29 gennaio 2010

STATALE NON VEDENTE

A molti studenti è capitato, per errore, di sbagliare aula. Questa situazione si è presentata diverse volte a uno studente del nostro ateneo, nel settore di giurisprudenza, ma non per distrazione: lo studente é non vedente. Questi, per evitare l’inconveniente in futuro, ha chiesto che fosse messo sul muro adiacente alla porta di ingresso un foglio di carta con una scritta in braille (ovvero con dei fori per avere il rilievo) riportante il numero della sala.

In via Festa del Perdono, come negli altri poli della “Statale”, è presente l’ufficio del Sevizio disabilità ed Handicap, per venire incontro alle esigenze didattiche e motorie degli studenti diversamente abili, i quali sono tenuti a contattarlo all’atto dell’iscrizione. Come citato sulla homepage del suo sito, l’ufficio cerca di attuare la legge n°104, in vigore dal 1992, che favorisce l’integrazione sociale e l’assistenza delle persone handicappate. Ai disabili visivi che ne facciano richiesta viene proposto, in collaborazione con l’Istituto dei Ciechi di Milano, un corso di mobilità e orientamento dove, in diverse sedute, vengono insegnati i concetti spazio temporali, la lateralità, tecniche di esplorazione, la lettura e l’orientamento con mappe tattili (riproduzioni in bassorilievo degli ambienti). Sembrerebbe il classico problema di mancata comunicazione dei servizi offerti agli studenti, ma non si tratta solo di questo.
Secondo il Regolamento relativo, ovvero il D.P.R. 503 del 1996, l’università aveva 180 giorni di tempo per adeguare i propri spazi pubblici, anche quelli vincolati dalla legge sui beni architettonici (con opere provvisorie), per favorirne l’accessibilità; in particolare il comma 4.3 dell’articolo 1 indicava necessario “predisporre apparecchi fonici, ovvero tabelle integrative con scritte in braille.” Facendo un semplice giro in università si nota la presenza delle rampe, dei posti riservati in biblioteca, dei montascale e dell’ascensore situato vicino ai bagni dell’atrio ma mancano sia le mappe tattili in ogni ingresso della sede centrale che le tabelle riportanti il numero dell’aula.

Certo, negli anni l’ateneo si è adoperato per venire incontro alle esigenze di tutti gli studenti. Ma per rendere realmente fruibili tutti gli spazi anche ai non vedenti, oltre alle mappe, occorrerebbero piste tattili come quelle che vengono poste sui pavimenti delle metrò o delle pensiline dell’Atm. Un corso di mobilità sembra il classico tappo che viene usato per arginare una falla. Ma per rendere realmente a norma i locali occorrerebbero metri di percorsi tattili Loges, linguaggio formato con impronte sulla pavimentazione. Purtroppo i costi per la posa delle nuove mattonelle sono piuttosto alti, e in un periodo di crisi e di tagli ai bilanci (nell’ultimo cda è stato discusso proprio il taglio del personale del Servizio disabilità), è difficile possano essere sostenuti.
Davide Contu

27 gennaio 2010

VERITA' NEGATE: I negazionisti dell'olocausto

Il tentativo di riscrivere la storia per un uso strumentale e politico è purtroppo di stretta attualità, tanto in Italia quanto all’estero. Il caso più eclatante è la negazione che sia mai avvenuto un evento storico di grandissime dimensioni come l’Olocausto. I sostenitori di questa tesi sono comunemente indicati come “negazionisti” ed amano definirsi “storici revisionisti”. Tuttavia la comunità storiografica internazionale rifiuta di confrontarsi con le loro posizioni: non le ritiene degne di attenzione. I negazionisti si fanno forti di questo mancato confronto, motivandolo con la paura, da parte della comunità storiografica, di non riuscire a confutare le loro argomentazioni. Ciò costituirebbe una prova che queste sono vere.
Perché quindi gli storici rifiutano il confronto? La differenza fondamentale fra uno storico e un negazionista è semplice: per descrivere un fatto lo storico parte dai dati, il negazionista parte da un preconcetto politico. Secondo lui infatti il Nazismo non fu il Male Assoluto descritto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e le maggiori atrocità imputate alla Germania nazista non sono che delle menzogne.
Prima di giungere a tale conclusione sono necessarie alcune premesse: la verità storica è in continua ridiscussione e gli studiosi si dedicano alla ri-verifica continua delle fonti storiche (specie alla luce di nuove scoperte). Tale processo può portare ad una revisione di aspetti della storia di cui credevamo di sapere oramai tutto.
Il Negazionismo è altra cosa: invece di partire dal ritrovamento di nuove fonti o nuovi studi, parte dal preconcetto e cerca solo a posteriori delle giustificazioni a supporto di tale pregiudizio.

La quasi totalità dei sostenitori del Negazionismo proviene da posizioni filo-naziste; sembra quindi naturale che condividano l’intento di riabilitare il Nazismo. Ma davvero la loro argomentazione muove da preconcetti? Può essere utile tracciare un profilo delle posizioni comuni ai negazionisti:
a) i nazisti non hanno mai voluto sterminare gli ebrei, solo chiuderli in “campi di concentramento” (e non “di sterminio”) b) le camere a gas per l’uccisione sistematica degli ebrei non sono mai esistite c) il numero di ebrei morti nel corso della guerra è inferiore a quanto si creda; d) l’Olocausto è un fenomeno inventato dalle potenze vincitrici (Usa, Gran Bretagna, Urss), sostenute in questo dagli ebrei; e) esisterebbe infatti una cospirazione globale degli ebrei per il dominio del mondo.
Interessante è il rapporto che i negazionisti hanno con le fonti storiografiche. Un esempio clamoroso è il tentativo, operato dallo studioso francese Robert Faurisson, di negare l’autenticità dei diari di Anna Frank con procedimenti tipici dell’argomentazione negazionista. Al di là della specificità degli argomenti, è interessante notare gli errori logici alla base dell’argomentazione. Prendiamo due esempi:
1) Faurisson muove attacchi alla persona di Anna Frank, quando scrive: “tossicodipendente a una tenera età”, “sesso giovanile”, “stravaganze sessuali”, “il primo porno infantile” (ricordiamo che Anna Frank è un’adolescente, quindi alla scoperta del proprio corpo e che il suo nasce come diario personale). Ma in che modo simili accuse dovrebbero minare la sua credibilità di testimone? Si nota inoltre la tendenza ad avvalorare gli stereotipi denigratori di presunte perversioni sessuali connaturate alla razza ebraica.
2) Lo studioso trova due edizioni tedesche del diario, notevolmente diverse tra loro: Faurisson conclude che è una prova che l’autore è ancora vivo e quindi non può essere Anna Frank. Peccato che non prenda in considerazione l’ipotesi, che sembra più ragionevole, che le modifiche siano piuttosto da imputare all’editore o al traduttore (dall’olandese). Eppure per evitare un rischio del genere sarebbe bastato fare un’analisi dei manoscritti originali, invece che basarsi sulle traduzioni tedesche!

Questi non sono che esempi; ma l’epopea negazionista è piena di simili aberrazioni. Questo modo di argomentare con argomentazioni deboli, toni sensazionalistici, aggirando il centro della questione, è chiaramente improntato ad un cieco fanatismo politico. Così si presta fede, piuttosto che ad un’analisi ragionata delle fonti, ad una delirante teoria del complotto, sorda ad ogni ragione critica.

I negazionisti chiedono di poter esporre le loro tesi, in nome della libertà di parola. Eppure in alcuni Paesi (europei e non) sostenere pubblicamente queste tesi è punito anche con il carcere. Un attacco alla libertà di parola? Perché punirli, qual è il rischio?
Dovremmo chiederci allora se ogni individuo è libero di dire quello che gli pare, di insultare gli avversari, di infangare la memoria collettiva; se possiamo permetterci di lasciare la libertà a chiunque di riscrivere la storia con le menzogne, ad uso meramente strumentale.
Il rischio che corriamo è di svegliarci in un futuro in cui la menzogna e la falsificazione della realtà saranno all’ordine del giorno, un futuro in cui la storia viene riscritta al servizio della politica. Riflettere sul fenomeno del Negazionismo è importante: tutto sta a vedere in che misura siamo disposti ad accettare questo rischio.

Enrico Guerini

26 gennaio 2010

PREDICATELO SUI TETTI

La protesta “rampante” degli operai di Trezzano sul Naviglio
a cura di Laura Carli e Alessio Arena


Una volta erano location trasgressive per i concerti rock, ultimamente invece i tetti delle città italiane sono esposti all’attenzione generale per motivi decisamente meno spensierati. Dopo la fabbrica Innse quest’estate e le proteste di Fiat e Eutelia, è arrivato anche il turno della Maflow di Trezzano sul Naviglio, seguita, a pochi giorni di distanza, dal liceo civico Gandhi. Il presidio sul tetto è una forma di protesta ormai collaudata.

L’occupazione della fabbrica produttrice di tubature per climatizzatori auto è iniziata l’ 11 gennaio. La decisione è stata presa a seguito di un’ assemblea tenutasi nella mensa aziendale, cui ha preso parte una grande maggioranza dei 330 dipendenti, di cui oltre 270 in cassa integrazione. L’obbiettivo che i lavoratori stanno portando avanti è un presidio permanente, con un gruppo di cinque dimostranti accampati sul tetto e un altro gruppo a piantonare i cancelli della fabbrica. Per amplificare l’effetto della protesta, l’accesso all’ edificio è rimasto chiuso agli organi dirigenziali, fatta eccezione per un ristretto gruppo, indispensabile per mandare avanti il lavoro dei 50 operai ancora attivi.

All’entrata, striscioni e cartelli contro una crisi data per passata e contro i dirigenti dell’azienda che badano solo alle proprie tasche. Un bidone pieno di legna serve da braciere per riscaldare, con un effetto piuttosto ambiguo, la notte delle operaie che presidiano i cancelli e che spesso, oltre al disagio del freddo, si trovano anche a subire i fraintendimenti di alcuni camionisti di passaggio.
Il gruppo dei dimostranti è piuttosto ben organizzato, anche grazie al sostegno delle istituzioni locali, sindaco in primis, che forniscono giornalmente il cibo. Anche gli abitanti della zona si sono dimostrati solidali, portando generi di conforto come bevande calde e addirittura biscotti fatti in casa.
Nonostante gli aiuti e la buona organizzazione del presidio, la situazione resta fortemente disagevole, soprattutto a causa del freddo, che non può certo essere tenuto a bada da due tende canadesi, un gazebo e una stufa. “Dobbiamo morire ibernati per attirare l’attenzione dei nostri politici” è l’amara constatazione di una delle due operaie accampate sul tetto.
Nell’Italia del 2010 gli scioperi, le autogestioni non sono più sufficienti. Servono gesti plateali, alla ricerca di una visibilità mediatica che sembra essere l’unica parola d’ordine di chi vuole farsi ascoltare.
"Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti" (Mt 10, 27). Sono le parole con le quali Gesù invita gli apostoli a comunicare a quanta più gente possibile il messaggio evangelico. Questa immagine figurata oggi viene presa alla lettera da studenti e operai, con la necessità di diffondere non la buona novella, ma una richiesta di aiuto.

Laura Carli
foto di Federica Storaci

VOGLIAMO CONTINUARE A LAVORARE ALLA MAFLOW - Intervista ad Antonio Luongo, delegato RSU Maflow

“Vogliamo continuare a lavorare alla Maflow” è il titolo del blog, nonché “grido di battaglia” dei lavoratori dell’azienda di Trezzano sul Naviglio.
La situazione della Maflow, già in crisi da paio d’anni per una gestione amministrativa discutibile, è precipitata ulteriormente a dicembre, dopo la disposizione della BMW di cancellare l’ultima commessa.
Da qui la decisione dell’11 gennaio di occupare la fabbrica con un presidio permanente.
Abbiamo intervistato Antonio Luongo, delegato RSU Maflow per FIOM-CGL, che ci ha fornito chiarimenti sulle vicende della fabbrica e sul percorso che ha portato alla situazione attuale.

Puoi dirci qualcosa sulla parabola dell’azienda negli ultimi anni?
Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 la Maflow contava circa 700 lavoratori. Poi è cominciata una selezione, con tagli, incentivi, licenziamenti, fino ad arrivare alla stabilizzazione, dal 2005 ad oggi, intorno alle 300-350 persone. Molto alta è la percentuale delle donne assunte, come è alto il numero delle coppie, ben 28, di conseguenza 28 famiglie che rischiano di perdere entrambi i redditi.
Prima lavoravamo prevalentemente con FIAT, producendo molto con minori standard qualitativi, il che richiedeva molto personale. Poi il lavoro si è spostato soprattutto verso la BMW, con cui si produce di meno, ma a livelli qualitativi superiori. Per questo tipo di commesse serviva meno gente e macchinari diversi, per lavorazioni di livello più alto.

E poi cos’è successo? Si parla di debiti con le banche, cattiva amministrazione…
E’ successo che sono cominciati gli investimenti. Il primo è stato fatto in Polonia dieci anni fa. E’ stato aperto uno stabilimento con 30-40 lavratori, che venivano qui a imparare il mestiere. In tempi recenti quello stabilimento ha toccato la quota di circa 2000 lavoratori.
Poi hanno aperto in Cina, Messico, Brasile, Francia, Spagna, Germania, Olanda… Tutti stabilimenti andati a rotoli, con l’unica eccezione di quello polacco. Il tutto con investimenti sproporzionati rispetto al valore di ciò che si acquisiva. Lo stabilimento in Cina non sono mai riusciti nemmeno ad avviarlo, con incentivi presi anche dallo Stato italiano che sono stati portati all’estero per poi restare infruttuosi.
Tutti questi investimenti hanno prodotto un ammanco di 300 milioni di euro.

Il tutto nonostante l’attività produttiva andasse bene…
Si. Il nostro non è un problema di lavoro, perché noi lavoriamo tantissimo. Il problema è che siamo arrivati al picco della crisi con 300 milioni di debito. Così le banche hanno chiuso i rubinetti del credito.
La BMW per sei mesi ha pagato i nostri fornitori per permetterci di continuare a lavorare, perché sono molto interessati al nostro prodotto, che soddisfa in pieno le loro esigenze.
Fino a ottobre 2009 siamo andati avanti a lavorare in 220 su tre turni. Poi la BMW, non avendo garanzie sulla nostra continuità produttiva, è corsa ai ripari assegnando le commese alla Continental in Germania, pagando anche di più. A questo punto è intervenuto lo Stato tedesco, che nell’ottica di riportare il lavoro in Germania è intervenuto a coprire la differenza di costo. Se il prodotto in Germania costa 10 euro e qui in Italia ne costa 8, i 2 euro di differenza li mette lo Stato, anzicché pagare la cassa-integrazione ai lavoratori. Questo in teoria violerebbe le norme europee sulla concorrenza.

Pare che l’area su cui sorge l’officina sia stata acquisita da un’immobiliare legata a Unicredit. Ritenete che dietro la chiusura possa esserci anche la speculazione immobiliare?
Detta brutalmente, a questo proposito è stata fatta una porcheria. Cinque anni fa i capannoni erano dell’azienda. Sono stati venduti e presi in leasing. Il meccanismo avrebbe dovuto essere di venderli per pagare il leasing e recuperarne in seguito la proprietà. Invece i capannoni sono stati venduti a un terzo, l’azienda paga il leasing e la proprietà resta del terzo. C’è dietro un triangolo non chiaro. Infatti questa parte manca, nella relazione ai commissari pubblicata su internet: sono parti secretate in virtù di un’ingiunzione. Quale impatto avrebbe sul territorio trezzanese una eventuale chiusura?
Siamo la più grande azienda di Trezzano sul Naviglio. L’impatto sarebbe grosso, come si può intuire dalla vicinanza manifestata dal Comune, a cominciare dal Sindaco e dalla Giunta. Ci portano i pasti, manifestano con noi, sono venuti con noi a Roma…

Ripercorriamo le ultime fasi della vostra lotta.
Abbiamo svolto presidi davanti alle concessionarie BMW, per fare loro pressione, renderci visibili e porre in evidenza che rappresentiamo un problema sociale per le istituzioni. Abbiamo svolto un presidio davanti alla Prefettura in occasione della nostra convocazione. Abbiamo manifestato anche alla sede BMW a San Donato per riottenere le commesse, anche se va detto che da parte loro sembra esserci disponibilità in questo senso, soprattutto in considerazione della loro soddisfazione per i nostri livelli di qualità. Domenica 10 gennaio ci siamo riuniti poi in assemblea qui in azienda, e da lì è scaturita in modo unanime l’occupazione. La RSU si fa portavoce dei lavoratori, ma si decide tutti insieme.

Parliamo dell’atteggiamento delle istituzioni. Innanzitutto, com’è il rapporto con la forza pubblica?
La situazione è tranquilla. Ci conoscono, sanno che gente siamo. Abbiamo avuto qualche piccolo contrasto in occasione dei cortei, ad esempio quando abbiamo bloccato Corso Sempione fino sotto i cancelli della RAI. Insomma, i rapporti con le forze dell’ordine sono stati fino ad ora buoni. Quando lunedì mattina (11 gennaio, ndr) i dirigenti hanno tentato di entrare in azienda, sono state le stesse forze dell’ordine a tenerli fuori, dicendo loro di non forzare la mano per evitare tensioni. I carabinieri hanno presidiato i cancelli per una settimana intera. Poi hanno comunicato alla RSU che, avendo constatato che era tutto tranquillo, si sarebbero limitati a passare di tanto in tanto per un controllo.

E l’atteggiamento del Prefetto?
Il Prefetto ci ha promesso di contattare direttamente sia FIAT che BMW, per le commesse. Una settimana fa si era preso due giorni di tempo e ad oggi non abbiamo ancora nessuna novità. L’unica novità è stata la nomina della Commissione di Garanzia, indispensabile per indire l’asta per l’acquisto del gruppo Maflow.

Parliamo di Provincia e Regione.
Sono assenti. Si son fatti vedere una volta, quando abbiamo fatto l’assemblea aperta. In quell’occasione è venuto un rappresentante della Provincia, ma la cosa non ha avuto seguito.
Abbiamo poi avuto un incontro in Regione. Ci hanno detto che prendevano atto della nostra vertenza, della documentazione attinente e che ci avrebbero ricontattato. Non si è più fatto sentire nessuno.

L’ultimo attore istituzionale è il Ministero per lo Sviluppo Economico.
Da parte loro è stato finalmente messo il primo tassello: la nomina della Commissione di Garanzia. Adesso aspettiamo gli altri. La Commissione di Garanzia dovrà prendere atto delle relazioni dei commissari, valutarle e in seguito a ciò consentire la pubblicazione del bando per l’asta.
La Commissione ha cinque componenti: tre nominati dallo Stato e due dai maggiori creditori (nel nostro caso le banche, Unicredit e Banca Intesa). E’stato questo l’obiettivo più difficile da raggiungere, fino ad ora.

Cosa puoi dirci della solidarietà tra fabbriche in crisi, e più in generale della solidarietà operaia?
Ci sono contatti per muoversi insieme e organizzare qualcosa. La Marcegaglia, la Metalli Preziosi, la INNSE, Mangiarotti, Eutelia… Tutte queste aziende lavoreranno per indire insieme uno sciopero che parta dalle RSU e dare così un segnale anche ai sindacati.
Alla nostra ultima manifestazione hanno partecipato anche rappresentanze di altre fabbriche. Una manifestazione molto riuscita, con circa 600 partecipanti.

Cosa possono fare gli studenti per sostenervi nella vostra battaglia?
Invitiamo tutti a seguire le nostre iniziative, manifestare con noi e venirci a trovare e a sostenere il nostro presidio in azienda. Essere uniti e solidali è fondamentale.

http://vogliamocontinuarealavorareallamaflow.blogspot.com/
a cura di Alessio Arena e Laura Carli
Foto di Federica Storaci

25 gennaio 2010

E A MEDICINA SI CAMBIA: IN PEGGIO

Qulacuno ha detto che i cambiamenti non sono sempre negativi. Vero. Questo concetto può essere applicato nei più svariati settori. L’università ad esempio. Quello che di solito uno studente o un professore subisce con i vari cambi di ordinamento, che avvengono sempre più frequentemente in Italia, in realtà dovrebbe essere visto, con occhi speranzosi, come un intento di rinnovo e di miglioramento.
I tempi cambiano e i metodi di apprendimento e di didattica, di conseguenza, si adeguano.
Così come la maggior parte delle facoltà degli Studi di Milano, anche quella di Medicina e Chirurgia ha tentato la sua metamorfosi, ma tra i banchi salgono numerose lamentele. Il motivo?
Tutto inizia qualche anno fa, quando viene approvato il rinnovamento della struttura delle attività a libera scelta con frequenza obbligatoria, chiamate elettive: queste attività un tempo erano sparse durante l’anno accademico e ogni studente era libero di iscriversi a suo piacimento. Ora è possibile praticarle solo in due periodi dell’anno da due settimane ciascuno, a Dicembre e Giugno, esattamente il periodo tra la fine delle lezioni e i primi appelli d’esame. Inoltre è cambiato il loro conteggio dei CFU, che da 15 è passato a 8, per eliminare il sistema decimale precedentemente in vigore.
Da questo cambiamento si è deciso di riformare totalmente la didattica della facoltà, partendo in primo luogo dalla “struttura fisica”; Medicina è divisa in tre indirizzi: Policlinico, San Paolo e Sacco. Con questa riforma i tre poli si sono “staccati” l’uno dall’altro, mantenendo comunque un controllo da parte dell’Università. La commissione ha lavorato sui primi tre anni, il triennio generale, in modo tale da mantenerli uguali per tutte le strutture, con qualche minima differenza, ma conservando sempre un’unità; il triennio successivo invece, chiamato clinico, subisce delle nette differenze tra le varie sedi. Il tutto è stato concepito per valorizzare le peculiarità settoriali, aumentando così anche il prestigio del singolo polo. Così facendo è come se le strutture fossero diverse e con maggior autonomia. Ma resta una motivazione debole, dato che, in alcuni casi durante le varie assemblee, sembrava si cercassero queste peculiarità per motivare la divisione. Cosa ha spinto verso questo provvedimento? Quasi sicuramente una maggiore indipendenza dalla sede centrale, che porta un maggior potere al coordinatore di polo che diviene in questo modo un piccolo preside e una maggiore popolarità alla singola sede.

Dopo la struttura fisica si passa a quella dell’anno accademico. Cambia infatti la distribuzione degli appelli d’esame, dove vengono eliminati quelli straordinari di Novembre e Aprile, ma mantenendo sempre invariato il numero degli appelli annuali. Cambia la distribuzione dei crediti nel vari esami e in certi casi anche la divisione interna dei vari moduli. Viene anche eliminato il lunedì libero, prima gestito dagli studenti, dedicandolo allo studio o alle attività elettive sopra citate. La motivazione ufficiale che giustifica la manovra viene dai professori i quali ambiscono a una maggiore continuità didattica, eliminando le interruzioni causate degli appelli straordinari e dalle varie attività.
Sono pochi gli studenti che vogliono passare al nuovo ordinamento. Una riforma di questo genere, nonostante i cambiamenti siano minimi, potrebbe risultare positiva, o meglio indifferente, per chi si è appena iscritto al corso di laurea in Medicina; ma applicando tutte queste modifiche in modo retroattivo una volta arrivati al terzo o al quarto anno, le cose cambiano e per molti in peggio: i voti e i crediti sono importanti non solo per la media, che in questo modo cambia, anche se non in modo notevole, ma anche sui punteggi per i concorsi alle varie specialistiche. Purtroppo il cambiamento è l’unica scelta possibile, perché rimanere al vecchio ordinamento porta solo nuove grane. Così dopo essersi accordati su tutti i punti e dopo aver ottenuto la promessa della facoltà a certificare il miglior punteggio in sede di prova finale, il cambiamento viene messo in atto.
Ma gli studenti sono ancora scontenti. Le ragioni sono evidenti. Questa riforma ha portato dei cambiamenti che servono fino a un certo punto. Il risultato ottenuto alla fine, oltre alla riduzione del tempo dedicabile allo studio individuale e la vicinanza degli appelli d’esame che rende più difficoltosa la preparazione, è solo una gran confusione; poco, in meglio, è effettivamente cambiato. La didattica ha dei problemi e difficilmente potranno essere risolti solo con queste piccole, ma intricate, modifiche. Gli studenti segnalano da anni quello che non va, ma l’attenzione è pari a zero, se non si contano pochissimi professori che dimostrano molta sensibilità all’argomento e uno spiraglio di dialogo.

Il primo punto dell’art. 2 del regolamento didattico della facoltà dichiara che “i laureati in Medicina e Chirurgia dovranno essere dotati delle basi scientifiche e della preparazione teorico-pratica necessarie all'esercizio della professione medica e della metodologia e cultura necessarie per la pratica della formazione permanente, nonché di un livello di autonomia professionale, decisionale ed operativa derivante da un percorso formativo caratterizzato da un approccio olistico ai problemi di salute”. Gli studenti rivendicano proprio questo: la didattica è frontale, di vecchio stampo, poco interattiva. Se si escludono le strutture sperimentali, la maggior parte delle sedi non approfondiscono le abilità pratiche, le capacità decisionali e di problem solving, di comunicazione e relazione con il paziente e i familiari, e il tutto è condito con scarso approccio diretto. Per essere un buon medico bisognerebbe invece rendere questi dei punti di forza della didattica, mettere in primo piano il saper fare e non solo il saper ripetere nozioni da manuale. Non in tutte le sedi c’è questo metodo, molte cose sono lasciate al caso, ma non ci possono essere questi elementi opzionali nella stessa università. A volte gli specializzandi seguono gli studenti del triennio clinico, ma non si può affidare un compito così importante e delicato solo a quelle persone che hanno prima di tutto il compito di formare loro stessi.
Un altro aspetto mancante è quello etico: negli stati europei ci sono numerosi corsi dedicati a gli aspetti morali, così delicati e dibattuti, e vengono ritenuti estremamente importanti in un ambito dove la vita e la morte sono i protagonisti principali.
La facoltà di medicina è un crocevia tra scienza, etica, legalità e aspetti sociali. E gli studenti attendono, forse da un po’ troppo tempo, una riforma che prenda in considerazione tutti i tratti che la compongono.

Luisa Morra

24 gennaio 2010

I MILANESI E IL TEATRO: UNO STRANO RAPPORTO

La terza edizione della festa del teatro, l’iniziativa del comune che per tre giorni permette di assistere agli spettacoli per soli quattro euro, quest’anno ha registrato un’affluenza di oltre quarantamila presenze solo nella prima giornata delle manifestazioni. Eppure andando a teatro il resto dell’anno, non è raro trovare una sala mezza vuota e ricca di capelli grigi. Viene da chiedersi se i milanesi siano davvero interessati al teatro o se la possibilità di trascorrere una serata spendendo meno di dieci euro sia più forte di una normale repulsione verso questa forma d’arte considerata obsoleta.
Per cercare di capirlo abbiamo parlato con Nicoletta Rizzato, amministratrice del Carcano, storico teatro in Porta Romana.

Lei gestisce il Carcano dal 1997, cosa può dirci dell’interesse nei confronti degli spettacoli? I milanesi vanno a teatro?
Sì, i milanesi vanno a teatro. Inoltre in questa città può fare affidamento su molte iniziative gratuite, che specialmente in questo momento di crisi vengono riscoperte. La festa del teatro è una di queste, permette di spendere solo quattro euro per spettacoli che non si vedrebbero mai. in aggiunta ci sono gli spettacoli gratuiti per il comune di Milano; in città sono diciannove i teatri convenzionati che devono necessariamente rappresentare due spettacoli gratis ad ogni stagione. Va molto bene, si attira il pubblico, lo si porta a vedere anche le cose più inusuali. Eppure negli ultimi anni in questo senso c’è stata un’eccessiva sovraofferta.
Queste iniziative difficilmente creano spettatori nuovi, generalmente ne usufruiscono persone che a teatro vanno regolarmente o altri che approfittano del basso prezzo ma senza poi diventare spettatori abituali. Anzi, cresce in loro la convinzione che sia inutile pagare il prezzo pieno del biglietto, basta aspettare, tanto poi c’è l’offerta! E questo è dannoso per il teatro stesso: se svendo uno spettacolo a tre euro faccio il suo bene? Che valore do a questo lavoro? Al Carcano, tra sconti e offerte il prezzo medio di un biglietto è 15€. La gente non si rende conto che il prodotto che acquista ha un valore più alto.

Negli anni ’90 a calcare le scene del teatro Carcano erano nomi quali Gaber, Montesano, Melato e Lavia, mentre oggi gli attori tendono ad essere sconosciuti a chi non è nel giro o un appassionato. Si può ancora parlare di “divismo teatrale”?
Ci sono delle differenze rispetto al passato: non ci sono più gli attori di un tempo. Quelli di oggi vorrebbero essere come quelli di allora ma non ci riescono. Non perché non siano bravi, ma perché è cambiata la società. Quando io ho iniziato ad andare a teatro, e parlo degli anni ’70, ci si andava con l’abito lungo, era un luogo chic, settoriale. Era quindi più facile per un attore darsi un tono. Prima più che di divismo si parlava di popolarità. Oggi è diverso, c’è un atteggiamento meno disincantato verso lo spettacolo, il teatro non è più percepito come un luogo così lontano.

Chi va a teatro oggi?
Forse è più facile individuare chi NON va, ed è la fascia dei 35-50enni. Perché oggi si diventa genitori più tardi e si fa carriera più tardi, quindi la sera si rimane a casa a badare ai figli o a lavorare. E poi quella generazione non ama vedere gli spettacoli, è cresciuta in un ventennio in cui si è fatto pessimo teatro e oggi lo considera un mezzo stantio.

Quanto è disposta ad osare nel cartellone?
Gestire un teatro è un po’ come gestire una pasticceria: devi creare dosi perfette di tutti gli ingredienti, altrimenti l’insieme non funziona. Il Carcano è un teatro di tradizione e il pubblico si aspetta da noi il mantenimento di una promessa. Nonostante ciò, abbiamo sempre cercato di osare. Ad esempio nella scorsa stagione con “Pensaci, Giacomino!” interpretato e diretto da Vetrano e Randisi. O con Monica Guerritore sotto la regia di Sepe. Bisogna saper osare avendo sempre presente il pubblico di riferimento, e soprattutto che esso non va mai tradito. Il pubblico ha tutto il nostro rispetto.

Che ne pensa della tradizione teatrale milanese? E’ancora forte rispetto al passato e ad altre città?
Direi che gli unici due centri teatrali ad essere saldi si possono oggi individuare in Milano e Roma, ma sicuramente il sentimento verso il teatro non è più così forte come prima. A Milano si sviluppa un’intensa attività di produzione, ma la “tradizione” vera e propria non esiste più. Negli ultimi anni sono nati dei poli che non hanno più niente a che vedere con il teatro ma che stanno diventando la norma. Gli spettacoli ormai si fanno nelle chiese, nelle piazze e nei centri culturali; a mio parere questo non è fare teatro. È un problema di fisicità e di spazio, fare teatro fuori dall’ambito teatrale può essere sfizioso a vedersi, ma non dovrebbe diventare la quotidianità.


La voce ai protagonisti



"Dalle ultime statistiche e dai dati SIAE e AGIS, Milano si conferma la capitale del teatro. Si fa più teatro a Milano di quanto se ne faccia in qualsiasi altra città italiana e il numero di biglietti venduti è in leggera crescita. Insomma il teatro non sembra risentire della crisi anche se, ovviamente, non bisogna generalizzare. Ma l’offerta milanese è eccellente, variegata, costante. C’è insomma teatro per tutti i gusti e per tutte le tasche. Va anche detto che il Comune di Milano, la Provincia e la Regione sostengono il teatro milanese contribuendo anche a calmierare i prezzi con proposte fattive.
Quali siano poi le molle che spingono i milanesi ad andare spesso a teatro è forse più difficile a dirsi. Anzitutto a Milano c’è teatro per tutti […] e poi basta ora aprire una pagina web o collegarsi a facebook o twitter e gli sconti e le proposte piovono a decine... al punto che è difficile sapersi orientare. […] Credo dunque che chi, ora come ora, non va a teatro a Milano, non ci vada per scelta (o forse per mancanza di informazione) non certo perché il teatro costi".

Alberto Bentoglio, docente di storia del teatro



“C’è un pubblico teatrale ben definito, ma nella mia esperienza io ho visto molti teatri pieni. E questo è un bene”

Galatea Ranzi, attrice


“Il nostro può essere considerato un paese lirico, ma non di teatro. E il pubblico non considera il teatro come un accrescimento del proprio patrimonio culturale. In Italia è nata la commedia dell’arte che si basa sul buffone, sul personaggio che si mette in evidenza e fa ridere; allo stesso modo oggi il teatro per l’italiano è buffoneria, non un evento culturale”

Nello Mascia, attore


“La passione (dei milanesi nei confronti del teatro n.d.r.) è rimasta costante, cambiano gli oggetti. Prima dire “teatro” a Milano era come dire “Piccolo”, oggi c’è molta più scelta, ci sono molti più teatri e i milanesi scelgono”

Paolo Bosisio, docente di storia del teatro



Elisa Costa e Valeria Pallotta

22 gennaio 2010

Nostalgie

Quella di paragonare l’epopea berlusconiana al fascismo è ormai un’usanza quasi comune, soprattutto tra i giornali di sinistra (o comunque tra quelli non asserviti) e i cosiddetti “giustizialisti”. Ma, riflettevo di recente con un amico in un caffè virtuale, si può infamare Mussolini in questo modo?
Il recente show del primo ministro dal fido Vespa, con il pretesto dei prefabbricati realizzati dalla provincia di Trento, potrebbe forse ricordare i cinegiornali Luce celebrativi della bonifica di Latina e Littoria; ma Mussolini la bonifica la portò a termine sul serio, e quindi aveva anche ragione di gloriarsene. Il Duce, inoltre, (come ha anche sottolineato in varie occasioni la nipote) non ha mai fatto diventare ministro la sua amata Claretta Petacci.
Qualche malizioso, a questo punto, potrebbe anche pensare che sto facendo un giochino sporco, e pericoloso, tentando di riabilitare Mussolini in confronto a Berlusconi: niente paura. Non sono cose che si fanno davanti a un caffè, figuriamoci davanti a un caffè virtuale.
Però, mentre agitavo il cucchiaino con il mouse, mi è venuto da pensare: se fossi di destra, pure io sarei un nostalgico. E chi non lo sarebbe, vedendo questo Paese passare dalla scuola di Giovanni Gentile a quella di Mariastella Gelmini?
Danilo Aprigliano

17 gennaio 2010

I DIECI SPORT PIU' ASSURDI DEL MONDO - SECONDA PARTE

5. LUMBERJACK
Se vi siete chiesti se in Canada sia nato qualcosa di più socialmente utile di Avril Lavigne: ecco il Lumberjack! Bisogna tagliare quanti più tronchi possibili e accatastarli in una pila, vince chi ne ha tagliati di più. Le origini di questo sport sono ignote; pertanto non possiamo fare altro che ringraziare le menti anonime che hanno partorito questa meravigliosa idea. Inutile dire che questo gioco è estremamente pericoloso: se temi il pensiero di una vita senza falangi, forse faresti meglio a darti al curling.

4. TRASPORTO DELLE MOGLI
Sport nato in Finlandia come metafora della società moderna (1). Alla faccia delle tanto decantate pari opportunità nordiche, gli uomini percepiscono la vita coniugale come una corsa lunga e difficile da percorrere con le sole proprie forze e facendosi carico della moglie, un vero peso.
Tale interpretazione del matrimonio è traslata in 250 m di corsa con moglie sulle spalle. Il percorso è costellato da ostacoli di ogni genere: acqua, barriere e altro, il tutto corredato dai probabili insulti della donna, che difficilmente resisterà all’impulso di lanciare improperi ad ogni scossone o di spiegare diplomatica che se a decidere fosse lei, sicuramente sarebbero in testa!
Il primo arrivato vince una quantità di birra equivalente al peso della moglie, oltre naturalmente al prestigioso titolo di campione mondiale di trasporto delle mogli. Che tra il vaso regalato dalla suocera e la foto del matrimonio, in salotto fa sempre la sua porca figura!

3. LANCIO DEL CELLULARE
Sport nato in Finlandia come metafora della società moderna (2). In un mondo che ci vede schiavi della tecnologia e dipendenti dai mezzi di comunicazione di massa, quale modo più eclatante per esprimere il proprio disappunto di un lancio del proprio cellulare?
Ormai l’abbiamo capito, in Finlandia non devono avere molto da fare per mettersi a inventare tanti sport demenziali, pensare che di questa disciplina esiste anche un campionato mondiale e un punteggio da guinness – 95. 08 m. – realizzato dal campione in carica Chris Hughff.
E qui mi chiedo: dopo aver realizzato un record… non gli sarà venuta voglia di chiamare qualcuno per raccontarlo in giro?
Al “lancio” si potrebbe allora affiancare l’inedito sport “caccia al telefonino”. Vince chi dopo il tiro ci mette meno tempo a pentirsi e correre a comprare un cell nuovo. Meglio se insultandosi da solo!

2. BUZKASHI
è lo sport nazionale in Afghanistan e Turkmenistan. Il che spiega molte cose. Si tratta di una specie di basket che al posto del canestro vuole un cesto e invece del pallone una carcassa di animale morto, che un non meglio precisato numero di afgani a cavallo deve scagliare nella cesta avversaria. Quando questo succede, si ravvisa nei componenti della squadra un certo entusiasmo, e da ciò ne deduciamo che sia come segnare un goal.
È uno sport particolarmente violento, ricco di infortuni e che prevede una divisa dotata di speroni e stivali pesanti. Le partite possono durare dei giorni, anche perché così presi come sono a buzkashiare, in centro Asia nessuno ha ancora avuto tempo di scriverne le regole. Vi verrà probabilmente la pulsione di voler imparare a giocare, ma, purtroppo, e per ragioni sconosciute, questo sport in Italia non è praticato.

1. LANCIO DEL NANO
“The dwarf tossing” è uno sport australiano dal regolamento particolarmente sintetico (afferra un nano e scaglialo più lontano che puoi) che sta ottenendo un discreto successo presso ubriachi e confraternite.
Esistono molte categorie nelle quali specializzarsi, come il lancio attraverso la vetrata o quello nel cerchio di fuoco (in questo caso è obbligatorio avere con sé un estintore). Ci sono anche molte regole precise da rispettare, pena la non omologazione del lancio… o del nano! Quest’ultimo non deve parlare durante il volo, neanche emettere un comprensibile “Ah!”, va afferrato per delle maniglie poste sulla schiena e deve essere consenziente.
Tale sport è praticato in alcune discoteche di Ibiza e negli Stati Uniti, dove le gare sono accompagnate da continue polemiche dei difensori dei diritti dell’uomo, gente che in vita sua non ha mai lanciato neanche una pallina da ping pong e che vuole bandire il gioco definendolo “pratica barbara”. Come a dire: “non è che perché sono bassi li potete scagliare a piacimento!”.
In Italia questa disciplina è sconosciuta. Un vero peccato, per un Paese in cui lanciare un uomo molto basso contro la finestra è ormai fantasia collettiva!

Elisa Costa

15 gennaio 2010

WELCOME ?!


“…non ragioniam di loro, ma guarda e passa.”

“Welcome”! Ogni zerbino che si rispetti ha orgogliosamente tatuato un buon messaggio di benvenuto.
Il film di Fhilippe Lioret ci mostra invece il respingente “benvenuto” che accoglie i clandestini che giungono nella Francia delle leggi restrittive emanate dall’attuale governo, che prevedono sanzioni penali per chiunque sia disposto ad aiutarli.
Benvenuto che può essere interpretato utilizzando anche un’altra chiave di lettura, quella dei sentimenti. Nel momento in cui l’indisponente vicino di casa di Simon (interpretato da Vincent Lindon), chiude la porta a qualsiasi possibilità di dialogo, la porta fisica e metaforica di Simon invece si apre, ormai senza più reticenze, all’ospite: il giovane curdo Bilal (Firat Ayverdi), giunto a Calais dopo un solitario viaggio attraverso l’Europa. Il suo scopo è raggiungere la Gran Bretagna per ritrovare il suo amore, Mina, promessa sposa ad un vecchio cugino. È per lei che tenterà di attraversare la Manica a nuoto, pur non sapendo nuotare. Sarà Simon ad insegnarglielo, istruttore nella piscina pubblica che il ragazzo ha deciso di frequentare.
Due esistenze diverse che si incontrano, unite dalla comunità di un sentimento: l’amore. Per Bilal, quello puro e liricamente poetico verso Mina; per Simon, quello coriaceo e taciuto verso la sua ex-moglie Marion. Sentimento che, attraverso un moto circolare, legherà Simon a Bilal, portandolo ad affrontare la chiusura delle istituzioni e il pericolo delle sanzioni penali.
Rapporto affrontato con delicatezza, che non manca di scontri e incomprensioni. Simon non viene identificato come benevolo precettore: è un uomo come tanti, non privo di difetti, che non ha nulla da insegnare a Bilal (se non il nuoto) da cui non ha che da apprendere. Personaggio, quest’ultimo, incontaminato nonostante il contesto di miseria che lo circonda (esemplare è l’utilizzo che fa dell’anello regalatogli da Simon, che non lo vende per pagare un trafficante, ma lo conserva per regalarlo a Mina), e commovente nella sua determinazione al raggiungimento di un obiettivo pressoché impossibile.
Ciò che rimane è la potenza dell’amore: quello perduto (privo di quei travagli post- bohémien tanto di moda), e quello sconosciuto, che trova fondamento nella relazione tra i due protagonisti.
Un film da non trascurare, che con estrema naturalità affronta tematiche difficili e si inerpica nella sconosciuta spontaneità delle emozioni.
Welcome dunque “Welcome”!

Michela Giupponi

13 gennaio 2010

I DIECI SPORT PIU' ASSURDI DEL MONDO - PRIMA PARTE

Se pensavi che il Quidditch fosse lo sport più incredibile mai concepito da mente umana, evidentemente ti sei perso alcune delle più assurde discipline regolarmente praticate nelle varie parti del mondo.
Non disperare: per colmare questa tua lacuna ecco pronta la classifica dei dieci sport più improbabili del mondo.

10. CURLING
Con un po’ di fortuna, può capitare che in occasione di Olimpiadi o campionati mondiali un atleta possa essere strappato dall’anonimato, per godersi un quarto d’ora di popolarità alternando servizi fotografici a spot per la propria merendina preferita.
E a un anno dalle invernali di Vancouver già si scommette su chi sarà il prossimo a entrare nel club dell’ è bello essere famosi. Qualcuno punta su Stefano Ferramato. Probabilmente sua madre: Ferramato è nella nazionale italiana di curling, sport che ad ogni olimpiade stupisce milioni di telespettatori, esterrefatti per la facilità con la quale si erano dimenticati della sua esistenza, quattro anni prima.
In pratica, un giocatore lancia una speciale roccia di granito da 20 kg, la stone, verso una certa area del campo, aiutato dall’intervento dei compagni di squadra che scopano il ghiaccio lungo la traiettoria per eliminare l’attrito.
Uno sport che mette adrenalina al solo pensiero. È abbastanza plausibile immaginare mezza Italia programmare la propria cena sul fuso orario del Canada per non perdere le eliminatorie di curling, gli stadi gremiti e inserti speciali su ogni giornale che si rispetti, da Vulcano alla Gazzetta.
E ancora: i manager Ferrero entusiasti con un contratto pronto per il nuovo testimonial dell’Ovetto Kinder e centinaia di bambini dimenticarsi la maglietta di Totti o Giardino per andare a chiedere “Papà, posso andare a scopare?”.

9. HORSEBALL
La domanda “come posso fare per fondere insieme basket, rugby ed equitazione?” è un dubbio che sicuramente tiene sveglie di notte moltissime persone. Per loro fortuna un francese che negli anni ’30 aveva molto tempo libero ci ha pensato sul serio e così è nato l’horseball.
Le regole sono semplici: due squadre formate da 3 o 4 fantini ciascuno devono effettuare il maggior numero di canestri. È vietato andare nel senso contrario alla palla, tenerla con sé più di 10 secondi e recuperarla smontando da cavallo.
Una disciplina incantevole, dagli elevati valori pedagogici che se invece di condividere i cugini d’oltralpe avessero tenuto per sé, probabilmente non sarebbe mancata a nessuno. Carla Bruni insegna.

8. SWAMP SOCCER
Letteralmente: “calcio palustre”. Due squadre si sfidano su un terreno ricoperto da non meno di 30 cm di fango.
In Finlandia, dove è nato, è sport nazionale tra gli sciatori che vogliono mantenersi tonici anche d’estate.
In Italia, dove è sconosciuto, un semplice bambino tornato lercio dopo una partita a pallone con gli amici può essere considerato importatore di una disciplina ludica internazionale, per la gioia di europarlamentari, italo – finlandesi e di chiunque auspichi maggiore vicinanza tra le due culture.
Ora vallo a spiegare a sua madre…

7. RAFTING CON BAMBOLA GONFIABILE
Se trovate una bambola gonfiabile nell’armadio di un vostro amico, non pensate subito a notti in solitaria condite con sexy toys. Magari siete davanti a un amante dell’hydrospeed, che assieme ad altri appassionati ogni anno si reca in Russia per i campionati di rafting. Lo sport tradizionale prevede la discesa di un fiume o torrente con l’ausilio di una tavola o canoa. Nella versione “con bambola” al posto della tavola i concorrenti (atleti?) devono procedere ben abbracciati alla loro doll.
Assolutamente obbligatorio l’uso di casco e salvagente. Assolutamente vietato gareggiare ubriachi e intrattenersi con la propria bambola, pena l’eliminazione. Questo è uno sport serio: non l’avevate capito?

6. CHEESE ROLLING
Tradotto sarebbe: “rotolare giù da una collina inseguendo forme di formaggio”.
Materiale necessario:
- una forma di formaggio Gloucester
- una collina (più ripida è, più ci si diverte)
- 20 idioti disposti a rotolare dalla suddetta collina e pronti a farsi veramente male pur di raggiungere il proprio scopo.
Se poi l’obiettivo sia scendere indenni nel minor tempo possibile o afferrare il formaggio (che può raggiungere i 120 km/h) prima degli altri, questo non è esattamente chiaro.
Così come non sono chiare le origini dello sport. Sembra facesse parte di un rituale curativo pagano nato 200 anni fa. Evidentemente al tempo “curarsi” era sinonimo di “ferirsi”, “sfracellarsi” e “lacerarsi”. Molto meglio un’aspirina…

(continua...)
Elisa Costa

8 gennaio 2010

7 gennaio 2010

SGUARDO A SUD-EST

LA MOSTRA DI STEVE MC CURRY AL PALAZZO DELLA RAGIONE

“If your pictures aren’t good enought, you’re not close enought.”
Robert Capa

La vicinanza dell’obbiettivo fotografico all’oggetto che si vuole ritrarre è uno dei cardini della professione fotogiornalistica. Ed è proprio questo aspetto del mestiere, lo stimolo che ha portato maestri come Frank Capa e Henry Cartier-Bresson a spingersi sempre più vicini al fulcro dell’azione, che oggi sta contribuendo alla crisi di questa professione. Le nuove teconologie, il cityzen journalism ci fanno capire che il primato sulla notizia non è più degli addetti al mestiere. Chiunque può passare dal luogo di un avvenimento e documentarlo con foto o filmati. Il contributo dei cittadini ha rivelato tutta la sua importanza offrendo testimonianze fondamentali in occasioni recenti come lo Tsunami o l’uragano Katrina.
Ma è sufficiente essere al posto giusto nel momento giusto? O forse la vicinanza di cui stiamo parlando non è soltanto fisica ma anche di approccio? Può la bellezza estetica di un’ immagine realizzata da un grande maestro, contribuire a portarci più vicino a un volto, un luogo, un avvenimento?

La mostra dedicata a Steve Mc Curry, uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea, ospitata questo inverno a Palazzo della ragione, può aiutare a rispondere a queste domande.
L’allestimento della mostra rompe il tradizionale rapporto frontale con lo spettatore. I duecentoquaranta scatti proposti, che ripercorrono i trent’anni più intensi della carriera del fotografo,sono presentati sotto forma di istallazioni, appese per tutta la sala come a rami invisibili di alberi che si snodano nella generale penombra dell’ambiente. Un percorso, un viaggio simbolico che evoca i viaggi reali compiuti dal fotoreporter nel sud e nell’est del mondo, dall’Afganistan all’India al Tibet.
“Volevo aggiungere quella terza dimensione, quella che non è possibile avere quando si sfoglia un libro” spiega la curatrice della mostra, Tanja Solci.
Il percorso espositivo è articolato in cinque sezioni, che non si rifanno ad aree geografiche, ma a percorsi tematici. La prima è intitolata L’ Altro ed è una sorta di galleria di ritratti, forse il genere fotografico più caratteristico di Mc Curry, in cui si affollano i volti più disparati: molti bambini ma anche molti anziani, quasi tutti colti in un momento di staticità in cui il loro “sguardo in camera” è più eloquente di qualsiasi immagine fermata nel bel mezzo dell’azione. «Nei ritratti ricerco il momento di vulnerabilità in cui l'anima, pura, si svela e le esperienze di vita appaiono incise nel volto», dice il fotografo.«Per me i ritratti trasmettono il desiderio di rapporti umani, un desiderio talmente forte che le persone, consapevoli del fatto che non mi vedranno più, si aprono all'obiettivo nella speranza che qualcuno, dall'altra parte, li veda; qualcuno che riderà o soffrirà con loro».

La seconda sezione tematica ha per oggetto Il Silenzio del viaggio e dei villaggi che il fotografo attraversa. Persone in preghiera, spazi chiusi dominati da spettacolari giochi di luce, campi lunghi, immagini maestose di navi: la sensazione è di avere di fronte scatti di cose e persone congelate in un istante assoluto.

Il passaggio alla sezione successiva è brusco. Il tema non poteva mancare, è il soggetto per eccellenza del lavoro dei fotoreporter, La Guerra. Dalla distruzione delle Twin Towers, documentata da Mc Curry che vi assiste in prima persona, a spettacolari campi lunghi su un Kuwait - terra del fuoco. Il tema della guerra è però reso anche attraverso immagini poetiche e allusive, come quella di un bambino su un letto di ospedale, il cui impatto emotivo è amplificato dai ricami di luce sulle pareti.

Dopo la guerra viene La Gioia. Le immagini successive mostrano il riemergere di una quotidianità festosa, dominata dai colori più accesi. Non sono immagini edificanti che inneggiano alla pace, è pura quotidianità, un quieto vivere che la guerra non ha intaccato. “Quando la sorpresa di essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”, per citare lo stesso Mc Curry.
Segue una sezione importante dedicata all’ Infanzia, di sicuro impatto per i visitatori perché riporta in primo piano la situazione dei bambini-soldato. Come nella prima sezione, sono di nuovo protagonisti gli sguardi, nella contraddittorietà di un’espressione innocente e adulta allo stesso tempo.
L’ultima sezione si integra perfettamente con la precedente e ha come titolo La Bellezza. Presenta i ritratti di tre bambine bellissime, immagini di dolcezza e di profonda dignità. Tra questi, il celebre viso della “ragazza afgana”, tra le più note copertine di National Geographic.
Il percorso quindi si apre e si chiude sui volti.
La mostra però prevede una sezione speciale, dedicata non più alla foto singola ma al fotoracconto, immagini più piccole che compongono narrazioni sui temi Aids, Monsoon e Portraits.

“Con questa prima grande personale di Steve McCurry abbiamo voluto offrire uno schermo per una storia, una scena per un racconto per accogliere gli sguardi e i volti di una trentennale carriera d’artista votata alla bellezza e all’impegno” spiega l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Massimiliano Finazzer Flory.
L’impegno dunque di “andare vicino” alle cose per offrire una testimonianza senza retorica, ma ricca di bellezza.
Laura Carli


STEVE McCURRY
SUD-EST

Milano, Palazzo della Ragione
(piazza Mercanti 1)
11 novembre 2009 - 31 gennaio 2010
Ideata e curata da Tanja Solci

Orari
Da martedì a domenica h 9.30 - 19.30
Giovedì h 9.30 - 22.30
Lunedì h 14.30 - 19.30
La biglietteria chiude un’ora prima

6 gennaio 2010

NON SOLO PROFITTI: la responsabilità sociale d'impresa

Massimizzare i profitti: questo è, secondo l’economia neo-classica, il compito principale di un’impresa. Mentre negli Stati Uniti i tribunali hanno sostenuto per decenni questa impostazione come l’unica corretta, in Italia già nel 1947 si stabilivano due fondamentali principi. Quello in base al quale l’iniziativa economica privata, benché libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e quello secondo cui l'attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini sociali (entrambi enunciati nell’art. 41 della Costituzione).

Nel 1953 anche in America una storica sentenza (Smith vs Barlow) ha messo in chiaro che le imprese, in quanto componenti della comunità in cui operano, hanno il dovere di riconoscere ed adempiere anche a responsabilità di carattere sociale.
Da allora si è man mano diffusa una cultura della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) che postula l’esistenza di obblighi fiduciari non soltanto nei confronti di azionisti e investitori, ma anche nei confronti di clienti, fornitori, lavoratori, concorrenti e in genere delle comunità locali, anche se, a dire il vero, la qualifica “locale” assume oggi contorni abbastanza sfumati.

Questa idea di RSI è alla base del “manifesto di Davos”, un codice morale di condotta aziendale redatto da 300 manager europei nel 1974. In esso è espresso chiaramente il concetto per cui il comportamento d’impresa non deve essere condizionato esclusivamente dagli interessi economici, ma deve essere guidato dalla giusta considerazione dei bisogni della collettività. Si attribuisce così implicitamente all’impresa anche il ruolo di soggetto politico, deputato a dar voce e poi risposta agli interessi più generali della comunità di riferimento.

In epoca più recente, il tema della RSI è stato illustrato nel Libro verde della Commissione Europea del 18 luglio 2001, intitolato Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile. In esso si parla di “integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali nella gestione delle attività d’impresa e nelle relazioni con le parti interessate”.
E’ evidente la necessità che tali iniziative si svolgano all’interno di un quadro normativo che deve essere unitario e coerente ma anche declinabile differentemente, ad esempio a seconda dei diversi contesti aziendali (grandi o piccole imprese, pubbliche amministrazioni).
Qualche azienda ha già iniziato a redigere documenti in cui viene precisata la propria policy in relazione a diversi temi. Dando risposta ad esigenze fortemente sentite, spesso i contenuti riguardano non soltanto la sicurezza, l’uguaglianza, l’organizzazione del lavoro, ma anche il rispetto delle regole contrattuali nei rapporti con i fornitori e quello delle regole di correttezza nei rapporti con i dipendenti e i fruitori/consumatori.

Flavia Marisi

4 gennaio 2010

RASSEGNA TEATRALE STAGIONE MILANESE - PARTE SECONDA


“Fatti non foste a viver senza teatri, / ma per seguir, a prezzi scontati, spettacoli e canoscenza"*

“Ciò che ho sempre trovato di più bello, a teatro, è il lampadario”. (Charles Baudelaire)

Gennaio. Il primo mese del nuovo anno è con alta probabilità del Teatro Carcano, che propone da un lato un grande classico dell’antologia pirandelliana, “Il giuoco delle parti”(13-24/1), regia di Marcucci e Courir; dall’altro l’ultimo successo della goliardica e dinamica Lella Costa, “Ragazze”(27/1-14/2), che guida gli spettatori in un appassionata analisi dell’animo femminile.
Al Teatro Allianz, dal 27/1, dopo “We will rock you”, il musical cult “Cats”, regia di S. Marconi, regia associata e coreografie inedite di D. Ezralow, e musiche affidate a un’orchestra dal vivo.

Febbraio. Al Piccolo Teatro di Milano, “20 novembre” (5-28/2) di L. Norén, monologo ispirato alla tragedia del diciottenne omicida che nel 2006 uccise nel liceo della cittadina di Emstetten, in Vestfalia, 30 persone tra alunni e professori. Dal 7/2, al Teatro Nuovo, “Dante legge Albertazzi”, reduce delle letture calviniane.
Molto interessante appare invece la proposta del Teatro Leonardo, che con “Quasi perfetta”( 2-14/2), sempre frutto dell’ingegno della Compagnia teatrale “Quelli di Grock”, mette in scena il tema dell’anoressia. Rappresentato in tutta Italia e all’estero.

Marzo. Il mese di marzo si aprirà con la rappresentazione, nella nuova sede del Teatro Elfo (C.so Buenos Aires 33; 6-7/3), per la prima volta, dell’edizione integrale di Angels in America, di cui avevamo già parlato per il mese di novembre.
Al Teatro Leonardo troviamo invece “La regina della neve”(2-7/3), dalla fiaba di Andersen, produzione Quelli di Grock, rappresentazione metaforica dei vari passaggi della vita e delle difficoltà da superare insite in ogni cambiamento.
“Arlecchino servitore di due padroni”, spettacolo dei record di C. Goldoni, regia di G. Strehler, messa in scena di F. Soleri, giungerà al Piccolo Teatro di Milano dal 2 al 21/3. Rappresentato in 40 Paesi del mondo e in oltre 200 città, ha superato le 2.600 recite e due milioni e mezzo di spettatori. Infine, da segnalare è “Le bocche inutili”(11-28/3), a cura di Raimondi e Massimilla, testo teatrale inedito di S. De Beauvoir sul conflitto tra legge civile e morale, presso Pacta dei Teatri.

Aprile. Sempre al Pacta dei Teatri, dal 28 al 30/4, interessante risulta la messa in scena del testo di Eliot, “Terra desolata”, cult al 15°anno di repliche.
Mentre da non perdere è l’interpretazione al Teatro Nuovo di Leo Gullotta, in “Il piacere dell’onestà”(20/4- 2/5), commedia pirandelliana incentrata sulla fobia della società per l’onestà, intesa come valore dimenticato o ignoto.
Maggio. Due sono le iniziative interessanti per questo mese. Uno: il Teatro Elfo Puccini, dal 4 al 30/5 mette in scena “Happy family”, spettacolo di A. Genovesi ispirato all’ultimo film di Gabriele Salvatores, della stessa compagnia che aveva portato il testo al successo. Due: il Teatro Leonardo ospita la casa editrice Marcos y Marcos, che propone iniziative e letture le più varie.

Come andare a teatro senza il becco di quattrino (o quasi): riduzioni e sconti. Se sei uno studente della Statale sappi, o studente, che hai diritto a sconti e riduzioni. Come? Consultando la mail personale dell’Università Statale di Milano, con frequenza regolare Aldo Milesi, tramite l’indirizzo studiurp@unimi.it, responsabile del progetto “Studio di fattibilità dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico” (Via Golgi, 19-tel. 02/50314600), invia promozioni e riduzioni per i maggiori teatri milanesi (Piccolo, Litta, La Scala, Leonardo,etc). Basta cliccare sul link offerto, e acquistare, presentando la tessera universitaria!

Discorso a parte va invece fatto per il Teatro alla Scala: sapevate che si può assistere a tutti gli spettacoli a 10/7.50 euro?! Come? L’Associazione musicale “L’Accordo”, ufficialmente incaricata dal Teatro, mette ogni giorno a disposizione 140 biglietti numerati di galleria, da acquistare due ore prima dell’inizio dello spettacolo presso la Biglietteria Serale del Teatro in Via Filodrammatici. In pratica consultando gli orari, ma tendenzialmente per l’opera serale presentandosi alle 13, ci si iscrive nella lista degli addetti de “L’accordo”. Intorno alle ore 17-18 si terrà l’appello di chi si è iscritto alla lista. All’atto dell’appello l’aspirante all’acquisto, iscritto in lista e fisicamente presente, riceverà una contromarca numerata secondo l’ordine della lista. La contromarca andrà consegnata presso la Biglietteria Serale del Teatro e darà diritto al ritiro di un solo biglietto. Sarà pure una gran fatica…Ma la soddisfazione di entrare alla Scala, al prezzo di un biglietto del cinema, vi assicuro è veramente unica!
Infine, altra iniziativa da non sottovalutare è il Pass Under30, che permette, al prezzo di 10E, di entrare nella newsletter del Teatro, essere informati su sconti, prender parte alle prove, last-minute riservati, visite, etc. Insomma, se volete andare a teatro solo per rimirare il lampadario, quantomeno fatelo risparmiando!

Valeria Pallotta

3 gennaio 2010

IL MARE MAGNUM DELLA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI - PARTE SECONDA

L’approvazione del progetto Israel

La bozza di regolamento prodotta dalla commissione presieduta dal professor Giorgio Israel è stata approvata dal consiglio dei ministri, dopo un’azione di primo confronto con il mondo della scuola e delle associazioni per l’integrazione scolastica. Ora non resta che aspettare la delibera della commissione parlamentare e infine quella del Consiglio di Stato per il varo finale. Se il regolamento ottenesse l’approvazione degli organi, potrebbe uscire come decreto ministeriale entro febbraio per poi essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ciò significa che già entro l’anno accademico 2010/2011 la formazione degli insegnanti potrebbe riprendere a pieno ritmo seguendo il nuovo regolamento.
Cambiano dunque le modalità per accedere all’insegnamento.

Rispetto alla bozza originale, come risulta dal colloquio con il Professor Elio Franzini, preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’università degli studi di Milano e membro della commissione di lavoro per la formazione del personale docente, non ci sono modifiche rilevanti. Le ore di tirocinio passano da 300 a 475, i crediti disciplinari sono stati diminuiti e il peso delle componenti della scuola secondaria nelle commissioni di tirocinio è stato parificato.
Quest’ultimo aspetto è direttamente connesso alle esigenze di equiparazione tra scuola e università nella formazione dei futuri insegnanti, puntando non soltanto alla pura acquisizione teorica e metodologica delle competenze didattiche e pedagogiche, ma anche ad un’interazione diretta con le problematiche reali dell’insegnamento attraverso l’esperienza sul campo.
Si evince l’importanza della ricerca di un rapporto di collaborazione tra università e istituti scolastici, teso a evitare la formazione di gestioni chiuse, immobilizzate e autoreferenziali.

La novità più rilevante, già evidenziata nel precedente articolo, è la presenza del Tirocinio Formativo Attivo (TFA), relativo alla scuola secondaria di primo e secondo grado, cui per accedere è necessario essere in possesso del titolo di laurea magistrale e dei crediti previsti dalla classe di abilitazione.
L’accesso è numero chiuso e, nel caso delle secondarie di secondo grado, programmato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) che comunica agli Uffici Scolastici Regionali le esigenze di reclutamento per ogni classe di abilitazione. L’USR incontra i responsabili degli Atenei e Facoltà della regione in cui è presente il corso di tirocinio per le classi di abilitazione e, in accordo con loro, verifica la disponibilità ad attivare il tirocinio per poi comunicare al Ministero il numero di posti da attivare per ciascuna classe e da assegnare a ciascun Ateneo.
La gestione delle attività didattiche del Tirocinio Formativo Attivo è affidata al consiglio di corso, formato in numero paritario tra componenti scolastiche ed universitarie.
Occorre a questo punto fare una riflessione. La parificazione del peso delle componenti della scuola nella commissione e l’aumento delle ore di tirocinio vanno a placare le critiche sollevate dai gruppi di opposizione al progetto, tra cui spicca Diesse, soggetto accreditato per la formazione del personale della scuola che aderisce alla Compagnia delle Opere ( associazione legata a Comunione e Liberazione). Il gruppo sostiene che nella formazione il peso del mondo accademico sia eccessivo, e ha chiesto il riequilibrio con la componente scolastica. L’intervento farebbe pensare però ad un lucido piano politico: l’obiettivo sarebbe il controllo del meccanismo formativo, visto che è l’Ufficio Scolastico Regionale (notevolmente politicizzato) a segnalare, in maniera paritetica, le scuole in cui svolgere il TFA prescindendo da chi forma (le università).
Nonostante tutto, appare evidente che per buona parte la selezione degli insegnanti viene messa in mano al potere politico, anche se il progetto proposto dalla commissione dovrebbe essere strettamente connesso alla formazione e non al reclutamento del corpo docente, ponendo tra i propri obiettivi l’esigenza di una più solida preparazione didattica e socio-psico-pedagogica in grado di formare figure professionali complete.

Concludendo, sorge spontanea una domanda: che succederà nel tempo che occorre per portare a termine le nuove lauree?
La bozza prevede delle “norme transitorie”, atte a non traumatizzare e ingolfare il sistema di formazione. Per esempio gli studenti che hanno superato l’esame di ammissione alle S.S.I.S, e in seguito ne hanno sospeso la frequenza, sono ammessi al TFA senza dover sostenere l’esame di ammissione per la corrispondente classe di concorso, da superare invece per gli studenti che fuoriescono dalle attuali lauree magistrali.
Per quel che riguarda invece la collocazione di coloro che hanno già acquisito l’abilitazione all’insegnamento e che ingrossano le file dei precari della scuola, il progetto ovviamente non può dare nessuna risposta, costringendoli come sempre in una sorta di limbo:

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio”.



Michela Giupponi