29 novembre 2006

KOINE' - SOSPESO

Lo scorso 22 ottobre è ufficialmente uscito il secondo album della band romagnola dei Koinè sempre pubblicato con la linea low-cost di mini-cd prodotta dall’Alkatraz scrl. Sebbene questo loro secondo disco si presenti allo stesso modo del primo (Senza tranquillità) ossia tre canzoni più un video, i Koinè centrano un’altra volta il bersaglio, producendo un mini-cd di tutto rispetto. Con Sospeso la band dimostra di essere riuscita a crescere artisticamente componendo dei testi più adulti e conferma l’attitudine verso sonorità a tratti più cupe con riff graffianti di chitarra come nell’opener “Rivoluzione”, o con giri di basso accattivanti e facilmente orecchiabili che catturano l’attenzione in “Solo una sensazione”. Con la title track “Sospeso” ritroviamo invece la vena pop del gruppo con un singolo di facile ascolto tipicamente radiofonico anche se attraversato verso la fine – seppur per pochi secondi - da elementi tipici dell’alternative pop-rock. A dispetto del precedente però, questo singolo sembra purtroppo più debole, e soprattutto a metà canzone si sente come una mancanza di mordente. Fortunatamente però questo non intacca eccessivamente la qualità complessiva dell’album, che rimane comunque un disco tutto da ascoltare. Un gruppo sicuramente da tenere d’occhio nel futuro, e che continua a proporre un rock alternativo fresco e dinamico.

Per maggiori informazioni: www.koinemusic.it

Antonino Marsala

24 novembre 2006

BIBLIOTECHE D’ATENEO: NON C'È POSTO PER I QUOTIDIANI

Se siete stanchi della paura che vi attanaglia negli istanti che precedono l’esame, e per una volta siete voi ad aver voglia di far venire il mal di pancia al professore, provate a sventolargli davanti la pagina di un quotidiano: vedrete che spavento.
Da una ricerca effettuata nelle biblioteche universitarie della Statale, nello specifico in quelle di Lettere e Filosofia, risulta che l’ospite più sgradito all’Ateneo è il quotidiano. «Non abbiamo il posto dove metterlo», «non è tradizione averne», «non ce lo possiamo permettere», sono alcune delle spiegazioni date per giustificarne l’assenza, ma anche: «Non lo voglio!», ha tuonato il professor Grado Giovanni Merlo dai corridoi del Dipartimento di Scienze Storiche.
Però nelle biblioteche di Lettere e Filosofia si fa un gran parlare degli assenti: vi si trovano testi come “Letteratura e giornalismo”, “Dizionario di Giornalismo”, “Giornalismo: com’è, come funziona”, “Intervista sul giornale italiano”, per citarne alcuni; ma del diretto interessato non c’è ombra. Può permettersi un’università che ha visto il fiorire negli ultimi anni di svariate cattedre di giornalismo, che segnala il mestiere giornalistico come possibile sbocco lavorativo in praticamente tutte le guide dello studente di Facoltà di Lettere e Filosofia e che ha attivato all’inizio dell’anno accademico un master di giornalismo alle cui selezioni si sono presentati larga parte di laureati in materie umanistiche, può permettersi, questa Università, di non avere i quotidiani in consultazione, almeno in una delle biblioteche del polo umanistico? Ci risponde Elio Franzini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia: «Non è nostro scopo istituzionale fornire l’attualità. Può essere interessante studiare l’evoluzione degli scandali pubblici nella loro ottica storica, non contingente». Altrettanto scettica è Paola Vismara, direttrice scientifica della Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia, che condanna la precoce mortalità del giornale: «Data la carenza dei finanziamenti puntiamo ad avere materiale durevole».
Il timore di Paolo Di Stefano, inviato del Corriere della Sera e docente di Cultura giornalistica in Statale, è che tutto ciò sia una sorta di snobismo verso la stampa quotidiana: «L’auspicabile osmosi tra la cultura accademica e quella giornalistica non si è mai verificata per reciproci sospetti: per i giornalisti la cultura accademica è noiosa, per gli accademici quella giornalistica è di giornata». Sorge un dubbio: quale contributo possono dare lo scandalo calciopoli, la cronaca di un rapimento o le notizie sull’ultimo uscito dall’Isola dei Famosi, a uno che voglia diventare filologo romanzo? «Anche gli aspetti più aberranti dell’attualità sono un contributo allo sviluppo della coscienza critica e civile, il filologo romanzo deve disporre di questa coscienza critica - spiega Di Stefano - anche lo specialista più sofisticato deve sapere che c’è un certo Adriano Celentano che dice agli Italiani certe cose, altrimenti, lo specialista, che tipo d’interazione potrà avere con gli studiosi del futuro che sono gli studenti di oggi?». I professori dal canto loro si dicono perplessi sull’effettivo interesse dei ragazzi verso i giornali. Gli studenti italiani sono attratti dal mestiere del giornalista, ma il quotidiano lo leggono poco e meno dei loro coetanei europei. «Alcuni credono che il giornalista sia quello che si mette la pashmina (sciarpa indiana in lana di capra tibetana) e va a parlare in tv», è l’opinione di Rita Cambria, docente di Storia del giornalismo in Statale. Mentre Di Stefano sottolinea: «I quotidiani fanno una cultura troppo spettacolare e hanno la colpa di non parlare ai giovani, questi ultimi preferiscono riviste specializzate, il modello omnibus è sentito come una lacuna». Occorre evidenziare che le statistiche recentemente hanno registrato un’inflessione positiva, in merito alla questione giornali e giovani, nella fascia di età che va dai 14 ai 17 anni, e questo grazie anche all’Osservatorio Permanente Giovani-Editori che ha promosso la lettura del quotidiano nelle classi delle scuole secondarie superiori.
Tutti i professori difendono la scientificità delle biblioteche, ma queste sono sfruttate dagli studenti fino in fondo? Quanti sanno che la biblioteca digitale dell’Ateneo dispone del prezioso World Biographical Information System, il database biografico più completo e aggiornato? E quanto gli studenti vanno a scandagliare tra i volumi presenti negli scaffali delle biblioteche? «Il giornale potrebbe essere un modo per attirare i ragazzi in biblioteca – afferma Cambria - e trovandosi lì, a scaffali aperti, circondati dai libri, alla fine libro segue libro, potrebbero apprezzare i servizi di una biblioteca scientifica». Come se il giornale fosse un biglietto da visita per i tesori delle biblioteche universitarie.

Vita da quotidiano: l’incomodo di essere carta
Esiste un problema di spazi, dice Elio Franzini: «Sia per la consultazione che per la conservazione». Una soluzione è all’interno della stessa Università: infatti, eccezione che conferma la regola, l’Ateneo ha sottoscritto un abbonamento al quotidiano economico Sole 24 Ore. Le copie cartacee arrivano in Crociera – la sala consultazione di Giurisprudenza - e vengono eliminate dopo qualche mese per essere conservate in cd-rom; è possibile anche accedere alla banca dati del Sole 24 Ore tramite i computer della rete dell’Ateneo. Non insensibili al problema dell’assenza dei quotidiani in università si sono dimostrati gli studenti di Scienze Politiche: dopo averne fatta richiesta alla direzione della Biblioteca, si sono visti attivare l’abbonamento online a Corriere della Sera, Repubblica, Liberazione, Il Messaggero, Il Manifesto, La Stampa e L’Unità. Un servizio attivo da un anno che offre due postazioni nella Biblioteca Enrica Collotti Pischel. Lidia Diella, direttrice della Biblioteca di Scienze Politiche, ci dice: «Proprio per venire incontro alla richiesta degli studenti e risolvere il problema spazi, abbiamo deciso di sottoscrivere l’abbonamento ai quotidiani nella versione online».


E invece i quotidiani c’erano, ma serve il vocabolario
Ai governi scandinavi sta a cuore la divulgazione culturale dei loro paesi e, tramite le ambasciate, fanno avere all’Università il settimanale svedese WeekendAvisen nonché il femminile Damernas (“Il mondo delle donne”) e due quotidiani norvegesi, Dagbladet e Aftenposten: li trovate nell’aula Lokrantz della sezione di Germanistica, sono ammucchiati sul davanzale insieme al quotidiano danese Dagens Nyhter. A carico di Germanistica è, invece, l’abbonamento al settimanale tedesco Die Zeit. Con ritardo di due mesi, alla Biblioteca del Centro Studi Stati Uniti, arriva il New York Times da vedere in microfilm. Quando c’è l’addetto alla macchina. E con la stessa cadenza arrivano in cartaceo gli inserti letterari del New York Times e di The Times.
Si aggiunga alla lista il settimanale inglese The Economist, arriva ogni tre mesi in cd-rom.
E che non si accusi la Statale di Milano di campanilismo.


Europa...leggere il "Corriere" in...
Danimarca, Federico Zuliani, studente Erasmus presso l’Università di Copenhagen: «Ho studiato alla facoltà di Teologia e lì avevano, oltre che i maggiori quotidiani nazionali, l’equivalente danese di Avvenire».

Germania, Beatrice Barbieri, studentessa alla Libera Università di Berlino: «Nella Philologische Bibliothek, oltre a quelli tedeschi, c’è almeno un quotidiano per ogni nazione: Corriere, Le Monde, El Pais. L’unico svantaggio è che magari il giornale è vecchio di due giorni, ho notato particolare ritardo di quelli italiani».

Polonia, Irena Putka, docente di Lingua polacca alla Statale di Milano: «Parlo dell’Università di Varsavia. Ai tempi degli studi andavo a consultare la Biblioteka Uniwersytetu Warszawskiego, lì si trovano i cataloghi delle riviste, comprese i quotidiani. Ci sono sempre Gazeta Wyborcza e Zycie Warszawy».

Francia, Marco Genre, studente Erasmus presso l’Università di Strasburgo: «Nella biblioteca di lettere ci sono arretrati e riviste; i quotidiani sono disponibili in uno scaffale apposito o nella versione online. Inoltre esiste un centro per imparare la lingua proprio con l’ausilio dei giornali».

Norvegia, Bard Sandvei, lettore incaricato alla Statale di Milano: «I giornali che si possono leggere nella biblioteca dell’Università di Oslo sono: Aftenposten, Dagsavisen, Dagbladet, VG, Adresseavisen, Bergens Tidende, e altri».


Finlandia, Valeria Siotto, studentessa Erasmus presso l’Università di Jyvaskyla: «La biblioteca dell’università mette a disposizione quotidiani sia italiani che internazionali».

Svezia, Anna Karenina Brannstrom, collaboratrice ed esperta linguistica della Statale di Milano: «In tutte le biblioteche universitarie svedesi ci sono tanti quotidiani, normalmente si tengono fuori, per consultazione i numeri della settimana in corso, e poi vengono archiviati. Ci sono anche quotidiani stranieri. Il quotidiano e tutte le altre riviste hanno un angolo a posta nelle biblioteche e sono a disposizione per la lettura in qualsiasi momento del giorno. Ci sono anche le poltrone vicino».

Irlanda, William El Ariss, lettore incaricato all’Università di Galway: «Ci sono quotidiani, settimanali, mensili, sia nazionali che stranieri, sia in versione cartacea che online».


La proposta di Vulcano.
Corriere della Sera e Repubblica; i due principali quotidiani nazionali: un abbonamento online presso una delle biblioteche delle facoltà umanistiche. E’ la richiesta avanzata da Vulcano alla direzione della Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza, Lettere e Filosofia. La direttrice, Maria Alessandra Dall’Era, ha assicurato che se ne parlerà al prossimo consiglio. Noi vi terremo aggiornati sull’evoluzione degli avvenimenti e vi invitiamo a dire la vostra sul sito del nostro mensile. E se la proposta venisse respinta, consolatevi, c’è sempre Vulcano.

a cura di Diana Garrisi

23 novembre 2006

TRIENNALE BOVISA

Apre a novembre a Milano una nuova sede espositiva: Triennale Bovisa, distaccamento della già nota Triennale di via Alemagna.
La scelta non è stata casuale: la Bovisa è un quartiere considerato ideale “per l’innovazione che sta conoscendo, frequentato da circa 200000 persone ogni giorno, già sede del Politecnico e futura sede degli studi televisivi di Telelombardia”, come si legge nel comunicato pubblicato sul sito della Triennale stessa.

Il progetto è dell’architetto Pierluigi Cerri, che ha curato la riqualificazione dell’area della stazione di Villapizzone: 2100 mq di spazio, 1400 mq dedicati a mostre ed esposizioni temporanee, più il bookshop, il caffè ristorante e altri spazi dedicati a concerti ed eventi all’aperto. “Quadri di sale”, realizzati da Bettina Werner, impreziosiranno le pareti del Bistrot Bovisa, segnaletica e arredo urbano, realizzati da studenti di design, condurranno i visitatori verso la sede, opere realizzate dai writers rinomati in are milanese decoreranno il sottopasso della stazione di Villapezzone.

Mostra inaugurale sarà quella dedicata ad Hans Hartung, con una collezione di opere che vanno dal 1922 al 1989, anno della morte: 200 tele dell’autore esposte accanto a disegni a china, schizzi, fotografie, e approfondimenti riguardanti l’interesse dell’autore per l’archiettura. La quantità e la qualità del materiale, selezionato dalla Fondazione Hans Hartung di Antibes, ultima residenza dell’artista ( presenti opere inedite o mai esposte in precedenza), rendono l’esposizione unica, sicuramente una delle più importanti in Europa dedicate al poliedrico autore, figura di spicco nel panorama novecentesco e profondo innovatore del linguaggio artistico.

Claudia Bernini

20 novembre 2006

SHANTARAM - GREGORY DAVID ROBERTS

Un romanzo di quasi 1200 pagine, un capolavoro realizzato in tredici lunghi anni, un viaggio verso i colori, i sapori e gli odori dell'India. E' davvero difficile condensare in una breve recensione tutto ciò che è questo libro: passione, amore, amicizia, vita. Queste sono le parole-chiave del senso profondo di Shantaram, "Un capolavoro...un romanzo che tocca la mente e il cuore, che appassiona e fa pensare" (Daily Telegraph).

Greg, evaso dal carcere di massima sicurezza di Pentridge in Australia, si trova all'aereporto di Bombay con i documenti di un certo Lindsay. Una città, quella di Bombay, della quale ci si innamora subito con i suoi stravaganti personaggi, i colori, le sofferenze degli slum e le ingiustizie di un mondo corrotto. Ma anche con una grande umanità, solidarietà e capacità di condividere tutto, nel bene e nel male. Ed è proprio da qui che inizia la storia del protagonista, o meglio, la sua nuova vita. Lin si in reinventerà dottore un ambulatorio, entrerà a far parte della mafia di Bombay, affronterà prima una guerra in Pakistan e poi una in Afghanistan, verrà imprigionato e torturato, verrà risucchiato dal vortice dall'eroina, reciterà nei film della magnifica Bollywood, verrà amato e tradito.

La corposità del libro forse può intimorire qualche lettore ma, credetemi, leggerete questo libro con avidità fino all'ultima riga e poi rimpiangerete di averlo terminato così velocemente. Con soli 22€ potrete affrontare uno splendido viaggio e una magnifica avventura nel cuore dell'India o forse nel cuore del mondo.

Melissa Ceccon

19 novembre 2006

INDIA. RACCONTO DI UNA PICCOLA VICENDA IGNOBILE NEL PAESE DELLE CASTE

Vi voglio raccontare una storia.

Bant Singh viveva nel piccolo villaggio di Mansa nel Punjab. Nato dalit, intoccabile, è costretto a portare il peso della sua disgraziata condizione sulle spalle. A sopportare l’ostracismo, a convivere con una totale assenza di diritti, a sopportare il disprezzo di tutti i gradini superiori della piramide della società. L’anno passato, la figlia minore di Singh venne violentata da un gruppo di uomini di casta superiore. Molte donne dalit vengono violentate. Gli uomini di casta superiore non esitano a violarle sessualmente. La loro superiorità sociale rende quest’atto di sopruso quasi una riconferma del loro potere. Dei loro privilegi ormai assodati. Ma Singh portò il caso in tribunale. Osò farlo. Osò mettere in discussione un assetto sociale secolare. Osò, dal basso della sua infima condizione, alzare la testa. Osò ribellarsi contro il destino che l’aveva fatto nascere intoccabile. E la corte condannò tre dei violentatori all’ergastolo. L’upper class del villaggio decise di punire tanta insolenza. Singh fu dunque picchiato a sangue. Preso a colpi di spranga. Spietatamente. L’ospedale del suo villaggio gli negò le cure. Quando finalmente venne portato nell’ospedale della città più vicina era troppo tardi. La cancrena era già in fase avanzata. I medici furono costretti ad amputargli entrambe le braccia e una gamba.

I dalit costituiscono il 30% della popolazione dello stato del Punjab, considerato il granaio dell’India, e la metà di essi vive al di sotto della soglia della povertà. Sono sottoposti a continui soprusi e atrocità- si nega loro persino la possibilità di attingere l’acqua ai pozzi dei villaggi. Ma la quasi totalità di queste violenze non viene denunciata. Per paura delle repressioni. E delle rappresaglie.

Soltanto la presa di consapevolezza e la conseguente rivendicazione dei propri diritti potrebbe far mutare la disperata condizione delle donne e dei dalit. Soltanto il loro rifiuto a sottostare ancora a quella centenaria indegnità attribuita loro dalle alte caste. E forse non è un caso che Singh fosse proprio un membro del Mazdoor Mukti Morcha, movimento che si batteva per i diritti dei lavoratori agricoli.


Chiara Checchini

LONDON CALLING. UN DISCO ANCORA ATTUALE.

Ci sono pochi dischi che riescono ad essere più attuali a distanza di vent’anni di quanto non lo fossero all’epoca della loro uscita. O perlomeno tanto attuali quanto lo erano allora.

London Calling dei Clash è probabilmente uno di essi.

Siamo nel 1979: sono passati poco più di tre anni da quando i Sex-Pistols scandalizzarono all’ora di cena la middle-class britannica con insulti e parolacce in tv. E’ dicembre e Margareth Tatcher è appena andata al governo. Sono profetici i Clash quando nella title-track del disco di cui stiamo parlando cantano: “See we ain’t got no swing except for the ring of that truncheon thing [Guarda, non c’è più niente di swinging a parte il roteare di quel manganello]”. Sta arrivando un’era di repressione che colpirà tutti: i minatori in sciopero, gli irlandesi, gli abitanti delle Falkland. E’ il clampdown, il giro di vite, il pugno di ferro.

Ma la rabbia che infiammava le strade tra il West End e Notting Hill Gate qualche anno prima nella furia del ‘77 non si è sopita. E’ una rabbia che discende da generazioni di sfruttati e di esclusi da sempre ai margini dell’Impero. E’ la furia del rudeboy che ha accompagnato i Clash nel ononimo film sulle loro tournè, e più indietro quella degli angry young men e di tutti i ribelli della storia inglese. Una rabbia anti-sistema che può farsi scorticante violenza (auto)distruttiva come nei molti gruppi punk di fine decennio o esuberante gioia vitale, ricerca di mescolanza, festa, condivisione. In fondo anche il Jimmy Porter di Ricorda con Rabbia di John Osborne, capostipite di tutti gli arrabbiati inglese, trovava pace tra un maltrattamento della povera moglie Alison e l’altro, suonando selvaggiamente la sua tromba e sognando il jazz dei neri americani.

Anche i Clash dopo due dischi di abrasive canzoncine punkettare -“Got no money, can’t get no power and so you are punk [Non hai soldi, non puoi aver potere e quindi sei punk]” - lasciano trapelare una cultura musicale per ora a stento trattenuta e un gusto per la contaminazione a 360° gradi. Le sonorità rozze e urticanti di appena un anno prima lasciano il posto a una girandola di suoni e stili provenienti da ogni dove.

C’e il reggae di Revolution Rock o di Guns of Brixton – canzone che rieccheggia gli scontri violenti tra polizia e immigrati giamaicani nell’omonimo quartiere londinese.

C’è il post-punk antithatcheriano di Clampdown e la new-wave sgargiante di I’m not down. E poi il roots-rock di Rudie can’t fail, il blues di Jimmy Jazz, lo shuffling ska di Wrong ’em boyo, le sonorità alla Blues Brothers di The Right Profile.

Ma anche il rock latin-sentimental-resistenziale di Spanish Bombs (canzone dedicata alla guerra civile spagnola) o il raffinatissimo pop “alienato” di Lost in the Supermarket (piccolo gioiellino sulla perdita d’identità dell’uomo contemporaneo nel mercato globale).

C’è di tutto in questo disco, da cui discende gran parte della musica che ascoltiamo ancora oggi, ma sopratutto c’è l’invito a scavalcare barriere e confini, geografie, e ghetti musicali, mentali e razziali, a lasciar interagire ad ogni costo musica e idee.

Al giro di boa col nuovo decennio i Clash regalano la perla della loro carriera. Pochi comprenderanno la loro lezione nel bailame consumistico dei primi anni ‘80. Solo poco per volta inariditisi i fiumi di elettropop decadente e new-wave plastificata che invadono l’Europa all’inizio del decennio rispunteranno qua e là i frutti del loro insegnamento.

Saranno a Parigi nelle notti “patchancose”, bagnate di birra e di suoni dalla Manonegra, tra il 15° arrondissement e Place Pigalle. O nell’Irland punk-folkettara dei Pogues. E poi più giù fino ai giorni nostri nella barricadera Tolosa degli Zebda, o nella Galizia variopinta degli Amparanoia o ancora nel cavanserraglio del Radio Bemba Sound System (alias Manu Chao). E poi, anche oltreoceano, a Città del Messico nello ska-rock latino dei Maldita Vecindad o a Buenos Aires, nella mezcla de estilos dei Fabulosos Cadillacs.

Ma la lezione di London Calling va oltre. Rispunta dovunque culture e musiche diverse si fondono insieme, nei corpi e nelle idee che si muovono senza sosta di paese in paese, nelle navi della speranza che superano dogane e trattati con il loro carico di esperienze umane da condividere.

Francesco Zurlo

IDILLIRIO ALPESTRE - PARTE PRIMA

La montagna è bruna, ancora più bruna nella luce del mezzodì. Mentre il sole si appresta alla discendente parabola verso le stazioni del tramonto, della sera-vespertina e della notte brumosa, resto così, immobile e animato da predisposizione contemplativa, ad osservare l’orizzonte curvo della pianura. Il silenzio è rotto dal ronzare di una miriade di piccoli insetti (coleotteri d’ogni marca e modello, formiche alate e micidiali mosconi minacciosi(micidiali per il dolore che, con caritatevole magnanimità di stampo che definirei “quasi ambrosiano”, dispensano ad ogni puntura)). A tratti, nel concerto d’ali vibranti, c’è gloria anche per qualche sparuto pesce che con un ‘plop’ e una bolla rompe la superficie dello stagno fagocitando un insetto impegnato in un assolo.

La brezza gioca ad essere vento poi desiste, riprende, e ancora si placa. La maglietta fredda a contatto con la pelle è una piccola persecuzione. L’inazione vince il fastidio è scelgo di lasciare le cose come stanno. Nel coperchio del cielo conto quattro nuvole bianche pascolanti al limitare dell’azzurra prateria. Avvertiranno anche loro la solitudine, in cotanta immensità?

Mi risulta naturale il confronto critico con il mio appartamento, una cella di condominio-alveare. Una manciata di metri quadri pittati dello stesso colore cereo della città di fuori. Finestre condannate a fissare eternamente la facciata del palazzo dirimpetto. E fuori l’abbaiare dei clacson e lo sferragliare del 16.

Le nuvole sono un poco più distanti, ora. Mi sento un inutile granello di polvere. Un inutile granello di polvere posato sul trasfigurarsi delle cose. Anche ieri notte mi sentivo così. Per questo sono scappato fin quassù. Cinque minuti fa credevo ingenuamente che la mia fosse una romantica e improbabile fuga da un mondo agonizzante. Ma questo mondo agonizzante me lo porto dentro. Tale dolorosa constatazione mi lascia un retrogusto amaro nel pensiero.
Non c’è riparo che valga, quando sei braccato da te stesso.

Guglie feriscono il cielo. Rocce dipingono fantasiosi arabeschi. Chiazze di neve s’accucciano all’ombra di monolitiche pareti. Limitar di boschi sfumano in ghiaioni inaccessibili. Con freddezza da notomista dimezzo un filone di pane. Rapido zigzagare di coltellino. Poi ingozzo il cadavere mollicoso di prosciutto crudo e mi preparo al fiero pasto.

Nel minuscolo stagno i girini disegnano sinusoidi con l’esile coda. Cotti da un implacabile sole allo zenit vanno a morire dov’è più fango che acqua. E nemmeno sanno d’essere esistiti.
Noi uomini abbiamo l’arroganza di dire “Io Sono”, “Noi Siamo”. Ma se il buon Dio (o chi per esso) ci avesse provvisto di coda, penso che l’agiteremmo in modo altrettanto stupido.

racconto di Enrico Gaffuri

17 novembre 2006

25 MARZO

E’ capitato tutto così. Un soffio di vite che in comune non avevano un bel niente. Di colpo legate, unite, una cosa sola.

-Avevo bucato. Con le gomme è sempre così. Le avevo bistrattate e forse dimenticate. Questa doveva proprio essere una loro vendetta.

-Nel fumo stantio del bar di paese, con ai muri la formazione dell’Inter 87’88 cercai solo di capire se ci fosse qualcuno e se quel qualcuno sarebbe stato in grado di aiutarmi o, meglio, tranquillizzarmi.

-Ero già entrato da parecchi secondi, almeno venti, quando sentii una voce. E forse solo allora mi scossi.

-Fu come svegliarsi. La luce filtrava con poca convinzione dalle finestre alle mie spalle, e la poca che arrivava al bancone illuminava pallide olive e salatini tristerelli.

-La voce mi fece sgranare gli occhi. E allora smisi di perdermi tra gli odori di bestemmie, bianchini e paginoni di Gazzetta. Davvero sembrava che nessuna legge antifumo fosse ancora giunta in quei luoghi.

-Sul bancone spuntavano posacenere colmi di cicche. Avevo gli occhi pieni di quel luogo. Forse li spalancai, credendo che altrimenti la voce non sarebbe mai potuta entrarci.

-Non risposi, né diedi cenno di intesa. Alla mia destra tra il fumo che si faceva più denso, indovinai la presenza di un’altra stanza.

-La cercai con strana convinzione. Notai che i miei passi non facevano alcun rumore. La cosa mi parve strana, perché il pavimento sembrava di legno.

-Eccola. Da subito trovai che la stanza avesse degli stucchi un po’ ridicoli. Almeno in alto, sul soffitto. Si intravedevano nonostante la nebbiolina. Le pareti, invece erano affrescate come oggi non si usa più. Quello che legava gli affreschi era il motivo del grappolo d’uva. Delle linee rosse, come fossero i nastrini che le bambine usano mettersi tra i capelli, collegavano i grappoli. Gli affreschi correvano su tutte le pareti della stanza e sembravano confluire in un punto che stava di fronte a me.

-Il camino attirava le linee, i grappoli e parte del mio sguardo. Io ero distratto dalle figure che si affollavano attorno ad un tavolino solitario. A lungo mi sembrò quasi che fossero disegnate.

-Quando mi avvicinai, capii quello che c’era da capire. Sul tavolo c’erano: un posacenere (al centro), una bottiglia di Fernet, una di Strega ed un’altra, senza etichetta.

-Sorrisi alle figure attorno al tavolo, e loro mi pregarono di accomodarmi accanto a loro. Continuavo a sorridere, senza curarmi dei miei occhi, di colpo lucidi.

- Il primo, alla mia destra, era robusto e rossissimo. Si vedevano le venine violacee tra gli occhi e le guance. I pochi capelli, bianchi, gli sparavano senza direzione sopra le orecchie. Il bicchierino che stringeva tra le dita tozze era sporco di Fernet sul fondo e scompariva nel suo pugno.

-Guardandomi, abbassò gli occhi, annegandoli in un sorriso amaro. Iniziò a parlarmi in dialetto. Io ero contento, perché lo capivo. Ma nel parlare sembrava che nemmeno avesse bisogno di muovere le labbra.

-Era preoccupato per il futuro, per la sconfitta definitiva dei suoi ideali. Aveva combattuto per una vita intera, e ora si ritrovava a dover ammettere di essere uno sconfitto.

-Il solo sentire certe cose, mi dava fastidio. Di discorsi pessimisti ne avevo sentiti fin troppi. Tuttavia capivo quanto questo vecchietto potesse soffrire. Sentii un’insanabile bisogno di trattenermi nell’accarezzare la sua pelle ruvida ma tolettata. Poi non le feci, ma forse cercai la sua mano. Volevo fargli coraggio. Partecipai col suo racconto al dolore per la sua casa data alle fiamme. Poi sentii di volergli solo un gran bene quando mi disse che anche lui aveva partecipato alla liberazione. Rimasi a guardare le sue mani gesticolare, senza riuscire a dire nulla, quando mi raccontò del suo amico Jonah, portato via e mai più ritornato.

-Fui invaso da dolcezza e leggerezza. Dalle macerie di una casa aveva salvato una ragazza. E su quelle macerie, nottetempo era tornato, e si era unito per sempre a lei.

-“Ho avuto anche io venti anni”

-Non seppi mostrargli quanto gli fossi grato.

-Di persone curiose ne ho viste davvero parecchie. Tuttavia, nelle occasioni in cui mi reputo una persona felice, so ancora stupirmi.

-La figura che si nascondeva dietro alla bottiglia di Strega iniziò a parlare presentandosi. “Mi chiamo Alda”, disse, “sono una persona molto anziana, perché ho più di 85 anni e fumare mi piace da morire”.

-Vestiva una camicetta a fiori, di quelle che io avevo visto sulla pelle di mia nonna e su qualche signora in estate. I capelli su quella testa canuta non avevano alcun senso, ma aveva degli occhi pieni di livore.

-Le sue parole erano dense e piene di ansia. Capii che aveva voglia di essere ascoltata. Mi ci misi di impegno. Mi accorsi in fretta che le sue parole danzavano, come farfalle coloratissime. Uscivano svolazzanti e senza direzione tra il fumo delle sigarette che si accendeva una dopo l’altra.

-Non saprei ripetere una singola cosa che mi disse. Ma la sua bocca sgranata e la sua voce ruvida mi facevano soffrire e avere rispetto insieme.

-La bottiglia senza etichetta si trovava a pochi centimetri dalla mano incerta dell’unica persona che non mi aveva ancora rivolto parola.

-Aveva due occhi enormi. Bagnati, umidi, inespressivi, impauriti. La mano era semichiusa.

-Subito pensai alla straordinaria bellezza che questa donna aveva dovuto possedere da giovane. La vedevo nella sua figura incerta ma elegante sbattere le palpebre e sorridere nutrendo le sue rughe.

-Mi guardava spaesata. Vedevo che le parole volevano uscire da quella bocca tesa ma proprio non ci riuscivano. Dannatamente a disagio, dissi, un po’ guardando lei e un po’ le altre due figure: “Sapete, ho bucato una gomma, ma mi riesce difficile tirar fuori anche solo un ragno da quel buco”.

-Nemmeno un sorriso. Nemmeno un gesto di comprensione.

-La splendida nonnina muta, senza dire nulla, riversò nelle mille rughe del suo viso tutte le lacrime di cui era capace.

-Il vecchietto col bicchierino sporco di Fernet mi mise una mano sulla spalla, (sentii che era una mano davvero stanca), e mi indicò un giradischi dalla parte opposta della stanza.

-Mi alzai deciso. Strinsi più mani possibile. Tutti cercavano di baciarmi, come fossi loro nipote.

-Non avevo mai visto un giradischi simile. Forse il nonnino aveva parlato di grammofono. Incerto, girai il disco e lessi sull’etichetta al centro del vinile: Glenn Miller Orchestra “Glenn’s Jive”.

-Posizionai il diamante dove l’incisione avevano inizio. Il disco, friggendo, mi diede coraggio.

-Prima fu buio. Poi il camino si mise a crepitare squarciando la tenebra. I grappoli d’uva, che non sembravano nemmeno più solo dipinti, presero un colore nuovo. E di colpo la stanza fu piena di gente.

-Ragazze giovani ed eleganti mi sfioravano. Ballavano. E con loro cavalieri in gessato. I miei jeans erano la cosa più stridente potessi indossare.

-Intravidi il tavolo. Sedeva solo la donna con la sigaretta. Era come un corpo altro. La musica non la interessava affatto. D’un tratto scriveva convulsamente su un tovagliolo.

-Poi, tra i frack e le scarpe di lucido vidi lui. Era il più scatenato. Ballava con una donna. Sembravano danzare a memoria, come se nulla dovesse essere aggiunto. Lei sorrideva, e lui, con i capelli pieni di brillantina faceva lo stesso. Ebbi il flash della sua mano sulla mia spalla, pochi istanti prima e fui confuso.

-Le mie All Star azzurre e arancione si accendevano come torce con il luccichio del camino.

-Ero buffo e ridicolo come un clown. Avevo i piedi grandissimi rispetto agli altri. Chi ballava me li pestava senza cura. Avrei preferito essere scalzo.

-Trovai una sedia. Levai le scarpe. Quando la vidi.

-Era proprio bella come l’avevo immaginata. Giovane. Gli occhi uguali. Pieni di tristezza e spessi di lacrime.

-Così, scalzo, andai sicuro da lei. Le toccai la mano. Abbassò gli occhi e si toccò la veste, che –ricordo- era bianchissima.

-Poi si lasciò cadere. La presi tra le braccia sfiorandole i seni. Cercai i suoi occhi.

-Candidi e dolci.

-Presi il suo viso tra le braccia. Provai il sentimento più naturale e privo di malizia. Desiderai la sua pelle giovane. Avvicinai le labbra al suo collo e lo sentii freddo.

-Non so raccontare con queste parole cosa si provi nel sentire una persona morire tra le proprie braccia. Di certo non posso dire sia una cosa bella. Nemmeno una cosa brutta. E’ una cosa che magari ti fa piangere.

-Quando piangi, e le lacrime seguono le linee del tuo viso, fino a sfiorarti le labbra. Allora capisci almeno di che gusto sia il pianto.

-La sofferenza, il dolore, il pianto possono nascere così. Da una ruota bucata, o da un richiamo non ascoltato. Per chi scrive, per chi fotografa, per chi suona il dramma è proprio questo: pensare ad altro.

-E per pensare ad altro non servono venti anni. Non ne servono ottanta. Servono orecchie e un paio di mani più o meno ben fatte.

racconto di Davide Zucchi

11 novembre 2006

EDITORIALE NOVEMBRE 2006


I rettori chiedono più soldi. E lo fanno descrivendo la fatiscenza di tetti sfondati e laboratori da terzo mondo. Niente di nuovo. Ma uno studio di Roberto Perotti dell’Università Bocconi fa pensare. Cito: “La spesa per studente nelle Università italiane e in quelle inglesi è approssimativamente identica. La spesa complessiva per il personale accademico è molto più elevata in Italia che in Gran Bretagna”.
Il dubbio che per cinquant’anni i Magnifici ci abbiano raccontato frottole è legittimo. Lo stato italiano investe molto di più di quello inglese. E allora perché tetti sfondati e laboratori da terzo mondo? Forse perché si preferiscono finanziamenti a pioggia a interventi che premino il merito e la competitività. Forse perché l’Università di tutti e per tutti finisce per essere una baraccopoli poco salubre. Forse perché della qualità, sotto sotto, non gliene fotte a nessuno.
Luca Gualtieri

10 novembre 2006

BABEL - L'INCOMUNICABILITA' NELL'EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE E MOLTO ALTRO

A tre anni di distanza da 21 Grammi torna Alejandro Gonzales Iñarritu, con una pellicola, Babel che ha ottenuto nientemeno che il premio per la regia all’ultimo film di Cannes. Una pellicola a un tempo più semplice e complessa delle precedenti.
Più semplice perché meno giocata sulle strutture ad incastri spazio-temporali e sulle rotture della continuità narrativa di Amores Perros e 21Grammi. Ma più complessa per il più ampio sforzo produttivo, dovuto all’articolazione del film in tre storie che si svolgono addirittura in tre continenti diversi: una sulla frontiera rovente tra Messico e Usa, una in Marocco e l’ultima addirittura in Giappone. Tre plot legati da una serie di nessi diegetici che emergono lentamente nel corso del film. Assistiamo allora al tentato omicidio di una donna americana giunta in vacanza in Marroco con il marito, e contemporaneamente, alla sorte poco invidiabile della badante messicana cui ha affidato i pargoli ed ancora al cupo dolore di una ragazzina giapponese sordomuta che ha di recente perso la madre.
L’obbiettivo di Iñarritu (e del suo fedele sceneggiatore Guillermo Arringa) era probabilmente quello di raccontare l’incomunicabilità nell’epoca della globalizzazione – di qui il titolo Babel. Incomunicabilità tra stati e culture: l’America claustrofiliaca che erige muri per tenere lontani i milioni di migranti messicani in cerca di lavoro, le difficoltà di comunicazione tra il mondo occidentale e quello arabo; ma anche tra esseri umani: tra marito e moglie (incapaci di parlarsi dopo la morte di uno dei figli) o tra padre e figlia come nella vicenda giapponese, dove la sordità della giovane protagonista si fa simbolo evidente di un’assenza di comunicazione più generalizzata. Tuttavia questo, che costituisce il nucleo tematico più appariscente del film, rimane solo a un livello di superfice. A un livello più profondo ritroviamo il solito tema della coppia Inarritu-Arriaga: quel senso di colpa legato ad un trauma rimosso che riemerge piano piano, incalzato dagli eventi drammatici (e imperscrutabilmente fatali) verso la necessaria catarsi finale. E così il dialogo di chiarimento finale tra Brad Pitt e la moglie, malgrado la cornice “globalizzante”, assomiglia moltissimo alla riconciliazione finale tra il personaggio interpretato da Benicio del Toro e la consorte in 21 Grammi, o al “messaggio in segreteria” dell’ ex-guerriglero nell’episodio finale di Amores Perros .

Il film, che parrebbe una riflessione sulla globalizzazione è invece, esattamente come 21 Grammi, una riflessione sui traumi inespressi, sui i sensi di colpi rimossi, sull’incapacità degli uomini di relazionarsi e di portare alla luce le proprie angosce profonde, a qualunque latitudine. Insomma poca politica e tanto dolore esistenziale.
Ma fino ad un certo punto. Perchè la descrizione della “civilissima barbarie” che si consuma ogni giorno lungo i confini tra Stati Uniti e Messico, nei deserti dell’Arizona, della California e del Texas, sulla frontiera più calda del pianeta – per inciso la parte più sincera e convincente del film – rappresenta l’atto d’accusa di un messicano deluso dal ricco paese vicino che l’ha accolto tra le sue braccia, ma respinge invece i suoi connazionali meno fortunati.

Per il resto il film conferma i meriti e limiti di Inarritu. Da una parte la grande maestria nell’impaginare i film, nell’incastrare le storie – anche se qui la destrutturazione, più “geografica” che narrativa, suona a volte un po’ artificiosa; l’abilità nel dirigere gli attori – quanto mai assortiti tra semiprofessionisti e stelle da blockbuster (non solo Pitt e la Blanchett, ma anche il divo latino Garcia Bernal); e il virtuosismo di alcune sequenze – meravigliosa quella che racconta la serata in discoteca della protagonista giapponese, con le continue soggettive silenziose che ne sottolineano l’estraniamento. Dall’altra parte riemergono lo stesso strisciante manierismo e gli stessi eccessi melodrammatici già riscontrati in 21 Grammi. Insomma, malgrado le buone intenzioni, Iñarritu non sembra più essere stato in grado di tornare al felice equilibrio dell’opera prima, nella quale il suo indiscutibile talento visivo, la sapiente costruzione drammaturgica dello script di Arriaga e la descrizione sempre asciutta e mai compiaciuta della violenza e delle ingiustizie sociale della capitale messicana avevano trovato una sintesi straordinariamente felice.

Un’ultima (pessima) nota sul doppiaggio della versione italiana. Doppiaggio che vede tutti i personaggi ispanici del film esprimersi con un improbabile accento a metà strada tra un veneto da recita parrocchiale e la parlata del gabibbo. Ma quand’è che anche in Italia qualche distributore “oserà” ciò che è prassi comune in tutti i paesi del mondo (tranne che nella post-autarchica Italia) e cioè mandare nelle sale i film in lingua originale con i sottotitoli?

Francesco Zurlo

8 novembre 2006

LA ROSA NEL SOGNO

C’era una volta un partito chiamato Rosa nel pugno. Sì lo so, molti non se ne sono accorti. Ora esiste solo un gruppo parlamentare alla Camera, assolutamente inerte, con lo stesso nome: ma un gruppo parlamentare non fa un partito come sanno bene gli elettori dell’Ulivo (ahimè). I Radicali, primi promotori della formazione, hanno appena cambiato segretario: da Capezzone, o Capezzuàn all’inglese, alla Bernardini, storica militante e tesoriera. Il cambio di guida è stato voluto dall’antropofago Pannella che, in continua ricerca di visibilità per il partito, non era soddisfatto che il suo segretario fosse presente in ogni tv nazionale, e seduto a qualsiasi tavolo di volenterosi, e facesse a pacche sulle spalle con un altro famoso digiunatore, l’angelo del focolare Sandro Bondi. L’obiettivo del rinato Partito Radicale è, si legge, “rilanciare il progetto della Rosa nel Pugno.” Sarebbe preferibile dire: lanciare un progetto, almeno uno. Come è possibile che un leader di partito, ogni sera a Markette, non riesca a fare la voce grossa in una coalizione in cui basta un mal di pancia di un sottosegretario a far slittare la finanziaria (che io difendo) di milioni di euro? Ma ora con la Bernardini tutto cambia. Ospite al TG di La7 spiega: “noi non siamo alleati di Di Pietro, ma di Prodi.” Concetto affascinante quanto oscuro. Del resto, se ricordiamo bene, da un partito che vantava come spin doctor Antonella Elia, non ci si poteva aspettare molto. Sempre meglio che avere segretari come il-molto-poco-decisivo-Cesa e Giordano: il secondo fra l’altro mi risulta alleni con buona fortuna il Messina. Forza Palermo.

Fabrizio Aurilia

VECCHIE GLORIE SENZA COMMEDIA E SENZA SCOOP

È un peccato. Però è anche estremamente cinico. È cinico approfittare dell’età per mercanteggiare approvazione e mestiere. È cinico ingolosirsi e sguazzare nelle maiuscole del proprio nome, scolpite in un anima di granito diventata troppo grande, troppo carica, troppo immobile.
E così Woody Allen (Scoop), e così Claude Chabrol (La commedia del potere). Due opere squassate, che lo stelo fragile del volersi sempre se stessi non può reggere, e si piega subito, e tocca facilmente terra. Mentre scelte registiche impalpabili o tragicomiche (nel senso di tragiche benchè comiche, e viceversa) inchiodano e sprofondano: la “ricostruzione” dello scandalo Elf di Chabrol è puerile quanto didascalica (e senza scoop), l’intrigo “noir” di Allen sconcertante quanto passito (e senza commedia). E poi l’insopportabile tenerezza di fronte a chi vorrebbe il sorriso dell’approvazione, ma si umilia solo, come un qualsiasi clown che non fa ridere (Allen), e di fronte a chi vorrebbe pungolare l’intelletto, ma respira affannoso nel qualunquismo (Chabrol).

E tenerezza ancora di fronte a chi (Kezich, Porro, Mereghetti, Nepoti,..) finge di non vedere, e sopporta tutte queste immagini menomate nel senso e nello stile, e adora frustrarsi nel cantilenare una gloria ormai consunta e consumata da un cinema che non c’è più.

GIUDIZIO *

Mattia Mariotti