26 luglio 2009

25 luglio 2009

COCCODRILLO N.1 Commemorazioni improbabili

Si è spento nella notte, nella sua casa milanese, il professor Giulio Giorello.
La camera ardente sarà allestita in aula 211 in via Festa del Perdono. – Un luogo, l’università – ha detto il suo assistente – che il professore avrebbe sempre desiderato visitare.
Pare che le sue ultime parole, pronunciate all’amico Odifreddi, accorso al suo capezzale, siano state - Piergiorgio, soffro le pene dell’inferno! -. Il matematico avrebbe risposto sorpreso - Di già?
Notoriamente anticlericale, ha compiuto un importante gesto di distensione nei confronti della Chiesa, chiedendo i conforti di un sacerdote. Questi però, dopo 7 ore di confessione, avrebbe chiesto una dispensa per far usufruire il filosofo del Lodo Alfano.
Smentito il cardinal Ruini che parlava di una sua conversione in punto di morte, come già (a suo dire) Gramsci, Oscar Wilde, Gengish Kahn e Buonconte da Montelfeltro. Il filosofo non avrebbe infatti detto – Non mi resta che il perdono! -, come udito dal presule, bensì – Era Festa del Perdono! -, ricordandosi improvvisamente il dimenticato indirizzo dell’università
In molti hanno voluto lasciare il loro personale ricordo del professore. – Nessuno era buono come lui agli esami, pensate che non ha mai bocciato nessuno – ha detto un suo studente, dimenticando forse che l’ultima volta in cui Giorello ha preso parte a un esame aveva 23 anni e doveva ancora laurearsi. Un altro, in lacrime, ha mormorato con la voce rotta dal pianto – Ascoltare le lezioni del suo assistente non sarà più la stessa cosa…

Cordoglio anche in via Solferino, sede del Corriere della Sera, dove alcuni redattori hanno espresso forte preoccupazione – Non sarà facile riempire le sue 8 righe sul Magazine del Giovedì – è stato il loro commento.
Infine, ha destato grande sorpresa la lettura delle ultime volontà di Giulio: il filosofo infatti ha lasciato tutto al ministro Brunetta. – Gliel’avevo promesso – spiega in calce al documento – affinchè ritardasse l’inserimento dei tornelli in università.

Addio Giulio, la tua assenza non potrà essere colmata neanche dal migliore assistente!
Filippo Bernasconi

22 luglio 2009

IL MÀRE MÀGNUM DELLA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI:

LA CHIUSURA DELLE SSIS E IL PROGETTO ISRAEL

Le Ssis non esistono più. Da cosa saranno rimpiazzate?
La camera dei deputati il 5 agosto 2008 ha approvato in via definitiva la conversione del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 che prevede, al comma 4 ter dell’articolo 64, la sospensione delle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario, le Ssis, per l’anno accademico 2008-2009.
Questo significa che il decimo corso del ciclo Siss non ha potuto vedere la luce, lasciando un numero consistente di aspiranti insegnanti a interrogarsi sul proprio destino.
La Siss, in attività dal 1999, prevedeva l'avvio di corsi su base regionale (per esempio la scuola lombarda, conosciuta con l’acronimo di SILSIS), calcolando l'entità di posti disponibili. Dopo due anni e 1200 ore di lezione, gli specializzati potevano accedere alle graduatorie attraverso cui era stabilita l'assegnazione delle supplenze e delle cattedre. Con la sua cancellazione non è molto chiaro cosa succederà.

Qualche mese fa, Il ministro Maria Stella Gelmini ha dato vita a una commissione, presieduta dal professore Giorgio Israel e composta da docenti universitari e funzionari del ministero, con lo scopo di elaborare un regolamento per la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, atta a riempire il vuoto lasciato dalla cancellazione della precedente normativa. Il risultato ottenuto è una bozza di regolamento che dovrebbe diventare legge al più presto.
Il testo prevede un percorso formativo diversificato per la scuola dell’infanzia e primaria e per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Nel primo caso si tratta di un corso di laurea magistrale quinquennale a ciclo unico a numero programmato, comprensivo di tirocinio da avviare nel secondo anno di corso. Per le secondarie invece è previsto un corso di laurea magistrale biennale (a numero programmato per quanto riguarda l’insegnamento alla scuola media inferiore), successivo alla laurea triennale generalista, più un tirocinio della durata di un anno. Per le classi di abilitazione all’insegnamento alla scuola di secondo grado, l’accesso al tirocinio è a numero chiuso e programmato dal MIUR, che comunicherà periodicamente agli Uffici Scolastici Regionali il fabbisogno di personale docente, per riceverne il numero di posti da attivare per ciascuna classe e da assegnare a ogni ateneo.
Di grande rilevanza è il tirocinio formativo attivo, consistente in tre gruppi di attività:
Insegnamenti di scienze dell’educazione;
Tirocinio svolto a scuola sotto la guida di un insegnante affidatario (il cosiddetto tutor);
Insegnamento di didattiche disciplinari.
I docenti tutor e i docenti coordinatori dei percorsi di tirocinio sono scelti dal Consiglio di laurea magistrale tra un novero di candidati proposti dai dirigenti scolastici. Il tirocinante, a conclusione del proprio percorso formativo, deve essere in grado di integrare a un livello culturale e scientifico le competenze acquisite nell’attività svolta in classe e in materia psicopedagogia.

Attorno al progetto, come emerge dal nostro colloquio con la professoressa Silvia Pizzetti, è sorto immediatamente un fervido dibattito, in è evidenziato lo spazio preponderante dato all’Università nella formazione dei docenti. Il mondo accademico però è distante dal mondo della scuola, soprattutto per quanto riguarda la formazione sul campo e la gestione delle classi. È necessaria dunque una riflessione su cosa sia fondamentale apprendere per interagire in modo efficace con i ragazzi, per questo la scuola ha chiesto maggiore partecipazione nel metodo formativo. Inoltre il percorso di formazione annuale insiste con forza sugli aspetti di contenuto e sui saperi, riaprendo una vecchia controversia tra disciplinaristi e pedagogisti sull’impronta da attribuire, evidenziando la necessità di “avere contenuti fondamentali per avere reali competenze”.

In ambito accademico però, il timore sorto è che l’attuazione del progetto passi nel silenzio, a causa della combinazione negativa di alcuni fattori, primo fra tutti l’esistenza di un precariato “storico” che non si può eliminare e che necessita di collocazione. Infatti, bloccando la possibilità d’accesso alla formazione del futuro corpo docente, si potrebbe avere il tempo di assorbire i “vecchi” precari, soprattutto gli insegnanti di materie umanistiche, i cui posti scarseggiano, a differenza delle domande che sono in continuo aumento. Anche questa soluzione però deve fare i conti con la politica di bilancio governativa, che ha l’ultima parola su qualsiasi decisione.
In secondo luogo c’è la necessità di ridurre gli alti costi dell’istruzione pubblica attraverso una consistente diminuzione del corpo docente. Progetto già messo in atto con la finanziaria 2008 che prevede un turn-over molto rigido, che riduce a sua volta la possibilità degli attuali precari di trovare collocazione.
Infine, la mancata concretizzazione del progetto, comporterebbe una ridiscussione dello stesso e la possibile reintroduzione del vecchio concorso nazionale. Ipotesi, quest’ultima, che è vista con favore dalle associazioni di rappresentanza professionale, che tornerebbero ad avere un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dei precari, grazie al peso politico detenuto.
Completamente diversa invece la situazione se la bozza fosse approvata dal consiglio dei ministri: in questo caso, nell’arco di pochi mesi, il progetto Israel avrebbe attuazione già nell’anno accademico 2010/2011 e la formazione degli insegnanti riprenderebbe a pieno ritmo.
Non ci resta che attendere…attendere che dall’alto qualcuno risponda a un sempre più pressante interrogativo di mucciniana memoria: “Che ne sarà di noi?”

Michela Giupponi

20 luglio 2009

Intervista ad Aljarida: il primo giornale arabo-italiano

Da ormai qualche mese, per le strade di Milano e per le aule dell’Università Statale, s’incrocia e si sfoglia uno nuovo free-press, frutto dell’iniziativa di un gruppo composto principalmente da studenti di Mediazione linguistica e culturale: “Aljarida”, ovvero il giornale. Un format giornalistico bilingue, in arabo e in italiano, che cerca di avvicinare due culture non distanti tra loro quanto sembra. Palla al balzo, abbiamo intervistato la redazione per voi.

Parlateci un po’ di quest’iniziativa: di che si tratta?
Si tratta del primo free press per immigrati, del primo giornale bilingue e della prima redazione di nazionalità miste a Milano.

Come e quando è nato il progetto?
L'idea è nata nel 2006. Per prima cosa abbiamo avviato una versione online sul sito http://www.aljarida.it/, successivamente abbiamo cercato finanziamenti e sponsor per poter uscire in cartaceo.

E il primo numero, quando è apparso?

Un'anteprima è stata lanciata all'Immigration Day del Milano Film Festival (settembre 2008). A ottobre è uscito il Numero 0.

Vi siete ispirati a qualche format giornalistico già esistente all’estero o siete una novità non solo per l’Italia?
Siamo una novità. Esistono giornali molto simili al nostro ma sono in una sola lingua, sono a pagamento ed escludono le associazioni e la società civile, che trova invece in Aljarida, uno spazio di visibilità e di auto-espressione.

Anche l’impaginazione è originale. E' per rendere meglio la fruibilità delle informazioni nelle rispettive lingue?
L'orizzontalità del giornale è nata per scherzo, ma ha ottenuto successo. Il motivo è la volontà di avere sempre i testi a fronte, confrontabili e utilizzabili per lo studio dell'italiano o dell'arabo, due alfabeti che scorrono in direzioni opposte, si incontrano e convivono in un’unica pagina. Il lettore italiano è abituato a sfogliare da sinistra verso destra, mentre il lettore di un giornale arabo inizia la lettura da destra. Per confrontarsi e conoscersi quindi, devono entrambi fare un piccolo sforzo e cambiare la propria prospettiva.

Al momento da chi è composta la vostra redazione?
La redazione fissa è formata da sei ragazzi e ragazze di diversi paesi del Mediterraneo. I collaboratori sono decine. Alcuni sono operatori di associazioni di volontariato in Italia e all'estero, esperti di tematiche legate all'immigrazione, giovani ragazzi italiani e arabi che vogliono raccontarsi.

I pezzi vengono scritti e tradotti dallo stesso redattore bilingue o esiste qualcuno che si occupa appositamente della traduzione?
Spesso sono separati. gli articoli vengono scritti in italiano o in arabo e un piccolo gruppo si occupa delle traduzioni. Ci sono voluti mesi di lavoro per trovare una forma scritta di arabo "classica", corretta grammaticalmente ma allo stesso tempo semplice e comprensibile da chi parla diversi dialetti arabi.

A che tipo di pubblico si rivolge? Esiste un target specifico?
Aljarida ha l'ambizione di avere più di un target. L'obiettivo principale è la conoscenza reciproca. Il target arabo è rappresentato da coloro che hanno difficoltà a capire le notizie italiane, la normativa (specialmente riguardo all'immigrazione) e non riesce ad esprimersi in italiano. Il pubblico italiano è rappresentato dall'immenso mondo associativo, da studenti di lingua e da tutti coloro che credono che il mondo arabo sia qualcosa di più che un campo di addestramento per terroristi.

Dove distribuite Aljarida?
Viene distribuito nelle zone di Milano in cui vivono comunità italiane e arabe: San Siro, viale Jenner, Maciachini, Loreto, via Padova, Calvairate, Corvetto. I punti di appoggio principali sono esercizi commerciali arabi, scuole di italiano per stranieri, associazioni, agenzie di trasferimento di denaro e telefonia, esercizi italiani rivolti a immigrati e sedi di istituzioni e fondazioni.

Quali sono state le principali difficoltà organizzative che avete dovuto affrontare?
Non avendo alcun capitale abbiamo sempre lavorato come volontari, in aggiunta alla nostra personale occupazione. Il tempo, la disponibilità, l'organizzazione e la divisione pratica del lavoro si è modellata e ha preso forma dopo innumerevoli errori e incomprensioni. Ora che abbiamo ingranato, ognuno ha capito quali sono le proprie competenze da valorizzare.

A livello sociale, che impatto avete avuto? Dalla tiratura attuale sembra ci sia stata un’ottima risposta del pubblico.
Siamo partititi con 2000 copie. Sparivano in poche ore e venivano richieste da scuole di italiano, associazioni, CTP di tutta Italia. Abbiamo aumentato la tiratura a 5000 copie e ancora non riusciamo a soddisfare le richieste. Il sito, ancora molto amatoriale, riceve oltre 2000 visite al mese da tutta Italia e da molti paesi arabi. Parecchie realtà sociali ci hanno inoltre preso come punto di riferimento per comunicare con la comunità araba di Milano.

Ci sono state delle critiche o avete rilevato dei pregiudizi nell’introdurre questa novità giornalistica alla cittadinanza milanese?
Purtroppo non ci sono state critiche. Il lavoro è piaciuto fin da subito a tutti. Soltanto alcuni giornali hanno parlato in modo negativo di “un’iniziativa che vuole aiutare gli irregolari”.

E all’interno della comunità araba come è stata accolta questa iniziativa?
Molto bene. Ai lettori piace molto, anche se dobbiamo ancora trovare il giusto equilibrio tra "notizie per italiani" e "notizie per immigrati". Anche i rappresentanti delle diverse comunità, religiose e non, ci conoscono e apprezzano il nostro sforzo per mettere in contatto le due realtà.

Se qualcuno fosse interessato a collaborare con voi quali sono i vostri contatti?
L'indirizzo e-mail è info@aljarida.it e dal sito si possono inviare direttamente messaggi e accedere a molte informazioni. Per quanto riguarda un luogo fisico, siamo itineranti, ospitati da diverse associazioni e scuole di italiano. Presto ci stabilizzeremo in zona S.Siro (Zavattari).

Quali prospettive avete per il futuro?
Il futuro è decisamente difficile. Il giornale, nato grazie a (minimi) finanziamenti pubblici sta cercando entrate pubblicitarie che oggi, anche a causa della crisi, faticano ad arrivare.

Essere parte di una redazione unica in Italia come quella di un FreePress ItaloArabo, rende affascinanti e cuccadores? O cuccadolores?
Sicuramente cuccadores. Ma questo rende automaticamente noi cuccadolores. In moltissimi ci vogliono conoscere, incontrare, proporre idee, iniziative, contatti. Noi però restiamo sempre lo stesso numero di studenti-lavoratori e il lavoro del giornale si accumula in un attimo. Comunque sia, senza tutta la vivacità di coloro che in qualche modo hanno collaborato, oggi non avremmo la forza di andare avanti. Grazie!

Alice Sinisi
Denis Trivellato

19 luglio 2009

SEDOTTA E ABBANDONATA

Recentemente Milano ha ospitato la nuova performance della gettonatissima artista genovese Vanessa Beecroft. Immancabili i prezzemolini della nightlife, i pii adepti al culto dell'esserci e orde di manager si sono riuniti davanti ai cancelli del PAC. Oltre alla sua straordinarietà, l'evento ha acquisito valore perché sintomatico dell'involuzione che sta caratterizzando il rapporto tra la cultura e il suo pubblico: un sentimento non più sincero ma utilitaristico, spinto dall'impetuosa diffusione di quella economia della cultura e dell'arte che, serpe perniciosa, striscia tra i mortificati pavimenti universitari.
Giovani manager ormai si muovono tra happening e vernissage alla ricerca dell'affare. Non più artisti, studenti e intellettuali, ma ambiziosi commercianti regolamentano l'antica anarchia dell'intelletto. Ma la cultura può rinunciare al suo piccolo ritaglio di libertà? Può ridursi a crematistica? Può contaminare quel che resta della propria verginità? Prima il corteggiamento era lungo, ora l'amore dell'inseguimento erotico tra il pretendente e la sua amata è stato sostituito dall'arte della sveltina. La cultura più che donna è donnetta, costretta, per sopravvivere, ad avere un valore, a costare. Non si cerca più: Si quantifica, Si possiede. Non più appassionati amanti, ma code di clienti si assiepano fuori dal suo giaciglio, pronti a prenderla per pochi minuti. Tutti la vogliono, ma i gentiluomini sono ormai rimasti pochi. Allora, come chiedeva Alfredo Jaar lo scorso inverno, dov'è la cultura? Senza amore, senza casa, rischia di sopravvivere comatosa solo nelle parole mediatiche dei benpensanti, illusa di aspettare l'uomo della sua vita.


Corrado Fumagalli

17 luglio 2009

L'ITALIA DEI CATTIVI PRIMATI:

Nel panorama dei media italiani sono molte le notizie che, per quanto rilevanti, scivolano inesorabili in secondo piano, dietro le tinte più accattivanti della cronaca. Ciò accade in particolare se queste notizie si rivelano non propriamente lusinghiere per il nostro paese. E’ questo il caso dei risultati di due recenti statistiche, che hanno messo in luce due nuovi primati italiani molto indicativi: sia per quanto riguarda la libertà di stampa che il numero medio dei laureati tra i 25 e i 34 anni, il nostro paese si rivela infatti un fanalino di coda.

LIBERTA’ DI STAMPA…

“La stampa in Italia non è più pienamente libera” è la conclusione di Freedom House, istituto di ricerca che promuove la democrazia liberale, riguardo al nostro paese. Secondo l’associazione infatti la libertà di stampa si starebbe deteriorando in molte parti del mondo. L’Italia non fa eccezione, passando dalla categoria “free” a quella “partly free”.
Freedom House è un’associazione con sede negli Usa, che pur proclamandosi indipendente è finanziata all’80% dal governo statunitense. Fondata nel 1941 (tra gli altri da Eleonor Roosevelt), da allora stila una classifica sul livello di democrazia in generale, e dal 1980 uno sulla libertà di stampa in particolare.
Nell’Europa occidentale solo la Turchia condivide il nostro poco invidiabile status, mentre subisce un brusca riduzione di libertà anche la Grecia, raggiungendo le altre maglie nere europee: Francia, Malta e Cipro (che però restano nella categoria “free”).
La notizia, potenzialmente epocale, ha destato poco rumore in Italia: alcuni l’hanno trovata scontata, altri eccessiva, i più non ne sono venuti a conoscenza.
Altre volte Freedom House è stata criticata per le sue conclusioni, ma in passato le critiche arrivavano da parte sovietica (l’eccessiva occidentalizzazione dei criteri era l’accusa principale). Se in questo caso l’obiezione sarebbe del tutto fuori luogo, è lecito chiedersi come si possano stabilire criteri oggettivi per rilevare qualcosa come la libertà di un paese. Freedom House ci prova, per quanto riguarda la stampa, valutando prima di tutto la legislazione in materia di libertà d’espressione. In secondo luogo cercando le ragioni che di fatto possono ridurre lo spazio di manovra del giornalista: l’eventuale rapporto di dipendenza di chi scrive con il potere politico e i possibili ostacoli al lavoro d’indagine (minacce o denunce).
La motivazione principale per la retrocessione italiana è ovviamente la concentrazione dei mezzi di comunicazione nelle mani del premier, oltre alle intimidazioni che i giornalisti ricevono attraverso i tribunali (sono ormai frequentissime le denunce miliardarie) e quelle, in realtà non numerosissime, da parte di gruppi di estrema destra (si allude soprattutto alla spedizione punitiva neofascista alla sede di Rai tre dopo una puntata di “Chi l’ha visto?”)
Le conclusioni dell’istituto americano ci autorizzano a parlare di regime in Italia? No. Sempre Freedom House, riguardo al livello di libertà politica, considera l’Italia saldamente democratica. Ci autorizzano però a dire quello che molti sembrano aver dimenticato: in un fondamentale aspetto del dibattito democratico, in Italia non si sta giocando ad armi pari.

Filippo Bernasconi

…E ISTRUZIONE

E’ percezione diffusa, anche tra noi studenti, che la laurea sia ormai un titolo di studio piuttosto comune, soprattutto nella sua formula triennale. I fatti però ci restituiscono una realtà ben diversa. I dati dell’ultimo rapporto dell’Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione europea, rivelano infatti che, se l’Europa viaggia su una media del 30% di laureati nella fascia di età tra 25 e 34 anni, con paesi come Francia, Spagna, Danimarca, Svezia e Regno Unito che si attestano intorno al 40%, l’ Italia raggiunge appena il 19%, con una media di poco superiore agli ultimi posti della classifica (Slovacchia, Romania e Repubblica Ceca).
Il dato è già abbastanza emblematico per catturare l’attenzione. Questo fattore già significativo però, si accompagna anche al manifesto fallimento dell’università italiana come strumento di promozione sociale. La possibilità di conseguire titoli di studio superiori a quelli dei nostri genitori è piuttosto esigua: tra i laureati della fascia di età tra i 25 e i 34 anni infatti, solo il 9% proviene da famiglie a “basso livello di formazione”. Un dato che ci vede alla pari solo con Polonia e Lettonia.
Naturalmente, passando ad una fascia d’età più elevata, i dati non sono certo più incoraggianti: nel range anagrafico tra i 35 e i 44 anni, la media italiana scende infatti al 14%, contro una media europea che si stabilizza attorno al 25%.
C’è insomma una notizia buona e una cattiva. Quella cattiva è che il nostro paese, in tema di istruzione superiore, non riesce a schiodarsi dagli ultimi posti delle classifiche, in particolare per il numero di laureati, che nonostante stratagemmi come il 3+2 resta uno tra i più bassi d’Europa.
La buona notizia è che noi laureati o futuri tali, agli immancabili commenti sarcastici di amici e parenti sul fatto che “la laurea, ormai, ce l’hanno tutti” avremo dati alla mano con cui ribattere. Potremo fregiarci di un titolo di studio la cui rarità può costituire forse un motivo d’orgoglio personale, ma che per il nostro paese è un dato sicuramente amareggiante.

Laura Carli

15 luglio 2009

BOTTINO DI GUERRA

Argentina: figli e figlie per l'identità e la
Giustizia contro l'Oblio e il Silenzio

Rosa compare sullo schermo accompagnata dal suono dei tamburi. La vediamo uscire dalla stazione di Cordusio, i tamburi continuano a suonare anche all’inizio della scena successiva, e si fermano quando l’inquadratura si fissa su Vittoria e Raul che fanno colazione. I Ramos, Raul e Vittoria, sono i genitori di Javier; ora vivono a Como, ma si sono trasferiti dall’Argentina poco dopo la nascita di Javier. Anche Rosa viene dall’Argentina, da Buenos Aires, e il ritmo ostinato dei tamburi l’accompagnerà per tutto il film, fino alla fine, quando Vittoria e Raul non potranno più metterli a tacere, quando diventeranno anche il suono di Javier.

In “Figli/Hijos”, Marco Bechis ci racconta la storia di Rosa e Javier, rapiti alla nascita dai golpisti nell’Argentina del ’77. Javier è stato rapito da Raul Ramos, pilota dell’aeronautica militare, che dal ’76 all’80 ha partecipato ai voli della morte, durante i quali i militari buttavano in mare i propri detenuti politici: quelli che passeranno alla storia come scomparsi, desaparecidos. Maria è invece stata salvata dall’ostetrica che ha assistito sua madre durante il parto, e che ha nascosto la bambina in una borsa, mentre la madre e il fratello gemello venivano portati via dai militari.
La storia di Rosa e Javier è una storia inventata, ma è simile alle tante storie di bambini rapiti, apropiados, dai militari argentini durante il periodo della dittatura, dal 1976 al 1983. I casi di apropiación denunciati dalle associazioni umanitarie sono circa 500, e 97 sono i figli di desaparecidos che fino a oggi hanno recuperato la propria identità, l’ultima a febbraio di quest’anno. I rapimenti di tutti questi bambini, figli del nemico interno, fanno parte del terrificante piano di genocidio ideologico messo in atto dalla giunta militare, battezzatasi eufemisticamente Processo di Riorganizzazione Nazionale. L’autolegittimazione arriva il 24 marzo del ’76, quando i golpisti, capitanati da Videla (esercito), Massera (marina) e Agosti (aeronautica), si insediano alla Casa Rosada, e subito danno inizio ad arresti e sparizioni. Sindacalisti e promotori degli scioperi sono le prime vittime. Tra gli obiettivi del Processo, oltre a quello di riempire il vuoto di potere formatosi durante il peronismo, c’è infatti soprattutto lo sradicamento di ogni elemento di contestazione, per il raggiungimento un ipotetico ordine sociale.
E i bambini dei sovversivi in questo quadro di violenza sono considerati bottino di guerra. Macchiati dalle colpe dei genitori, quei “figli di sinistrorsi” dovranno crescere in “ambienti ideologicamente sani” (Santiago Omar Riveros, generale golpista). E il luogo migliore perché i figli dei desaparecidos diventino figli della patria sono proprio le famiglie dei militari, di chi con il regime collabora o chi, per avere quello che vuole, chiude semplicemente gli occhi. Le donne incinta detenute nelle carceri clandestine sono considerate alla stregua di incubatrici, torturate quanto basta perché i figli non ne risentano e uccise subito dopo il parto. Per l’apropiación ci sono poi vere e proprie liste d’attesa in mano a carceri e ospedali: i bambini più quotati sono quelle di coppie di bianchi, che possono non creare alcun sospetto nell’alta società argentina, ancora in buona parte di origini europee.
Non tutti i figli di desaparecidos avranno lo stesso destino, qualcuno finirà in orfanotrofio e sarà adottato da famiglie normali, che nulla avranno a che fare con il regime, e che in alcuni casi li aiuteranno anche a ritrovare i genitori biologici. Queste rimangono però eccezioni, nella maggior parte dei casi i bambini cresceranno all’oscuro delle proprie origini, senza sapere di aver vissuto tutta la vita con gli assassini dei propri genitori. E non mancano neppure abusi e maltrattamenti fisici o psicologici.

Nel 1982 il Proceso entrerà finalmente in crisi: iperfinlazione, crescita del dissenso, manifestazioni di piazza e scioperi sempre più partecipati. La sconfitta nella guerra delle Malvinas contro il Regno Unito costringe infine il governo agonizzante a indire libere elezioni. Il 30 ottobre la nomina a Presidente della Repubblica di Raul AlfonsÍn, dell’Unione civica radicale segna così il ritorno alla democrazia. Nel 1983 AlfonsÍn istituisce il CONADEP (Comisión Nacional sobre la Desapareción de Personas), che redigerà l’anno seguente il rapporto Nunca Más, sui crimini e le violenze della dittatura. Il bilancio è agghiacciante: nei sette anni della sua durata, il governo militare ha fatto sparire oltre 30.000 persone. Chiunque fosse ritenuto oppositore del regime, o conoscente di oppositori, veniva sequestrato, incarcerato, e il più delle volte fatto desaparecer, ucciso in volo, quando non dalle torture. Nel 1984 cominciano anche i primi processi ai colpevoli, ma i militari, che ancora non hanno smesso di esercitare il proprio potere tentacolare, costringono infine il presidente a firmare due leggi infami, la Obediencia Debida, e Punto Final. La prima riconosce i militari gerarchicamente inferiori come non direttamente responsabili dei crimini commessi, perché costretti a eseguire gli ordini dei superiori; la seconda stabilisce l’estinzione delle azioni penali nei confronti dei militari responsabili di violenze a atti criminali fino al 10 dicembre 1983, a esclusione degli apropiadores di minori. Entrambi i provvedimenti verranno giudicati incostituzionali e abrogati nel 2005, ma permetteranno l’impunità a migliaia di assassini che continueranno a vivere accanto ai famigliari delle loro vittime.

Oggi, dopo più di vent’anni dalla fine della dittatura, in un paese che sta pian piano cercando di uscire dal buio della propria storia, le possibilità di trovare tutti gli oltre 400 hijos mancanti si fanno più deboli, ma non si sono ancora spente. Dal 1977 le Abuelas de Plaza de Mayo non hanno mai smesso di cercare i propri nipoti, i figli dei propri figli desaparecidos, e con loro le Madres, e le tante associazioni che continuano a spendersi perché sia fatta luce e giustizia.
La volontà di fare qualcosa, di pretendere giustizia contro l’impunità dei militari porta nel 1995 anche alla nascita di H.I.J.O.S., l’associazione che raccoglie i figli dei desaparecidos che sono alla ricerca della propria identità e rivendicano la lotta dei propri genitori scomparsi per una società più giusta. In collaborazione con le Abuelas e con gli altri gruppi che si occupano di difesa dei diritti umani, gli hijos continuano a promuovere una cultura fatta di verità, giustizia e solidarietà. Accogliendo l’eredità dei loro padri, delle Madri e delle Nonne, gli hijos manifestano in piazza il loro dissenso. Mentre però la protesta di Madres e Abuelas era silenziosa, circolare e contraddistinta dal bianco dei fazzoletti che tuttora portano al capo durante le manifestazioni, gli hijos usano musica, striscioni e colori per scuotere le vie cittadine. Gli escraches, rivelazioni, o sputtanamenti, in una tradizione più colorita ma puntuale, servono proprio a togliere i criminali golpisti dal loro comodo silenzio civile. I volti dei responsabili più famosi, quelli che sono stati giudicati e incarcerati sono infatti ormai noti a tutti, ma coloro che hanno sfruttato le leggi di impunità per sfuggire alle proprie colpe vivono ancora indisturbati, magari senza che i vicini ne conoscano la vera identità. L’escrache, dinamico e incisivo, raccoglie l’attenzione generale con manifesti, volantini, cartelli e graffiti che denunciano l’identità e i crimini impuniti degli assassini, davanti alle loro case e ai posti di lavoro, perché tutti vedano e sappiano.
Ed è qui, con le colorite e chiassose manifestazioni degli Hijos che torna il suono dei tamburi di Rosa e Josè; un suono ostinato, magnetico e liberatorio, perché la violenza di questa storia sanguinaria non si ripeta mai più, nunca más.

Giuditta Grechi
Riferimenti/per saperne di più:
- Marco Bechis, Figli/Hijos (2001)
- Italo Moretti, I figli di Plaza de Mayo, Sperling & Kupfer, 2002
- http://www.nuncamas.it/
- http://www.abuelas.org.ar/
- http://www.hijos-capital.org.ar/

14 luglio 2009

DIALOGO NEL BUIO

L’essenziale è invisibile a gli occhi. Così affermava nel “Piccolo principe” Antoine de Saint-Exupéry. Non occorrono, infatti, per percepire quelle linee invisibili chiamate emozioni e sentimenti.
Ma se la vista è un senso fondamentale, probabilmente quello su cui oggi l’uomo fa più affidamento, in via Vivaio le cose vanno un po’ diversamente: nel 2005 l’Istituto dei Ciechi di Milano ha allestito una mostra-itinerario per conoscere e capire i metodi e gli espedienti utilizzati da un non vedente nella vita di tutti i giorni. Come? Portando il visitatore nella totale assenza di luce.
C’è chi la paura del buio l’ha superata da tempo, chi si muove bene nell’oscurità degli ambienti conosciuti. Ma non tutti i giorni si rimane nell’oscurità totale. Qui si impara a conoscerla.

La visita dura poco più di un’ora e cerca di ricreare esempi comuni di vita quotidiana: una passeggiata nel parco, il traffico cittadino, gli spostamenti in casa, una gita al lago. Non sono richieste particolari abilità, solo il desiderio di mettersi in gioco, con l’ausilio di una guida non vedente, un bastone per avere il senso della misura e i restanti quattro sensi.
All’inizio una guida specializzata, dopo aver presentato brevemente la mostra, cerca di aiutare il visitatore a prendere dimestichezza con il luogo. Il passaggio al buio totale infatti non è immediato: luci sempre più soffuse accompagnano il visitatore fino al vero inizio della mostra.
Il tutto parte come un gioco, una sorta di mosca cieca ordinaria e abusata durante l’infanzia, ma presto si trasforma in una nuova prova da sperimentare: tatto e udito, odorato e gusto, sembrano risvegliarsi dopo un lungo letargo, e con essi anche la consapevolezza si desta e fa capire quanto poco sappiamo percepire ad occhi chiusi. Dopo un lungo vagare in ambienti sconosciuti ogni passo compiuto ha quasi il sapore di un trionfo.

Il non sapere cosa si troverà, con chi ci si scontrerà, provoca un senso di smarrimento e successivamente di immedesimazione con chi questa realtà la vive nel quotidiano, così diversa, e spesso più complicata, rispetto a quella cui siamo abituati.
Lo si nota in particolare alla fine della visita, consumando un piccolo aperitivo al bar. Parlando si commenta l’esperienza appena vissuta insieme alla propria guida, il tutto rigorosamente al buio. Qui si imparano piccoli stratagemmi per riconoscere il denaro o per non rovesciare la bevanda su nessuno. Ma soprattutto si parla. Il protagonista in tutto questo, infatti, non è il buio che avvolge e a tratti può spaventare: è il dialogo. Senza di esso i visitatori - tendenzialmente i gruppi sono formati da non più di otto persone per volta - non riuscirebbero a proseguire una volta iniziato il viaggio. L’importanza della parola aumenta notevolmente, trasformandosi in un mezzo potente, capace di eliminare gli impedimenti fisici e caratteriali che a poco a poco si incontrano: mentre si prosegue, infatti, non solo influenza ogni nostro singolo movimento ma allo stesso tempo combatte le difficoltà dovute alla timidezza e l’esitazione. Si impara così a diffondere solo l’essenziale: la comunicazione diventa percettività, la condivisione con il gruppo necessaria.

La mostra non ha limiti di età, aperta a grandi e piccoli, alle scuole e ai privati. L’Istituto dei Ciechi inoltre offre molte altre iniziative anche al di fuori della mostra: il Cafénoir - aperitivi e cene al buio- spettacoli teatrali e visite al museo tattile, sempre nella sede di via Vivaio. Maggiori informazioni si possono trovare sul portale http://www.dialogonelbuio.org/ .
Senza dubbio un metodo innovativo e efficace che dà l’opportunità di comprendere le difficoltà e gli ostacoli di un non vedente. Un’esperienza unica nel suo genere, che ci ricorda che “non occorre guardare per vedere lontano”.

Luisa Morra

L’alfabeto Braille venne inventato nel 1821 dal francese Louis Braille, divenuto cieco in gioventù, per permettere ai non vedenti di leggere. Successivamente, attraverso macchinari più complessi, venne utilizzato anche per scrivere.
Il sistema, molto semplice, si fonda su una serie di simboli composti da al massimo sei puntini in rilievo. Ai 64 caratteri possibili, corrispondono significati diversi. Vista la loro limitatezza, ad ognuno possono corrispondere più valori, ad esempio una lettera, un numero e una nota musicale.
Benchè esistano software per convertire un testo dai caratteri latini, il lettore non vedente ha esigenze particolari, leggendo con la mano e non con gli occhi.
Denuncia però Cecilia Trinci, responsabile di uno dei due centri specializzati in Italia, sempre meno sono gli esperti in grado di farlo. Nel suo centro fiorentino (l’altro è a Monza), vengono prodotte 200 mila pagine all’anno, che bastano però appena a coprire le richieste di testi scolastici.
Se non si interverrà incentivando la formazione di esperti, il rischio è che i molti non vedenti italiani si trovino ancora più al buio.

13 luglio 2009

EDITORIALE GIUGNO 2009

Voglio intonare un requiem per il Mom. A costo di risultar tamarro, superficiale o patetico. Per quelli che non lo conoscono, il Mom è un piccolo locale in viale Montenero. La sera, fino a un paio di mesi fa, accoglieva sulla collinetta antistante una fiumana di ragazzi in libertà. Soprattutto il mercoledì sera, sdraiati sul prato, seduti sulle panchine, (pochi) in strada e sui marciapiedi. Le birre a due euro in mano. A chiacchierare e ridere, a conoscersi. Dai truzzi ai fricchettoni. Una minaccia universale, insomma. Certo: alcuni mi rompevano davvero le palle con quei bonghi. Più di Elio & le Storie Tese. Altri lo avevano scambiato per un coffee shop all’aperto. Ma l’altro giorno, quando ho visto la collinetta recintata da inferriate alte due metri, appuntite come lance (mancavano solo i pentoloni d’olio bollente sui rami e i cecchini), ho provato smarrimento puro. “Toh! ecco il nostro Paese in miniatura”, ho pensato. Ecco come si sta riducendo, grazie alle nostalgie di questo governo. Chiuso, e inospitale, e ostile. E Amen.

Luca Ottolenghi

10 luglio 2009

Kafka e Shakespeare sulla spiaggia - I consigli di lettura dei professori della statale

Cos’hanno in comune l’Irlanda, Kafka, Jorge Amado e Vulcano? Che l’Irlanda, Kafka e il bravissimo scrittore brasiliano fanno tutti parte dell’universo di consigli letterari che Vulcano ha radunato per le vostre letture estive. Per rinfrescare i vostri pensieri accaldati abbiamo infatti chiesto nuovamente l’aiuto di alcuni dei nostri professori, che come già due estati fa ci hanno fatti entrare nel mondo privato delle loro letture personali. Qualcuno ci ha prima chiesto se doveva indicarci testi propedeutici alla propria materia, salvo poi correggere il tiro, specificando che preferiva non consigliarci libri – cito testualmente – “pallosi”. Qua e là è possibile ancora rintracciare le orme diffuse di una professionalità/passione accademica: la professoressa Sini – stilistica e semiotica del testo - consigliando Dona Flor e i sue due mariti cita il sempiterno Bachtin (“ogni senso festeggerà la sua resurrezione”), e Negri – storia dell’arte contemporanea – ci segnala l’autobiografia di Gabriele Mucchi, poliedrico artista internazionale che ha visto e vissuto per tutto il Novecento e oltre. Forse anche noi ci stiamo abituando a leggere e scegliere le nostre letture assecondando le forme dei nostri studi. Pensate alla diversità di linguaggi e moduli dei libri che abbiamo in mano tutto l’anno, dalla complessa architettura di un libro di diritto, alla babele polimorfa di un manuale di linguistica, all’alfabeto cifrato di un testo di matematica. Ma immutato può rimanere il nostro piacere nell’addentrarci con lo sguardo in una nuova storia, nel seguirne i personaggi, non importa in fondo se reali o fittizi, e nel diventare per un po’ anche noi parte di quella storia.
Questi i titoli dei libri scelti per voi dai professori e le spiegazioni dettagliate che ci hanno fornito per ciascun testo.


EVA CANTARELLA, Diritto greco
- Corrado STAJANO, La città degli untori, Garzanti

Un racconto su Milano tra passato e presente, dalla peste del 600 alla stage di piazza Fontana all' uccisione di Guido Galli (magistrato milanese, altro eroe civile, accanto a Giorgio Ambrosoli). Per i più vecchi, per non dimenticare; per i giovani, per sapere e riflettere su quel che è accaduto a quella che veniva detta la capitale morale (e non solo a lei).
- Fabio ISMAN, I predatori dell' arte perduta, Skira
Il racconto appassionante e spaventoso della più grande ruberia mai subìta dal nostro paese: il furto e il traffico delle opere d'arte. Un furto di cui i grandi responsabili sono altri da noi: i tombaroli, i ricettatori, gli antiquari, i musei e le case d'aste. Ma di cui ci rendiamo complici quando cediamo alla tentazione di acquistare il "concetto" che, decontestualizzato e inutilmente conservato nelle nostre case, contribuisce a sottrarci la cosa più importante che abbiamo, il nostro passato.


MAURO CARBONE, Estetica contemporanea
- Slavoj ZIZEK, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri
E’ appena uscito in italiano un libro del vulcanico filosofo e psicoanalista di Ljubljana Slavoj Žižek. Abita a pochi chilometri dall’Italia, ma da noi non è ancora molto conosciuto. Eppure insegna anche a Londra, e negli Stati Uniti è una star. Ogni suo libro è un'inesauribile miniera di idee, intuizioni, suggestioni con cui si può magari anche non essere d’accordo, ma che senz’altro producono sempre lo stesso benefico effetto: danno da pensare. Qualcuno obietterà che d'estate pensare no grazie? Attenzione: Žižek è tutt'altro che un autore concettoso, parola che sembra inevitabilmente richiamare la rima con noioso! Il libro appena uscito s'intitola Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo (Bollati Boringhieri, Torino 2009), ma non occorre essere interessati al pensiero di Lacan per trovarlo molto stimolante. A capirlo bastano i titoli di alcuni suoi capitoli, come “Lacan spettatore di Alien” o “Lacan spettatore di Casablanca”. Perché Žižek ha la straordinaria capacità di leggere la nostra epoca così confusa attraverso film, libri o canzoni. Addirittura attraverso barzellette, slogan, spot pubblicitari! Perciò, anche se non siete interessati a leggere Lacan, leggete Leggere Lacan. Ne uscirete con qualche idea in più per leggere voi stessi e la vita di noi tutti oggi.


MARIA TERESA CARINCI, Diritto del lavoro
- Joseph SMITH, Il lupo, Bompiani
Il lupo di Joseph Smith racconta in prima persona la sua storia, i suoi pensieri, le sue sensazioni, le sue emozioni. Ci fa partecipi delle paure e delle gioie, delle vittorie e delle sconfitte che sperimenta chi affronta da solo l’immensità del mondo (il gelo dell’inverno, la fame, il silenzio, la scoperta della preda, l’incontro con l’uomo…) e vive con coraggio e intensità l’ignoto. Una storia molto coinvolgente, metafora delle sfide che attendono ognuno di noi.
- Margherita OGGERO, Il compito di un gatto di strada, Einaudi
Ci sono dei limiti all’amicizia? No! Anche un gatto di strada e un rocchetto di filo possono essere amici… Anzi, nel viaggio che li condurrà insieme dall’Italia all’Inghilterra ciascuno imparerà molto grazie alla diversità dell’altro. E’ il racconto surreale su un’amicizia impossibile, ricco di colpi di scena, di episodi deliziosi, di tratti psicologici assolutamente realistici. Per chi ama sorridere di fronte alla ricchezza della vita.

CLAUDIO LUZZATI, Filosofia del diritto
- Murakami HARUKI, Kafka sulla spiaggia, Einaudi

È un romanzo costruito sul modello del realismo magico, pieno di fantasia e di colpi di scena, scritto benissimo da uno dei maggiori scrittori giapponesi contemporanei, che permette (senza troppe prediche) di meditare sulle conseguenze delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Il protagonista è un ragazzo d’oggi che fugge di casa per ritrovare se stesso e incontrerà vari personaggi strani, tra cui uno strano vecchio in grado di parlare con i gatti.
- Ernesto ROSSI, Il manganello e l'aspersorio, Kaos
È un vecchio libro di uno dei più interessanti e coerenti scrittori laici italiani. Racconta i rapporti tra la chiesa e il fascismo, in tempi in cui Pio IX chiamava Mussolini l’uomo della provvidenza. Molto istruttivo e storicamente documentato, anche se si tiene lontano dal politically correct, utile per un giovane odierno per rendersi conto del nostro passato, spesso frettolosamente rimosso.


ANTONELLO NEGRI, Storia dell’arte contemporanea
- Paul LAFARGUE, Diritto alla pigrizia, Porfido
Considerato che si è tutti un po’ stanchi, a questo punto dell’anno, si potrebbe trovare conforto in un classico pamphlet del secondo Ottocento, Il diritto all’ozio di Paul Lafargue - Diritto alla pigrizia nella più recente traduzione italiana – che un po’ paradossalmente, ma non troppo, in fondo, capovolge l’idea del diritto al lavoro. Credo che Lafargue ci credesse davvero; poi la storia ha dimostrato come la questione della disoccupazione non fosse così facile da risolvere, però… D’altra parte, uno studente di lettere può leggere Il diritto all’ozio pensando al mito dell’età dell’oro, alle Georgiche di Virgilio (pure molto consigliabili, ma non al mare).
- Gabriele MUCCHI, Le occasioni perdute: memorie 1899-1993, Mazzotta
Quanto a letture più vicine al mio mestiere, suggerirei l’autobiografia di Gabriele Mucchi, un artista vissuto in tre secoli (1899-2003) e che ha fatto il pittore, l’architetto e il designer. Dai suoi ricordi – sull’asse Italia-Germania-Francia – emerge un racconto vivace e vitale delle vicende artistiche del Novecento: di uomini, fatti e opere vien fuori un’immagine molto diversa, e ben più ‘in diretta’, di quella che si è abituati a conoscere attraverso saggi e manuali troppo accademici.
- Luciano BIANCIARDI, La vita agra, Bompiani
A controbilanciare l’utopia del Diritto all’ozio, potrebbe non essere male leggere (o rileggere, per quelli della mia generazione) La vita agra di Luciano Bianciardi, storia di amori e di ideali forti ma moribondi nella Milano bellissim-bruttissima, protorampante, degli anni Sessanta. Nonostante il Mereghetti le dia un modestissimo asterisco e mezzo – cioè mezzo punto in più di Abbronzatissimi con Jerry Calà – a me pare consigliabile (almeno ai fanatici, se la trovano) la versione filmica del romanzo (regia di Lizzani, 1963), con il vero primo Jannacci che canta e suona live in osteria.


STEFANO SIMONETTA, Storia della filosofia medievale
- Heinrich BÖLL, Diario d'Irlanda, Mondadori
Un piccolo gioiello, per accompagnare il viaggio di tutti coloro che quest'estate avranno la fortuna di vedere anche solo un frammento dei cieli d'Irlanda e per portare un pezzo di quella terra a casa di chi trascorrerà i prossimi mesi altrove
- William SHAKESPEARE, Riccardo II, Garzanti
Perché il corso monografico che ho tenuto quest'anno mi ha fatto scoprire che molti dei nostri studenti non conoscevano questo dramma storico, il cui protagonista, una volta incontrato, non si dimentica più.

STEFANIA SINI, Stilistica e semiotica del testo
- Jorge AMADO, Dona Flor e i suoi due mariti, Garzanti

L'ho letto più di quindici anni fa e me lo ricordo ancora come se l'avessi letto da qualche mese. Mi ha sempre stupito la fedeltà della mia memoria ai colori e ai sapori di questo romanzo del grande autore brasiliano. Uno dei casi meglio riusciti di presenza non banale di ricette di cucina nel tessuto della narrazione. Scorrevole e affabile la scrittura, ben costruito l'impianto, grondanti di vitalità i personaggi. E soprattutto: ho riso tantissimo! Come direbbe Michail Bachtin, "ogni senso festeggerà la sua resurrezione".
- Bohumil HRABAL, Ho servito il re d'Inghilterra, E/o
Anche questa è una lettura di molti anni fa, e anche in questo caso la mia memoria trattiene ostinatamente il gran piacere di un gran ridere. Un'ilarità che percorre da cima a fondo la trama ben congegnata delle avventure di un apprendista cameriere in un mondo di soprusi e ipocrisia, dove la grande storia fa capolino con il suo ghigno assurdo. Attraverso il racconto in prima persona, il picaro novecentesco dell'Europa orientale presenta i suoi incontri con uno spostamento del senso comune implacabile e lieve, un'arguzia tragicomica disarmante che fa riflettere come ogni autentico straniamento.
Giuditta Grechi

A Storm is Goin’ To Come

Chi vi scrive ha atteso il nuovo album di Piers Faccini, un girovago apolide sconosciuto al grande circuito della musica contemporanea che conta, per mesi. Tanti mesi, anzi. Adesso che ci pensa, chi vi scrive ha atteso questo nuovo album per più di un anno. Il disco si chiama Two Grains Of Sand ed è bellissimo. Valutazione partigiana questa, e poco precisa e poco pertinente per chi critica musica o arte. Comunque sia, la scintilla tra lo scrivente e Piers Faccini era nata, ad arte, in occasione dell’ultimo bellissimo (termini imprecisi ritornano) concerto milanese di Ben Harper, nel 2007. Ormai, una vita fa. Piers aveva aperto il concerto con un set molto minimal. Quasi timido. In contrapposizione alla consumata vivacità sprezzante che Super Ben avrebbe poco dopo vomitato su più di dieci mila rock fan in delirio.

Il giorno dopo chi vi scrive aveva un’intervista col Faccini, quel tizio, sconosciuto al pubblico e massacrato da Ben solo poche ore prima. L’hotel, distinto e pulito in zona centrale profumava di brioche e di quotidiani non ancora aperti. “Il signor Harper non si è ancora fatto vedere”, aveva detto il cameriere con una divisa malinconica. “C’è qui però un signore della band”. Quel “signore della band”, faccia riposata e barba di due giorni, era Piers. Sorridente e affabile stava discutendo fitto con qualcuno. Uno zaino da viaggiatore tra le gambe e una tazza di cappuccio nella destra. Piers, in quella circostanza, convinse chi vi scrive di alcune cose: 1)lui, Piers, è uno dei più grandi cantautori contemporanei 2) “la world music non esiste” 3) si può inventare solo l’etichetta da mettere su un prodotto, ma il prodotto si inventa da solo.
Quel giorno Piers parlò di tantissime cose. Mi disse di quando sceglie di dipingere, invece di suonare, e della necessità della solitudine e del raccoglimento in funzione della creazione. Mi raccontò di come aveva conosciuto la musica tradizionale africana, della sua passione per Skip James, della scoperta di Ali Farka Tourè. Mi confidò di non sentire come “sua” nessuna casa. Lui, padre italiano, madre francese, cresciuto tra Parigi e Londra, con avi in mezza Europa.
Poco dopo aver rilasciato quest’intervista Piers è partito per seguire il tour mondiale di Ben Harper. Ha suonato e suonato, da NYC a Melbourne sino alla Francia e (grazie alla Natura) anche in Italia.

Qualche settimana fa Piers è tornato nel nostro paese. Senza Ben, ma con un discreto tesoro di nuove canzoni nel suo zaino, ha rilasciato nuove interviste e presentato I Due Grani di Sabbia, id est, il nuovo album. Sono canzoni molto poetiche, e sanno tutte d’Africa e d’Europa e di viaggio. Sono bellissime. Valutazioni ancora una volta precise e pertinenti.

Mi permetto di consigliare a tutti gli interessati, infine, la bella intervista a Piers che l’amica Silvia Pelizzon ha realizzato per la rivista Jam in uscita a Maggio. Chi vi scrive si rammarica di non esser riuscito a farlo in maniera oggettiva. Questo scritto è forse considerabile alla stregua di qualche “appunto partigiano”.

Davide Zucchi

8 luglio 2009

Una schietta analisi su facebook


Una veloce e puntuale analisi di tre stereotipi della nazione facebook:

profilo mendace;

osservatore silenzioso;

facebook-riluttante (reprobo).

L'osservatore è un assetato di gossip vecchio stampo: in lui vive un ansioso bisogno di pettegolezzi di quartiere. Insoddisfatto dall'ultima bollente news sulle frequentazione della valletta bionda e dai clamori attorno al calciatore modello, si rifugia in un gossip dalla dimensione più intima, più vera, privata: naviga i profili dei propri amici e degli amici degli amici – soprattutto - , legge con interesse i wall-to-wall, sfoglia album di fotografie, costruisce uno schema mentale dei vari gradi di connessione sociale nella propria cerchia di conoscenze (del tipo, chi stava con chi e ora sta con chi o cosa e insomma fatti di questa risma).
Si tratta il più delle volte di un osservatore passivo che limita la quantità dei suoi interventi – giusto un paio al giorno, per giustificare la propria presenza sul social network agli occhi degli altri. Si accontenta dunque di una conoscenza muta, mono-direzionale. Con una similitudine non troppo ardita lo possiamo accostare a quelle signore anziane che passano la vita affacciate alla finestra sul cortile.

C'è poi il facebook-riluttante, colui che con infinita dignità sostiene la sua scelta di non appartenenza. Invitato più e più volte dagli amici a raggiungerli sul social network, lui ha sempre obiettato, fiero nella propria posizione, adducendo motivazioni varie ed eventuali, che vanno dall'astio contro la terza rivoluzione industriale alla sempreverde affermazione “ho altro da fare, io!”. Lo vedremo presto su facebook, non dubitate. Occorre soltanto che trascorra il tempo necessario affinché da fenomeno sociale di moda diventi semplicemente una consuetudine della vita, come la pausa caffè, l'attesa per il treno o Bruno Vespa. A quel punto si iscriverà e aggiornerà il profilo quotidianamente come tutti gli altri, ma con la segreta convinzione di essere entrato al momento giusto, in tempi maturi.

Infine spendo due righe su colui che si costruisce una seconda identità, un profilo mendace. Non si tratta di un ingannatore, beninteso, ma solo di qualcuno affetto da sindrome pessoiana di moltiplicazione totemica della personalità. Su facebook si trasforma da anatroccolo in cigno, coltivando le proprie ambizioni: si finge poeta, o musicista, uomo di mondo, ragazzo/a immagine etc etc... Questo tipo di soggetto dedica alla propria pagina personale una cura sicuramente eccessiva: posta foto ritoccate con Photoshop nelle quali sembra uscire da una copertina di Rolling Stone, cura la forma e il lessico dei propri interventi, accetta come amici solo persone che hanno un profilo degno del suo e naturalmente tagga e accetta di venire taggato solo quando ritratto in circostanze favorevoli. Insomma usa facebook per il culto parossistico e incrollabile del proprio Io.
Per chiudere vi segnalo che faccio parte di quest'ultima categoria di facebook users: cercate Norberto Giffuri su google e mi raggiungerete nel tempio dorato che ho costruito per adorarmi via browser.

Norberto Giffuri

7 luglio 2009

IL FAVOLOSO MONDO DI LELLA COSTA

Attrice, autrice, doppiatrice, musicista, scrittrice, conduttrice televisiva e radiofonica, “Una, nessuna e centomila”: è Gabriella “Lella” Costa.
Dopo il debutto nel 1980 e il diploma all’Accademia dei Filodrammatici con tanto di Medaglia d’oro, la milanese laureata in lettere in Statale ha sicuramente imparato l’arte, senza per ora volerla ancora mettere da parte. Lo testimonia non solo l’ultimo spettacolo con cui è in tournée, “Ragazze – nelle lande scoperchiate del di fuori”, ma soprattutto la vulcanica (in perfetta armonia con la nostra testata!) e solare energia che ci trasmette in occasione dell’incontro “Lezioni d’artista”, avvenuto il mese scorso in quel di Via Festa del Perdono.
In una carriera che l’ha vista debuttante come autrice nel 1987 con “Adlib”, si alternano una copiosa produzione teatrale (“Coincidenze”, “Due”, unico caso in cui non si ritrova sola sulla scena, “Magoni”, “Stanca di guerra”, “Precise parole”, fino ai più recenti “Traviata”, “Alice, una meraviglia di Paese”, “Amleto”), alla partecipazione a programmi televisivi come “Ottantanonpiùottanta”, “Maurizio Costanzo Show”, “Comici” condotto da S. Dandini e “Amici” nella prima edizione del 1992. E’ poi collaboratrice con una sua rubrica sulla rivista “Anna”, attrice cinematografica in “Ladri di saponette”, “Visioni private”, “Quando c’era Silvio”(2005), e infine doppiatrice nonché scrittrice per Feltrinelli, con la quale ha pubblicato prevalentemente raccolte dei suoi testi teatrali, ultimo “Amleto, Alice e la Traviata”, nel 2008.
Socialmente attiva con Emergency, e culturalmente con la partecipazione annuale al Festivaletteratura di Mantova, dopo ben due ore di intervista sul palco, la incontriamo per Vulcano, ancora vivace e disponibile.

Tra le influenze che hanno inizialmente segnato la sua carriera, oltre a Massimo Rossi, c’è lo scrittore polacco Mrozek, il quale sostiene che: “Qualsiasi cosa si svolge sulla scena ha un inizio e una fine, e soprattutto non ha alcuna conseguenza: l’esatto opposto di quanto accade nella realtà, dove ogni azione ha effetti che più si allontanano, meno sono prevedibili, tanto da risultare imponderabili”. Quanto la condivide?Che effetto vorrebbe i suoi monologhi suscitassero?
Ho lavorato su Mrozek in effetti solo all’inizio, in occasione de “Il macellaio” (lì facevo la flautista, e avevo una relazione impegnativa con un bel giovane. Insieme discutevamo sull’Arte, sull’Amore, e su tante cose belle impegnative. Questo è Mrozek, l’irruzione della realtà nel fantastico, e viceversa). La citazione è vera, ma lo è anche il contrario: la finzione la manipoli. Puoi suscitare effetti non drammatici, non epocali, ma c’è in tutto credo l’idea di innestare un meccanismo.

Perché solo monologhi?
Vocazione, predisposizione. Nei tempi in cui ho iniziato a farli, è stato un modo di produrre spettacoli senza oneri. Dopodiché è diventata una forma. Delirio sul palco a parte, posso scegliere quali contenuti mettere nella forma teatrale . Il bello è proprio metterci dentro ciò che si vuole!

Lei dice che “lo spirito è quello di recuperare grandi testi, raccontare storie critiche, che fan parte di memorie collettive, usandoli come pretesti legittimi per fare delle incursioni nel contemporaneo”. Otello, Traviata, Alice, Amleto. Se dovesse raffigurarsi in un altro personaggio, esclusi questi?
Considerando che una delle cose più pericolose di questa professione è l’immortalità, direi che l’ultimo ruolo, l’ultimo personaggio che vorrei interpretare è Prospero de “La tempesta”, di Shakespeare.

E gli altri personaggi cosa rappresentano?Frammenti, parti di se stessa?
Non è per identificazione il punto di vista, direi piuttosto per fascinazione, contrasto, opposto. Paradossalmente mi sento più empatica verso Otello che non Desdemona, ad esempio. Questa è la libertà di poter “giocare” con i grandi ruoli, laddove in tante lingue, russo compreso, “giocare e recitare” si esprimono con lo stesso verbo… Un motivo ci sarà!

Quali sono stati i suoi modelli di riferimento nella recitazione, se ce ne sono stati?
“E’lecito rubare, proibito copiare”. Ho rubato tantissimo, soprattutto dall’umorismo inglese, meno d’effetto e più costruito nel linguaggio. Franca Valeri, Walter Chiari sono esempi di persone che riuscivano a fondere senso dell’umorismo e ottima conoscenza della lingua italiana. Woody Allen è un altro punto di riferimento, per quella sua capacità di passare dal comico al malinconico. Non credo esista una grossa differenza tra comicità e malinconia.

Chi vorrebbe veder interpretare un suo spettacolo?
Nessuno, perché è talmente legato a me che non sprigionerebbe lo stesso senso!

Ritiene ci sia una “strategia”di tempo comico?
O ce l’hai o non ce l’hai. Io, se c’è, non la conosco. Non so tradurre in schemi riproducibili quello che so fare sul palcoscenico. L’attenzione ai tempi è però importante, onde evitare vuoti di scena…

Le piace vedersi?
No! Assolutamente no! Rivedo tutti i difetti!

In un’intervista a “Le invasioni barbariche” ha definito i maschi degli “analfabeti sentimentali”, visione che ribadisce ne “La Traviata”, storia d’amore “appassionante, disperata, ma anche lievemente irritante con tutti quei non detti e soprattutto quel dissennato fidarsi dell’intuito maschile”. Veniamo davvero da due pianeti diversi?
Al di là di ogni polemica, il discorso ovviamente non riguarda le singole persone. Tuttavia credo esistano per una configurazione di ruoli delle situazioni che per gli uomini non sono previste. Ciò che appassiona, ne “La Traviata”, è la figura di questa giovane donna che si assume sulle spalle il carico delle responsabilità e delle scelte altrui.

L’amore è…?
L’amore è… Vediamo… E’… impegnativo, serio. Non significa pesante, ma non si può pensare di cavarsela così. Ecco tutto.

Cosa ne pensa della situazione del teatro di prosa oggi in Italia?

Non si può non constatare un cambiamento di clima. E’difficile dare una risposta non banale… La televisione ha svilito, omologato il livello di curiosità del Paese. In più i fondi statali non hanno privilegiato la qualità, con la conseguente crisi del teatro d’avanguardia e di ricerca. E’ miracoloso che ci sia ancora un pubblico che si reca a teatro, considerando che i fondi pubblici che l’Italia investe rappresentano un terzo rispetto a quelli degli altri Paesi. Il teatro da solo non può farcela, e nemmeno i teatri che fanno il tutto esaurito, perché i costi sono altissimi! Non si fanno che tagli sulla cultura in generale.

“Ragazze – nelle lande scoperchiate del di fuori”è il titolo del suo ultimo spettacolo. Perché?
Il titolo deriva da una frase di I. Calvino. Alice finiva con Amleto (“se c’è un tempo per dormire e uno per morire - forse ce n’è anche uno infinito per sognare”), ma Amleto iniziava con la parafrasi dello stesso verso (“Esplodere o implodere - questo è il problema”). Calvino, appunto. Dopo i classici, era necessario tornare su una riflessione al femminile. Ancora da Calvino, attraverso la citazione appassionata che me ne ha regalato un’amica pittrice, ha cominciato a prender forma questo nuovo spettacolo, che ha come filo conduttore il mito di Orfeo ed Euridice…

Se potesse riscrivere qualche opera, cosa cambierebbe?
Cambierei i finali!”Giulietta e Romeo”, ad esempio… Tutti in positivo,ovviamente! Perché se lo meritano, lei e lui. Poi farei fuori altrove Iago, Giorgio Germont, il padre di Alfredo, tutti fatti fuori..!

E’ormai buio pesto. Il custode è al secondo richiamo, ci stanno per chiudere dentro, sono le 20… L’ultima domanda, un po’ marzulliana per la verità…


Se dovesse intervistarsi, che domanda si farebbe?
Mmm… Che domanda mi farei… E’ difficile… (Ride). Vediamo… Mi piacerebbe che s’indagasse sul lavoro che c’è dietro il palcoscenico, dietro la fluidità apparente che c’è sul palcoscenico. Sul fingere, s’indagasse di più cioè sull’importanza legata alla forma della finzione, ecco!
E comunque, Marzullo non l’avrebbe mai fatta questa domanda, perché non avrebbe capito la risposta!

Valeria Pallotta

5 luglio 2009

Lontano dall'occidente - GRAN TORINO


Con “Gran Torino” Clint Eastwood s'allontana ulteriormente dalla società occidentale. L'ispettore Callahan era un autistico cui era stata inculcata la convinzione che il proprio dovere fosse uccidere (nota il biografo Christian Authier); Bronco Billy McCoy, il cowboy circense protagonista di Bronco Billy, regalava ai bambini il sogno dell'epopea del Far West; John Wilson, il regista (ispirato a John Huston) protagonista di “Cacciatore bianco, cuore nero” lottava contro l'industria cinematografica. Walt Kowalski infine scopre che la propria famiglia non sono i volgari parenti, ma i vicini che disprezza in quanto stranieri. Crede di doversi difendere dagli asiatici, scopre di voler difendere loro dalla vacuità con cui è convissuto - ma alla quale non s'è mai arreso. Una vacuità perfettamente emblematizzata dai superficiali parenti SUV-muniti di Walt e dalla patetica baby gang.
La stessa società occidentale, che ha ritenuto per decenni Eastwood un proprio prodotto, non si è accorta d'essere l'oggetto della critica del suo cinema.
L'apertura di Eastwood sta nell'essere repubblicano e citare il pericolo della paura paventato del democratico Franklyn Delano Roosevelt. La diversità di spessore tra Walt Kowalski, pronto a mettere in discussione le proprie convinzioni fino a un gesto estremo, e il figlio yuppie di questo, che gli telefona solo per avere biglietti per il football può essere paragonata al contrasto tra un cinema improntato sulla conoscenza dell’altro e una realtà in cui troppo spesso il diverso è aggredito a priori.
Gran Torino è un'appendice, un miglioramento di “Million Dollar Baby”: è meno commosso (grazie anche a uno humour più acceso) e ancora più scarno (e “Million Dollar Baby” lo era molto). Ci sono ancora il contrasto nettissimo tra personaggi magnifici e orrendi, la scoperta d'una famiglia al di fuori di quella di sangue, la risolutezza ad assumersi le proprie responsabilità, il pessimismo. Se però ne “Gli spietati”, “Mystic River” e “Million Dollar Baby” la redenzione non esiste, in Gran Torino è possibile - pur con sacrifici immani. Il cinema di Eastwood affronta il mondo senza rimpianti né utopie: un mondo migliore non è possibile, ciò che va fatto è meritare ciò che si ha o si vuole avere. Nella società che non vuole soffrire, dominata dai media che esorcizzano le tragedie mostrandole accanitamente per farne mero spettacolo, il cinema di Eastwood prende atto del Male e lo affronta.
La grandezza dei contenuti si accompagna a un valore artistico enorme: Eastwood è maestro nella regia e nella recitazione, per la quale si serve al meglio del proprio volto scarnificato e della propria imponenza fisica, spaziando senza problemi dal delirio - i pugni alla credenza - alla calma imperturbabile - il dialogo col prete subito dopo. Orchestra bene la storia, tra momenti di controllato umorismo a drammi gravissimi, andando molto al di là del compito ben fatto: per sua stessa ammissione, il suo film più piccolo, ma per mezzi, non per ambizioni. Un film trascurato dagli Oscar... ma nel 1982 lo fu “Blade Runner” .
Un'opera sorprendente, conclusa dalla bellissima canzone in cui la voce di Jamie Cullum è introdotta da quella di Clint stesso, quasi a rappacificarsi con la storia appena narrata e vissuta: un film cui non si sopravvive.
Tommaso de Brabant