10 luglio 2005

INTERVISTA SUL VIAGGIO A DANILO MANERA

“Conta più la strada della meta. Conta più il vento della valigia.”


Danilo Manera insegna letteratura spagnola nella nostra università. Da sempre appassionato di viaggi, nella sua vita ha viaggiato tantissimo, sia fisicamente che attraverso la letteratura, l’attività giornalistica e di traduttore, la passione per le altre lingue e culture. L’abbiamo contattato per discutere con lui del significato del Viaggio e dei retroscena dei suoi viaggi; in particolar modo della “spedizione” da lui compiuta nella zona del Vaupes, remota ed “incontaminata” regione amazzonica della Colombia
.


Per cominciare, la domanda di rito: come è nato in lei l’interesse per il viaggio ed in particolar modo la passione per la Spagna e l’America Latina?

Sono nato nelle Langhe, in una cittadina della provincia piemontese. Contrariamente alla fama di immobilismo che ha, è terra di emigranti e scrittori, un posto limitato da cui partire, smentendo l’orizzonte di colline, anche per poi gustarsi i ritorni. In un primo tempo, sull’onda di Pavese e Fenoglio, rivolsi il mio interesse all’area anglofona, e contemporaneamente alla Francia, poi all’università di Pisa scelsi le lingue slave e infine m’appassionai allo spagnolo. Durante gli studi approfittai di tutte le borse di studio che mi venivano a tiro. Poi mi toccarono quasi due anni di servizio civile come obiettore di coscienza e nelle lunghe sere di quella pausa forzata, cominciai a sognare viaggi più lunghi, più in profondità, con un tesoro di storie e parole da riportare a casa. Presi così, appena possibile, la rotta dei tramonti, prima verso la Spagna, poi verso il Sudamerica.

Lei si è occupato molto - soprattutto attraverso la traduzione di testi di narrativa – dell’area caraibica. Un'area che purtroppo nell’immaginario collettivo è quasi esclusivamente legata ad un fuorviante stereotipo vacanziero ma che, credo, abbia una ricchezza culturale ben più ampia. Che cosa ci può dire a riguardo?

I Caraibi sono connessi con l’idea di paradiso, un luogo mite e dolce, precedente alle morali e alle ideologie, un luogo aperto dove infinite cose sono ancora possibili.

Purtroppo, l’idea di paradiso che rimane a tanti è quella misera e cartolinesca delle due settimane in spiaggia. Caraibi significa ballo e meticciato: una capacità di suonare e di mescolarsi. Lì il crogiolo etnico-culturale ha creato ritmi, pitture e scritture straordinarie. Io non mi stanco di proporre antologie di autori caraibici. Da ultimo L’isola d’acqua, un libro dedicato ad Haiti, al quale ha collaborato Marco Modenesi della nostra università e che accompagna il documentario di J. Demme The Agronomist, e due raccolte tradotte da allievi dei miei corsi, Onde, farfalle e aroma di caffè. Storie di donne dominicane e Fantasmario di Marcio Veloz Maggiolo.


Lei ha scritto molto su Cuba, collaborando anche a guide e vari libri fotografici dedicate a quell’isola. Cosa pensa delle recenti polemiche sulla situazione politica cubana, innescate circa un anno fa dalla condanna a morte di alcuni dissidenti e riaccesesi da qualche settimana a seguito dell’espulsione di alcuni giornalisti italiani sbarcati sull’isola in occasione di un congresso degli oppositori al governo di Castro?


Ho scritto ampiamente sul tema, che non è riassumibile. Rimando soprattutto al n.4 del 2004 della rivista di geopolitica «Limes». Ho grande rispetto per le sofferenze del popolo cubano, vittima dell’embargo statunitense. E un amore profondo per la cultura e i talenti dei cubani, il loro modo inconfondibile e umanissimo di stare al mondo. Sono per il dialogo e la solidarietà. Ma non confondo Cuba con Castro. I castristi sono chiusi a ogni verifica o divergenza, demonizzano l’interlocutore con rituali da caserma, negano ogni cittadinanza alla diaspora. Invece, per il movimento civile, utopico e pacifista di cui mi sento parte i diritti umani, la libertà d’espressione e associazione, la partecipazione pluralista, l’ecologia, la valorizzazione delle diversità, il rispetto delle minoranze sono presupposti irrinunciabili. L’odio e la repressione non sono una risposta. Nemmeno l’inamovibilità dei capi. Certo, la situazione è difficile, ma spero che si smuova e che i cubani sappiano sviluppare la loro alternativa al neoliberismo in modo davvero libero.

Il viaggio più bello che lei ci ha raccontato credo sia quello svolto nella zona dello Vaupés in Colombia, da cui è nato il libro Yuruparí. I flauti dell'anaconda celeste. Come è nata l’idea di riprendere una spedizione di un esploratore ottocentesco - Ermanno Stradelli - nell¹Amazzonia colombiana e ripercorrerne il tragitto?

Le spinte sono state tante. Ne citerò due. La versione più elaborata della leggenda di fondazione dei popoli del nordovest amazzonico si conserva in italiano grazie alla sensibilità di Stradelli, che era anche un linguista d’eccezione: a lui si devono grammatica e dizionario della lingua franca di quei territori. Stradelli era affascinato dal diverso e disposto a capirlo. Inoltre, nei giochi di bambini, io e mio fratello stavamo sempre dalla parte degli indiani contro i cowboys. Una volta nella vita, ci tenevamo a vivere un po’ con una tribù indigena. È stato emozionante e complesso, ma ha richiesto una lunghissima preparazione.

Cosa le ha lasciato quell’esperienza a contatto con le usanze, le leggende, i miti di popolazioni lontanissime dallo stile di vita occidentale?

Tantissime cose. Relativismo di fronte al “progresso” e alle “verità”, pena per quel che perdiamo e togliamo alle generazioni future con l’attuale omologazione al ribasso, spianata oltretutto sui modelli più sciocchi. Gratitudine per la disponibilità degli indigeni tucano e dei colombiani. Un’amaca appesa in una stanza della mia casa milanese. Quell’aculeo di cerbottana della nostalgia che si sente per ogni cosa lontana che un giorno è stata tua. Qui più forte perché dal Vaupés è meglio che tutti i bianchi stiano lontani, anch’io. E l’impegno a far sì che la scrittura sia una canoa che scivola su un fiume, che a sua volta è l’anima disciolta di una canoa. Gli sciamani tucano dicono che l’anaconda ancestrale trasportò le genti nel suo ventre in forma di pesci e ancora adesso gli uomini nascono dall’acqua profonda delle donne in cui c’è la stessa geografia di fiumi e cieli e sogni che poi troveranno fuori, dove splende l’anaconda celeste come un latteo sentiero luminoso.

Quale legame pensa ci sia tra letteratura e viaggio? Crede sia possibile in qualche modo viaggiare attraverso la letteratura?

Caspita! I libri sono il miglior mezzo di trasporto che c’è. Ho sempre pensato alla biblioteche come porti da cui salpare. Ho sempre viaggiato sulla scorta di letture e i viaggi hanno a loro volta prodotto scritti. Senza contare che ci sono terre che esistono solo nella memoria e nella fantasia, a cui si va soltanto grazie alla letteratura. L’osmosi è antichissima, perché la letteratura ha bisogno di spaesamento e di moto: da Ulisse a Don Chisciotte, da Dante a Ibn Batuta, da Marco Polo ai cantastorie, dagli scienziati illuministi ai vagabondi on the road.

Centrale in tutta la sua produzione giornalistica e letteraria sul viaggio, mi sembra, personalmente, il concetto di “rispetto” . Rispetto per i luoghi visitati e le genti incontrate. Pino Cacucci, un altro grande esploratore dei paesi latinoamericani, ha scritto che «il contatto con l’altro a qualsiasi latitudine [deve iniziare] con un gesto di resa incondizionata, la rinuncia ai propri schemi e abitudini». Qual è la sua opinione a proposito?

Sono d’accordo con Cacucci. L’incontro con l’alterità è un’occasione unica. Guai a perderla perché si ha in tasca un copione e foschia negli occhi. Si viaggia per cambiarsi, non per confermarsi. Già il viaggiatore Montaigne diceva che sapeva da cosa fuggiva, ma non cosa cercava. E che l’incessante diversità di vite incontrate sul cammino era la miglior formazione per l’anima. Poi ci vuole anche molta, spregiudicata curiosità.

Sintetizzando, qual è il consiglio principale che darebbe a chiunque sia appresti ad un viaggio che non voglia solo essere un’evasione o una vacanza, ma piuttosto un’esperienza conoscitiva consapevole e intelligente?


Conta più la strada della meta. Conta più il vento della valigia. Contano più i passi o i compagni di viaggio degli orari o degli acquisti. Non c’è un manuale, ma una disposizione a trovare il proprio modo di camminare. Un giorno lo si riconosce in un ciottolo, un riflesso di luce, un sorriso, una nenia, una foglia, un silenzio, una vicenda letta o raccontata in forma inattesa. Allora tempo e spazio coincidono e si sente che la vita è, machadianamente, tracciare scie sul mare.


A cura di Francesco Zurlo



Chi è Danilo Manera?

Danilo Manera (Alba 1957) insegna Letteratura spagnola contemporanea all'Università degli Studi di Milano. Narratore, traduttore, critico letterario e giornalista di viaggio, ha collaborato ai quotidiani «L’Unità» e «Il Manifesto» e alle le riviste «MicroMega» «Avvenimenti» e «Limes». Attualmente dirige la rivista «Crocevia». Ha curato la traduzione italiana di parecchi importanti scrittori spagnoli nonché antologie di autori baschi, della Galizia e delle Canarie. Si è occupato molto anche di letterature slave. Ultimamente si è dedicato soprattutto dell’area caraibica, curando diverse antologie di scrittori cubani (ricordiamo perlomeno A labbra nude. Racconti dall’ultima Cuba, Vedi Cuba e poi muori,) e domenicani (I cactus non temono il vento). Per quanto riguarda il tema del viaggio ricordiamo, oltre a Yuruparí. I flauti dell’anaconda celeste, la partecipazione a diversi speciali di «Tuttoturismo» e di «Meridiani» sui paesi carabici e ad alcune guide turistiche su Cuba.



5 luglio 2005

KOUFOUNISSI, A LARGO DELLA GRECIA.

Qui, chiaramente non stiamo a parlare di solite vacanze alternative in posti che alternativi non sono per niente. Il mio obbiettivo è quello di parlare di un’isola greca nelle Cicladi che può benissimo far parte di un itinerario, più o meno prestabilito, nel quale convivono “isole fashion” (Ios, Mykonos, Santorini) e isole quasi totalmente escluse dalle più comuni cartine turistiche.

Kofounissi sembra prestarsi bene all’esemplificazione. C’è da sottolineare infatti una cosa: l’isola è frequentata perlopiù da studenti milanesi che hanno la presunzione di aver trovato la Grecia libera o alternativa, di essere usciti dal terrificante idioma italiano che domina quasi totalmente le già citate “isole fashion”. Invece pochi minuti dopo l’approdo del traghetto della compagnia greca che fa il giro di quasi tutte le isole, la parlata italiana imperversa tra coloro i quali, rigorosamente in stile milanese, ovvero senza il minimo spiraglio di comunicazione tra i gruppi di villeggianti, attendono sulla banchina deserta di fronte ad una collinetta con quattro case bianche e blu, un emporio povero e immalinconito e una distesa di terra e erba bassa e arsa: anche il tipico vento isolano non esiste più. Attendono cosa? Dove sono i pescatori che urlano prezzi e numero di letti senza specificare il numero di stanze? Dove sono le indicazioni; anzi: dove sono le strade? A queste domande un pulmino del 1982 FIAT (italiani/greci: una faccia, una razza) saprà dare risposte. Il conducente scende frettoloso e muto (ma non è sordo e non vedente) e carica i bagagli di tutti sul tetto con rapidi e sapidi movimenti: così alla rinfusa zaini, borse e valige si librano nell’aria e ricadono. Allora potrai finalmente sentire l’impareggiabile suono di lamiera che infrange qualcosa di tuo.
A quel punto è chiaro che è necessario salire sul modello FIAT e seguire i propri effetti personali.
I milanesi, stipati e sudati, attraversano in pochi minuti la longitudine dell’isola (più piccola della circonvallazione interna, tanto per capirci): solo terra, sassi ed erba bassa si concedono per farsi ammirare. Non una casa, un insediamento… una villanova. La destinazione è una spianata desertica dove sorge un campeggio senza ombre: a quanto pare è l’unico approdo disponibile per dormire e mangiare. Insomma è chiaro che su Kofounissi l’unica possibilità è: mare profumo di mare. E infatti la costa è sorprendente: proprio a pochi metri dal campeggio si stende una lunga spiaggia di sabbia fine che prelude ad uno dei mari più limpidi delle Cicladi; ma non basta. Proseguendo e inerpicandosi oltre il litorale sabbioso, l’isola offre una sorta di concentrato di coste per ogni esigenza: calette rocciose e sabbiose, piccole piscine naturali, minuscole grotte, immerse nel silenzio più totale in un panorama che oltre a piccoli cespugli alti massimo un metro non ospita costruzioni umane e segni di movida o più semplicemente di “vida” vissuta. L’acqua marina, specialmente nelle calette rocciose è trasparente e ghiacciata, tanto da poter sicuramente esclamare: “E’ proprio trasparente. E’ proprio ghiacciata.
Camminare sotto il sole senza un alito di vento per raggiungere questi spettacoli è molto meno stancante che agitare la testa su e giù fino alle sei del mattino in qualunque posto di Mykonos: cosa che peraltro si può fare a Mykonos e non arrivare fino a Kofounissi. L’acqua delle docce (fredda e salata) e le porte dei bagni (divelte o rotte in più punti) non scalfiranno l’umore, allorché sorgerà verso sera una strana domanda: ma la luce elettrica fuori dal campeggio dov’è? Ed è lì che, con un po’ di pazienza, il cielo vi regalerà la luce (non divina): le stelle sono tante milioni di milioni. La stellata di Kofounissi è spettacolare. E’ la cosa migliore che possa capitare. Probabilmente. E non è “retorica del buon governo”.

Kofounissi non è alternativa perché è battuta verosimilmente tanto quanto le isole fashion, ma è comunque diversa; non è neanche in alternativa perché può essere abilmente complementare.
Verso qualsiasi destinazione delle Cicladi, comprare il biglietto solo per la prima fermata dalla partenza: è un risparmio notevole ma non equo e solidale.

Fabrizio Aurilia

ANAFI, ISOLA SENZA TEMPO

Anafi. Poche miglia marine in line d’aria da Santorini. Nei giorni limpidi la si riesce anche a scorgere, nell’azzurro dell’egeo, dalla Caldera di Santorini. Santorini centro del turismo organizzato, fulcro delle Cicladi. Isola connessa da decine e decine di traghetti che dal Pireo o dalle altre cicladi rigurgitano turisti a getto continuo sulle spiaggie di Thira.

Ad Anafi invece ci arrivano solo due traghetti alla settimana. O almeno dovrebbero, dal momento che - dice la Lonely Planet - le navi per questa piccola sfuggente isola hanno orari incerti e inaffidabili. Quando ci andai io, un anno fa, le navi attraccavano al suo piccolo porto di Agios Nikolaos, solo il mercoledì e il sabato. La permanenza minima sull’isola era quindi di quattro giorni. Ricordo il traghetto che sobbalzando su un mare poco piacevolmente inquieto, liberatosi dalli sciami di ragazzini italiani o tedeschi diretti in isole ben più note e mondane, viaggiava lento verso questo scoglio perduto in mezzo all’Egeo. A bordo erano rimasti solo uno sparuto gruppo di viaggiatori curiosi e i rifornimenti per questa isola sperduta.
Già la prima impressione, arrivando, fu quella di un luogo deserto, piacevolmente lontano da ogni forma di turismo organizzato. Un piccolo porticciolo, le reti gialle dei pescatori distese sul molo, un piccolo spaccio alimentare, poche case, una corriera che inerpicandosi per una strada tortuosa portava alla Hora, il capoluogo (o meglio l’unico centro abitato di rilievo dell’isola).

Rimandai al giorno dopo la visita alla cittadina, e invece, cercando un luogo per dormire, scoprì che l’unica opportunità, oltre ad una serie di domatie ormai da tempo già affittate ad altri turisti, era l’accampamento su Livadi Beach, la prima delle spiagge dell’isola. Una piccola meravigliosa spiaggetta orlata di palme, a cui si giungeva attraverso un minuscolo sentiero in costa, inerpicandosi tra piccole casette in affitto e taverne che emanavano profumo di souvlaki o pesce fresco.
La sera andammo a mangiare in una di queste taverne, sorta di locale terrazzato con vista sul mare. Sul tavolo il menù era poco più che un soprammobile, redatto chissà quanto tempo prima. L’unico modo per sapere quello che Ileni, la padrona del locale, aveva preparato quella sera, era farsi accompagnare per mano da lei in cucina, in mezzo a pentoloni odoranti di briam, e taglieri con gli avanzi di pesce liscato. Un donnone imponente, che parlava in greco stretto, infilando solo qua e là i nomi in inglese delle vivande, pronunciandoli con un suo strano accento cicladico, quasi più indecifrabile del greco stesso.
Quella sera chiaccherendo con Artemis, la figlia della proprietaria - l’unica che parlasse inglese in tutta la taverna- e con altri avventori italiani, scoprì molte cose sull’isola. Che d’inverno era abitata da solo 250 abitanti. Che ogni estate - fatta eccezione per i viaggiatori curiosi come me - sull’isola si vedevano sempre le stesse facce, giunte a conoscenza di quell’angolo remoto del Mediterraneo solo attraverso improbabili passaparola. Mi raccontò anche che i campeggiatori “selvaggi” di Livadi Beach avevano instaurato un buon rapporto con la gente locale; la stessa gente che invece mal sopportava la selva di fricchettoni nudisti –in prevalenza greci- che stazionavano da ormai due mesi sulle spiaggia di Rakuna (una spiaggia poco più in là sull’isola) tra bonghi e canne.
Mi disse inoltre che solo la parte dell’isola su cui ero sbarcato era abitata e “praticabile”. Cioè che la quattro o cinque spiaggie allineate una dopo l’altra su quel lato dell’isola erano collegate da una strada (l’unica insieme a quella che conduceva alla Hora) la quale terminava nei pressi di un piccolo monastero. Li, aggiunse, si trovavano anche i resti di un tempio di Apollo e ciò che rimaneva di un castro veneziano in rovina. Sull’altra parte dell’isola invece niente strade –ci si poteva arrivare solo via mare.
Artemis infine mi racconto la storia del suo fratello diciannovenne che il giorno dopo partiva per il militare. Mi disse che lui come altri giovani dell’isola vivevano in una strana condizione d’incertezza tra l’attaccamento ancestrale all’isola e la fuga verso Atene e il mondo civilizzato. Tornai anche le altre sere in quella simpatica taverna a mangiare pesce e prendere il fresco

La mattina dopo invece andai su alla Hora. La corriera s’inerpicava lenta sui numerosi tornanti, in mezzo al tipico paesaggio cicladico, aspro e brullo, a tratti quasi lunare. Ricordo appena sceso dalla corriera il vento fortissimo - che scoprì dopo non essere affatto un’eccezione lassù, ai 200 metri del villaggio - che spazzava l’ammasso di case bianche dell’abitato. La Hora. Un labirintico intrico di vicoletti tortuosi, nei quali perdersi in mezzo a fili di biancheria stesa al sole cocente, azzurri vasi ricolmi di gerani rossi come melograni, vecchi che riposano all’ombra di un muro crepato, casupole di calce bianca dalle imposte dipinte di blu scurissimo. Una selva di carruggi, passaggi, scalinate per cui s’arrampicano donnine rugose, avvolte nelle loro tipiche lunghe vesti nere, portando pesantissimi sacchi della spesa.
Anafi è questo e quasi nient’altro. Un villaggio di pescatori sperduto nel mare, un’oasi di grecia autentica in mezzo (o meglio ai margini) di un arcipelago che (fatta eccezione per poche isole, forse le sole Folegandros e piccole Cicladi) viene sempre più fagocitato dal turismo di massa. Una piccola comunità di pescatori che cerca tanto disperatamente quanto tranquillamente, con sorniona indifferenza, di rimanere attaccata al suo “verghiano” scoglio. La faccia di un Europa lontana, diversa, recalcitrante alla massificazione, all’ avvilente appiattimento culturale della società occidentale globalizzata.Un’isola ancora incomtaminata, ai margini di tutto, fuori da ogni rotta, sospesa nel suo incanto senza tempo.

Francesco Zurlo