spazi, dice Elio Franzini: «Sia per la consultazione che per la conservazione». Una soluzione è all’interno della stessa Università: infatti, eccezione che conferma la regola, l’Ateneo ha sottoscritto un abbonamento al quotidiano economico Sole 24 Ore. Le copie cartacee arrivano in Crociera – la sala consultazione di Giurisprudenza - e vengono eliminate dopo qualche mese per essere conservate in cd-rom; è possibile anche accedere alla banca dati del Sole 24 Ore tramite i computer della rete dell’Ateneo. Non insensibili al problema dell’assenza dei quotidiani in università si sono dimostrati gli studenti di Scienze Politiche: dopo averne fatta richiesta alla direzione della Biblioteca, si sono visti attivare l’abbonamento online a Corriere della Sera, Repubblica, Liberazione, Il Messaggero, Il Manifesto, La Stampa e L’Unità. Un servizio attivo da un anno che offre due postazioni nella Biblioteca Enrica Collotti Pischel. Lidia Diella, direttrice della Biblioteca di Scienze Politiche, ci dice: «Proprio per venire incontro alla richiesta degli studenti e risolvere il problema spazi, abbiamo deciso di sottoscrivere l’abbonamento ai quotidiani nella versione online».


E invece i quotidiani c’erano, ma serve il vocabolario
Ai governi scandinavi sta a cuore la divulgazione culturale dei loro paesi e, tramite le ambasciate, fanno avere all’Università il settimanale svedese WeekendAvisen nonché il femminile Damernas (“Il mondo delle donne”) e due quotidiani norvegesi, Dagbladet e Aftenposten: li trovate nell’aula Lokrantz della sezione di Germanistica, sono ammucchiati sul davanzale insieme al quotidiano danese Dagens Nyhter. A carico di Germanistica è, invece, l’abbonamento al settimanale tedesco Die Zeit. Con ritardo di due mesi, alla Biblioteca del Centro Studi Stati Uniti, arriva il New York Times da vedere in microfilm. Quando c’è l’addetto alla macchina. E con la stessa cadenza arrivano in cartaceo gli inserti letterari del New York Times e di The Times.
Si aggiunga alla lista il settimanale inglese The Economist, arriva ogni tre mesi in cd-rom.
E che non si accusi la Statale di Milano di campanilismo.


Europa...leggere il "Corriere" in...
Danimarca, Federico Zuliani, studente Erasmus presso l’Università di Copenhagen: «Ho studiato alla facoltà di Teologia e lì avevano, oltre che i maggiori quotidiani nazionali, l’equivalente danese di Avvenire».

Germania, Beatrice Barbieri, studentessa alla Libera Università di Berlino: «Nella Philologische Bibliothek, oltre a quelli tedeschi, c’è almeno un quotidiano per ogni nazione: Corriere, Le Monde, El Pais. L’unico svantaggio è che magari il giornale è vecchio di due giorni, ho notato particolare ritardo di quelli italiani».

Polonia, Irena Putka, docente di Lingua polacca alla Statale di Milano: «Parlo dell’Università di Varsavia. Ai tempi degli studi andavo a consultare la Biblioteka Uniwersytetu Warszawskiego, lì si trovano i cataloghi delle riviste, comprese i quotidiani. Ci sono sempre Gazeta Wyborcza e Zycie Warszawy».

Francia, Marco Genre, studente Erasmus presso l’Università di Strasburgo: «Nella biblioteca di lettere ci sono arretrati e riviste; i quotidiani sono disponibili in uno scaffale apposito o nella versione online. Inoltre esiste un centro per imparare la lingua proprio con l’ausilio dei giornali».

Norvegia, Bard Sandvei, lettore incaricato alla Statale di Milano: «I giornali che si possono leggere nella biblioteca dell’Università di Oslo sono: Aftenposten, Dagsavisen, Dagbladet, VG, Adresseavisen, Bergens Tidende, e altri».


Finlandia, Valeria Siotto, studentessa Erasmus presso l’Università di Jyvaskyla: «La biblioteca dell’università mette a disposizione quotidiani sia italiani che internazionali».

Svezia, Anna Karenina Brannstrom, collaboratrice ed esperta linguistica della Statale di Milano: «In tutte le biblioteche universitarie svedesi ci sono tanti quotidiani, normalmente si tengono fuori, per consultazione i numeri della settimana in corso, e poi vengono archiviati. Ci sono anche quotidiani stranieri. Il quotidiano e tutte le altre riviste hanno un angolo a posta nelle biblioteche e sono a disposizione per la lettura in qualsiasi momento del giorno. Ci sono anche le poltrone vicino».

Irlanda, William El Ariss, lettore incaricato all’Università di Galway: «Ci sono quotidiani, settimanali, mensili, sia nazionali che stranieri, sia in versione cartacea che online».


La proposta di Vulcano.
Corriere della Sera e Repubblica; i due principali quotidiani nazionali: un abbonamento online presso una delle biblioteche delle facoltà umanistiche. E’ la richiesta avanzata da Vulcano alla direzione della Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza, Lettere e Filosofia. La direttrice, Maria Alessandra Dall’Era, ha assicurato che se ne parlerà al prossimo consiglio. Noi vi terremo aggiornati sull’evoluzione degli avvenimenti e vi invitiamo a dire la vostra sul sito del nostro mensile. E se la proposta venisse respinta, consolatevi, c’è sempre Vulcano.

a cura di Diana Garrisi

23 novembre 2006

TRIENNALE BOVISA

Apre a novembre a Milano una nuova sede espositiva: Triennale Bovisa, distaccamento della già nota Triennale di via Alemagna.
La scelta non è stata casuale: la Bovisa è un quartiere considerato ideale “per l’innovazione che sta conoscendo, frequentato da circa 200000 persone ogni giorno, già sede del Politecnico e futura sede degli studi televisivi di Telelombardia”, come si legge nel comunicato pubblicato sul sito della Triennale stessa.

Il progetto è dell’architetto Pierluigi Cerri, che ha curato la riqualificazione dell’area della stazione di Villapizzone: 2100 mq di spazio, 1400 mq dedicati a mostre ed esposizioni temporanee, più il bookshop, il caffè ristorante e altri spazi dedicati a concerti ed eventi all’aperto. “Quadri di sale”, realizzati da Bettina Werner, impreziosiranno le pareti del Bistrot Bovisa, segnaletica e arredo urbano, realizzati da studenti di design, condurranno i visitatori verso la sede, opere realizzate dai writers rinomati in are milanese decoreranno il sottopasso della stazione di Villapezzone.

Mostra inaugurale sarà quella dedicata ad Hans Hartung, con una collezione di opere che vanno dal 1922 al 1989, anno della morte: 200 tele dell’autore esposte accanto a disegni a china, schizzi, fotografie, e approfondimenti riguardanti l’interesse dell’autore per l’archiettura. La quantità e la qualità del materiale, selezionato dalla Fondazione Hans Hartung di Antibes, ultima residenza dell’artista ( presenti opere inedite o mai esposte in precedenza), rendono l’esposizione unica, sicuramente una delle più importanti in Europa dedicate al poliedrico autore, figura di spicco nel panorama novecentesco e profondo innovatore del linguaggio artistico.

Claudia Bernini

20 novembre 2006

SHANTARAM - GREGORY DAVID ROBERTS

Un romanzo di quasi 1200 pagine, un capolavoro realizzato in tredici lunghi anni, un viaggio verso i colori, i sapori e gli odori dell'India. E' davvero difficile condensare in una breve recensione tutto ciò che è questo libro: passione, amore, amicizia, vita. Queste sono le parole-chiave del senso profondo di Shantaram, "Un capolavoro...un romanzo che tocca la mente e il cuore, che appassiona e fa pensare" (Daily Telegraph).

Greg, evaso dal carcere di massima sicurezza di Pentridge in Australia, si trova all'aereporto di Bombay con i documenti di un certo Lindsay. Una città, quella di Bombay, della quale ci si innamora subito con i suoi stravaganti personaggi, i colori, le sofferenze degli slum e le ingiustizie di un mondo corrotto. Ma anche con una grande umanità, solidarietà e capacità di condividere tutto, nel bene e nel male. Ed è proprio da qui che inizia la storia del protagonista, o meglio, la sua nuova vita. Lin si in reinventerà dottore un ambulatorio, entrerà a far parte della mafia di Bombay, affronterà prima una guerra in Pakistan e poi una in Afghanistan, verrà imprigionato e torturato, verrà risucchiato dal vortice dall'eroina, reciterà nei film della magnifica Bollywood, verrà amato e tradito.

La corposità del libro forse può intimorire qualche lettore ma, credetemi, leggerete questo libro con avidità fino all'ultima riga e poi rimpiangerete di averlo terminato così velocemente. Con soli 22€ potrete affrontare uno splendido viaggio e una magnifica avventura nel cuore dell'India o forse nel cuore del mondo.

Melissa Ceccon

19 novembre 2006

INDIA. RACCONTO DI UNA PICCOLA VICENDA IGNOBILE NEL PAESE DELLE CASTE

Vi voglio raccontare una storia.

Bant Singh viveva nel piccolo villaggio di Mansa nel Punjab. Nato dalit, intoccabile, è costretto a portare il peso della sua disgraziata condizione sulle spalle. A sopportare l’ostracismo, a convivere con una totale assenza di diritti, a sopportare il disprezzo di tutti i gradini superiori della piramide della società. L’anno passato, la figlia minore di Singh venne violentata da un gruppo di uomini di casta superiore. Molte donne dalit vengono violentate. Gli uomini di casta superiore non esitano a violarle sessualmente. La loro superiorità sociale rende quest’atto di sopruso quasi una riconferma del loro potere. Dei loro privilegi ormai assodati. Ma Singh portò il caso in tribunale. Osò farlo. Osò mettere in discussione un assetto sociale secolare. Osò, dal basso della sua infima condizione, alzare la testa. Osò ribellarsi contro il destino che l’aveva fatto nascere intoccabile. E la corte condannò tre dei violentatori all’ergastolo. L’upper class del villaggio decise di punire tanta insolenza. Singh fu dunque picchiato a sangue. Preso a colpi di spranga. Spietatamente. L’ospedale del suo villaggio gli negò le cure. Quando finalmente venne portato nell’ospedale della città più vicina era troppo tardi. La cancrena era già in fase avanzata. I medici furono costretti ad amputargli entrambe le braccia e una gamba.

I dalit costituiscono il 30% della popolazione dello stato del Punjab, considerato il granaio dell’India, e la metà di essi vive al di sotto della soglia della povertà. Sono sottoposti a continui soprusi e atrocità- si nega loro persino la possibilità di attingere l’acqua ai pozzi dei villaggi. Ma la quasi totalità di queste violenze non viene denunciata. Per paura delle repressioni. E delle rappresaglie.

Soltanto la presa di consapevolezza e la conseguente rivendicazione dei propri diritti potrebbe far mutare la disperata condizione delle donne e dei dalit. Soltanto il loro rifiuto a sottostare ancora a quella centenaria indegnità attribuita loro dalle alte caste. E forse non è un caso che Singh fosse proprio un membro del Mazdoor Mukti Morcha, movimento che si batteva per i diritti dei lavoratori agricoli.


Chiara Checchini

LONDON CALLING. UN DISCO ANCORA ATTUALE.

Ci sono pochi dischi che riescono ad essere più attuali a distanza di vent’anni di quanto non lo fossero all’epoca della loro uscita. O perlomeno tanto attuali quanto lo erano allora.

London Calling dei Clash è probabilmente uno di essi.

Siamo nel 1979: sono passati poco più di tre anni da quando i Sex-Pistols scandalizzarono all’ora di cena la middle-class britannica con insulti e parolacce in tv. E’ dicembre e Margareth Tatcher è appena andata al governo. Sono profetici i Clash quando nella title-track del disco di cui stiamo parlando cantano: “See we ain’t got no swing except for the ring of that truncheon thing [Guarda, non c’è più niente di swinging a parte il roteare di quel manganello]”. Sta arrivando un’era di repressione che colpirà tutti: i minatori in sciopero, gli irlandesi, gli abitanti delle Falkland. E’ il clampdown, il giro di vite, il pugno di ferro.

Ma la rabbia che infiammava le strade tra il West End e Notting Hill Gate qualche anno prima nella furia del ‘77 non si è sopita. E’ una rabbia che discende da generazioni di sfruttati e di esclusi da sempre ai margini dell’Impero. E’ la furia del rudeboy che ha accompagnato i Clash nel ononimo film sulle loro tournè, e più indietro quella degli angry young men e di tutti i ribelli della storia inglese. Una rabbia anti-sistema che può farsi scorticante violenza (auto)distruttiva come nei molti gruppi punk di fine decennio o esuberante gioia vitale, ricerca di mescolanza, festa, condivisione. In fondo anche il Jimmy Porter di Ricorda con Rabbia di John Osborne, capostipite di tutti gli arrabbiati inglese, trovava pace tra un maltrattamento della povera moglie Alison e l’altro, suonando selvaggiamente la sua tromba e sognando il jazz dei neri americani.

Anche i Clash dopo due dischi di abrasive canzoncine punkettare -“Got no money, can’t get no power and so you are punk [Non hai soldi, non puoi aver potere e quindi sei punk]” - lasciano trapelare una cultura musicale per ora a stento trattenuta e un gusto per la contaminazione a 360° gradi. Le sonorità rozze e urticanti di appena un anno prima lasciano il posto a una girandola di suoni e stili provenienti da ogni dove.

C’e il reggae di Revolution Rock o di Guns of Brixton – canzone che rieccheggia gli scontri violenti tra polizia e immigrati giamaicani nell’omonimo quartiere londinese.

C’è il post-punk antithatcheriano di Clampdown e la new-wave sgargiante di I’m not down. E poi il roots-rock di Rudie can’t fail, il blues di Jimmy Jazz, lo shuffling ska di Wrong ’em boyo, le sonorità alla Blues Brothers di The Right Profile.

Ma anche il rock latin-sentimental-resistenziale di Spanish Bombs (canzone dedicata alla guerra civile spagnola) o il raffinatissimo pop “alienato” di Lost in the Supermarket (piccolo gioiellino sulla perdita d’identità dell’uomo contemporaneo nel mercato globale).

C’è di tutto in questo disco, da cui discende gran parte della musica che ascoltiamo ancora oggi, ma sopratutto c’è l’invito a scavalcare barriere e confini, geografie, e ghetti musicali, mentali e razziali, a lasciar interagire ad ogni costo musica e idee.

Al giro di boa col nuovo decennio i Clash regalano la perla della loro carriera. Pochi comprenderanno la loro lezione nel bailame consumistico dei primi anni ‘80. Solo poco per volta inariditisi i fiumi di elettropop decadente e new-wave plastificata che invadono l’Europa all’inizio del decennio rispunteranno qua e là i frutti del loro insegnamento.

Saranno a Parigi nelle notti “patchancose”, bagnate di birra e di suoni dalla Manonegra, tra il 15° arrondissement e Place Pigalle. O nell’Irland punk-folkettara dei Pogues. E poi più giù fino ai giorni nostri nella barricadera Tolosa degli Zebda, o nella Galizia variopinta degli Amparanoia o ancora nel cavanserraglio del Radio Bemba Sound System (alias Manu Chao). E poi, anche oltreoceano, a Città del Messico nello ska-rock latino dei Maldita Vecindad o a Buenos Aires, nella mezcla de estilos dei Fabulosos Cadillacs.

Ma la lezione di London Calling va oltre. Rispunta dovunque culture e musiche diverse si fondono insieme, nei corpi e nelle idee che si muovono senza sosta di paese in paese, nelle navi della speranza che superano dogane e trattati con il loro carico di esperienze umane da condividere.

Francesco Zurlo

IDILLIRIO ALPESTRE - PARTE PRIMA

La montagna è bruna, ancora più bruna nella luce del mezzodì. Mentre il sole si appresta alla discendente parabola verso le stazioni del tramonto, della sera-vespertina e della notte brumosa, resto così, immobile e animato da predisposizione contemplativa, ad osservare l’orizzonte curvo della pianura. Il silenzio è rotto dal ronzare di una miriade di piccoli insetti (coleotteri d’ogni marca e modello, formiche alate e micidiali mosconi minacciosi(micidiali per il dolore che, con caritatevole magnanimità di stampo che definirei “quasi ambrosiano”, dispensano ad ogni puntura)). A tratti, nel concerto d’ali vibranti, c’è gloria anche per qualche sparuto pesce che con un ‘plop’ e una bolla rompe la superficie dello stagno fagocitando un insetto impegnato in un assolo.

La brezza gioca ad essere vento poi desiste, riprende, e ancora si placa. La maglietta fredda a contatto con la pelle è una piccola persecuzione. L’inazione vince il fastidio è scelgo di lasciare le cose come stanno. Nel coperchio del cielo conto quattro nuvole bianche pascolanti al limitare dell’azzurra prateria. Avvertiranno anche loro la solitudine, in cotanta immensità?

Mi risulta naturale il confronto critico con il mio appartamento, una cella di condominio-alveare. Una manciata di metri quadri pittati dello stesso colore cereo della città di fuori. Finestre condannate a fissare eternamente la facciata del palazzo dirimpetto. E fuori l’abbaiare dei clacson e lo sferragliare del 16.

Le nuvole sono un poco più distanti, ora. Mi sento un inutile granello di polvere. Un inutile granello di polvere posato sul trasfigurarsi delle cose. Anche ieri notte mi sentivo così. Per questo sono scappato fin quassù. Cinque minuti fa credevo ingenuamente che la mia fosse una romantica e improbabile fuga da un mondo agonizzante. Ma questo mondo agonizzante me lo porto dentro. Tale dolorosa constatazione mi lascia un retrogusto amaro nel pensiero.
Non c’è riparo che valga, quando sei braccato da te stesso.

Guglie feriscono il cielo. Rocce dipingono fantasiosi arabeschi. Chiazze di neve s’accucciano all’ombra di monolitiche pareti. Limitar di boschi sfumano in ghiaioni inaccessibili. Con freddezza da notomista dimezzo un filone di pane. Rapido zigzagare di coltellino. Poi ingozzo il cadavere mollicoso di prosciutto crudo e mi preparo al fiero pasto.

Nel minuscolo stagno i girini disegnano sinusoidi con l’esile coda. Cotti da un implacabile sole allo zenit vanno a morire dov’è più fango che acqua. E nemmeno sanno d’essere esistiti.
Noi uomini abbiamo l’arroganza di dire “Io Sono”, “Noi Siamo”. Ma se il buon Dio (o chi per esso) ci avesse provvisto di coda, penso che l’agiteremmo in modo altrettanto stupido.

racconto di Enrico Gaffuri

17 novembre 2006

25 MARZO

E’ capitato tutto così. Un soffio di vite che in comune non avevano un bel niente. Di colpo legate, unite, una cosa sola.

-Avevo bucato. Con le gomme è sempre così. Le avevo bistrattate e forse dimenticate. Questa doveva proprio essere una loro vendetta.

-Nel fumo stantio del bar di paese, con ai muri la formazione dell’Inter 87’88 cercai solo di capire se ci fosse qualcuno e se quel qualcuno sarebbe stato in grado di aiutarmi o, meglio, tranquillizzarmi.

-Ero già entrato da parecchi secondi, almeno venti, quando sentii una voce. E forse solo allora mi scossi.

-Fu come svegliarsi. La luce filtrava con poca convinzione dalle finestre alle mie spalle, e la poca che arrivava al bancone illuminava pallide olive e salatini tristerelli.

-La voce mi fece sgranare gli occhi. E allora smisi di perdermi tra gli odori di bestemmie, bianchini e paginoni di Gazzetta. Davvero sembrava che nessuna legge antifumo fosse ancora giunta in quei luoghi.

-Sul bancone spuntavano posacenere colmi di cicche. Avevo gli occhi pieni di quel luogo. Forse li spalancai, credendo che altrimenti la voce non sarebbe mai potuta entrarci.

-Non risposi, né diedi cenno di intesa. Alla mia destra tra il fumo che si faceva più denso, indovinai la presenza di un’altra stanza.

-La cercai con strana convinzione. Notai che i miei passi non facevano alcun rumore. La cosa mi parve strana, perché il pavimento sembrava di legno.

-Eccola. Da subito trovai che la stanza avesse degli stucchi un po’ ridicoli. Almeno in alto, sul soffitto. Si intravedevano nonostante la nebbiolina. Le pareti, invece erano affrescate come oggi non si usa più. Quello che legava gli affreschi era il motivo del grappolo d’uva. Delle linee rosse, come fossero i nastrini che le bambine usano mettersi tra i capelli, collegavano i grappoli. Gli affreschi correvano su tutte le pareti della stanza e sembravano confluire in un punto che stava di fronte a me.

-Il camino attirava le linee, i grappoli e parte del mio sguardo. Io ero distratto dalle figure che si affollavano attorno ad un tavolino solitario. A lungo mi sembrò quasi che fossero disegnate.

-Quando mi avvicinai, capii quello che c’era da capire. Sul tavolo c’erano: un posacenere (al centro), una bottiglia di Fernet, una di Strega ed un’altra, senza etichetta.

-Sorrisi alle figure attorno al tavolo, e loro mi pregarono di accomodarmi accanto a loro. Continuavo a sorridere, senza curarmi dei miei occhi, di colpo lucidi.

- Il primo, alla mia destra, era robusto e rossissimo. Si vedevano le venine violacee tra gli occhi e le guance. I pochi capelli, bianchi, gli sparavano senza direzione sopra le orecchie. Il bicchierino che stringeva tra le dita tozze era sporco di Fernet sul fondo e scompariva nel suo pugno.

-Guardandomi, abbassò gli occhi, annegandoli in un sorriso amaro. Iniziò a parlarmi in dialetto. Io ero contento, perché lo capivo. Ma nel parlare sembrava che nemmeno avesse bisogno di muovere le labbra.

-Era preoccupato per il futuro, per la sconfitta definitiva dei suoi ideali. Aveva combattuto per una vita intera, e ora si ritrovava a dover ammettere di essere uno sconfitto.

-Il solo sentire certe cose, mi dava fastidio. Di discorsi pessimisti ne avevo sentiti fin troppi. Tuttavia capivo quanto questo vecchietto potesse soffrire. Sentii un’insanabile bisogno di trattenermi nell’accarezzare la sua pelle ruvida ma tolettata. Poi non le feci, ma forse cercai la sua mano. Volevo fargli coraggio. Partecipai col suo racconto al dolore per la sua casa data alle fiamme. Poi sentii di volergli solo un gran bene quando mi disse che anche lui aveva partecipato alla liberazione. Rimasi a guardare le sue mani gesticolare, senza riuscire a dire nulla, quando mi raccontò del suo amico Jonah, portato via e mai più ritornato.

-Fui invaso da dolcezza e leggerezza. Dalle macerie di una casa aveva salvato una ragazza. E su quelle macerie, nottetempo era tornato, e si era unito per sempre a lei.

-“Ho avuto anche io venti anni”

-Non seppi mostrargli quanto gli fossi grato.

-Di persone curiose ne ho viste davvero parecchie. Tuttavia, nelle occasioni in cui mi reputo una persona felice, so ancora stupirmi.

-La figura che si nascondeva dietro alla bottiglia di Strega iniziò a parlare presentandosi. “Mi chiamo Alda”, disse, “sono una persona molto anziana, perché ho più di 85 anni e fumare mi piace da morire”.

-Vestiva una camicetta a fiori, di quelle che io avevo visto sulla pelle di mia nonna e su qualche signora in estate. I capelli su quella testa canuta non avevano alcun senso, ma aveva degli occhi pieni di livore.

-Le sue parole erano dense e piene di ansia. Capii che aveva voglia di essere ascoltata. Mi ci misi di impegno. Mi accorsi in fretta che le sue parole danzavano, come farfalle coloratissime. Uscivano svolazzanti e senza direzione tra il fumo delle sigarette che si accendeva una dopo l’altra.

-Non saprei ripetere una singola cosa che mi disse. Ma la sua bocca sgranata e la sua voce ruvida mi facevano soffrire e avere rispetto insieme.

-La bottiglia senza etichetta si trovava a pochi centimetri dalla mano incerta dell’unica persona che non mi aveva ancora rivolto parola.

-Aveva due occhi enormi. Bagnati, umidi, inespressivi, impauriti. La mano era semichiusa.

-Subito pensai alla straordinaria bellezza che questa donna aveva dovuto possedere da giovane. La vedevo nella sua figura incerta ma elegante sbattere le palpebre e sorridere nutrendo le sue rughe.

-Mi guardava spaesata. Vedevo che le parole volevano uscire da quella bocca tesa ma proprio non ci riuscivano. Dannatamente a disagio, dissi, un po’ guardando lei e un po’ le altre due figure: “Sapete, ho bucato una gomma, ma mi riesce difficile tirar fuori anche solo un ragno da quel buco”.

-Nemmeno un sorriso. Nemmeno un gesto di comprensione.

-La splendida nonnina muta, senza dire nulla, riversò nelle mille rughe del suo viso tutte le lacrime di cui era capace.

-Il vecchietto col bicchierino sporco di Fernet mi mise una mano sulla spalla, (sentii che era una mano davvero stanca), e mi indicò un giradischi dalla parte opposta della stanza.

-Mi alzai deciso. Strinsi più mani possibile. Tutti cercavano di baciarmi, come fossi loro nipote.

-Non avevo mai visto un giradischi simile. Forse il nonnino aveva parlato di grammofono. Incerto, girai il disco e lessi sull’etichetta al centro del vinile: Glenn Miller Orchestra “Glenn’s Jive”.

-Posizionai il diamante dove l’incisione avevano inizio. Il disco, friggendo, mi diede coraggio.

-Prima fu buio. Poi il camino si mise a crepitare squarciando la tenebra. I grappoli d’uva, che non sembravano nemmeno più solo dipinti, presero un colore nuovo. E di colpo la stanza fu piena di gente.

-Ragazze giovani ed eleganti mi sfioravano. Ballavano. E con loro cavalieri in gessato. I miei jeans erano la cosa più stridente potessi indossare.

-Intravidi il tavolo. Sedeva solo la donna con la sigaretta. Era come un corpo altro. La musica non la interessava affatto. D’un tratto scriveva convulsamente su un tovagliolo.

-Poi, tra i frack e le scarpe di lucido vidi lui. Era il più scatenato. Ballava con una donna. Sembravano danzare a memoria, come se nulla dovesse essere aggiunto. Lei sorrideva, e lui, con i capelli pieni di brillantina faceva lo stesso. Ebbi il flash della sua mano sulla mia spalla, pochi istanti prima e fui confuso.

-Le mie All Star azzurre e arancione si accendevano come torce con il luccichio del camino.

-Ero buffo e ridicolo come un clown. Avevo i piedi grandissimi rispetto agli altri. Chi ballava me li pestava senza cura. Avrei preferito essere scalzo.

-Trovai una sedia. Levai le scarpe. Quando la vidi.

-Era proprio bella come l’avevo immaginata. Giovane. Gli occhi uguali. Pieni di tristezza e spessi di lacrime.

-Così, scalzo, andai sicuro da lei. Le toccai la mano. Abbassò gli occhi e si toccò la veste, che –ricordo- era bianchissima.

-Poi si lasciò cadere. La presi tra le braccia sfiorandole i seni. Cercai i suoi occhi.

-Candidi e dolci.

-Presi il suo viso tra le braccia. Provai il sentimento più naturale e privo di malizia. Desiderai la sua pelle giovane. Avvicinai le labbra al suo collo e lo sentii freddo.

-Non so raccontare con queste parole cosa si provi nel sentire una persona morire tra le proprie braccia. Di certo non posso dire sia una cosa bella. Nemmeno una cosa brutta. E’ una cosa che magari ti fa piangere.

-Quando piangi, e le lacrime seguono le linee del tuo viso, fino a sfiorarti le labbra. Allora capisci almeno di che gusto sia il pianto.

-La sofferenza, il dolore, il pianto possono nascere così. Da una ruota bucata, o da un richiamo non ascoltato. Per chi scrive, per chi fotografa, per chi suona il dramma è proprio questo: pensare ad altro.

-E per pensare ad altro non servono venti anni. Non ne servono ottanta. Servono orecchie e un paio di mani più o meno ben fatte.

racconto di Davide Zucchi