26 ottobre 2009

Ti amerò nel XXI secolo


Passione (poca) e ragione (ancor meno) al cinema

Con un anno di ritardo è stato (poco) distribuito in Italia Ti amerò sempre, debutto registico di Philippe Claudel. Kristin Scott Thomas v'interpreta Juliette, che si strugge per amore del figlio. Il tutto senza patetismo o sensazionalismo: l'opera è scarna, sincera. In un supermercato delle passioni (in cui brilla addirittura il non eccelso Il club di Jane Austen - perlomeno per simpatia), un tale film non ha spazio, specie se l'unico episodio di sesso non è mostrato (e una delle due parti coinvolte non ne è neppure soddisfatta). Il cinema odierno è troppo plastificato per voler rischiare di dare spazio a un film sincero.
Tornando al 1981 si trova Possession, altro film il cui protagonista (Mark - Sam Neill) si danna per Amore: il motivo per cui quest'opera è stata obliata è simile - l'erotismo è molto presente ma è simbolico, profondo, allusivo anziché alluso. L'ostinato pudore di Juliette e l'urlo di Mark, la delicatezza di Claudel e la sfrenatezza di Andrzeij Zulawski sono emarginati dal cinema delle bugie capitaliste, dello shopping addirittura "amato" e delle sgallettate che fanno sex nella city.
E agli Oscar non c'è spazio per Gran Torino, in cui Walt Kowalski - Clint Eastwood si dona ai ragazzi perseguitati da una baby gang. Quello di Hollywood è un cinema più adatto ai figli del personaggio, che gli telefonano per avere i biglietti del football, o per sua nipote che gli chiede se quando schiatterà le lascerà automobile e divano.
A Hollywood si trovano le commediacce alla sex & the city: in La verità è che non gli piaci abbastanza un personaggio dice "Credevo fosse l'amore della mia vita, ma alla luce del sole aveva il culo troppo grosso". Il film è un panorama di personaggi piccoli, anaffettivi arrapati che nella sequenza finale si ribadiscono il proprio "amore". Se Laura Pausini afferma che chi giudica i sentimenti altrui è arrogante, questa mentalità (non circoscrivibile al solo film citato e non circoscrivibile ai soli film, non essendo il solo cinema hollywoodiano sessuocentrico ma la società occidentale tutta) giustifica il giudizio. L'Amore è nascosto, rimangono infime pulsioni al luogo comune.
Di ben altro livello è Furyo, film di Nagisa Oshima dell'83: in un campo per prigionieri nella Seconda Guerra Mondiale, il comandante giapponese Yonoi (Riuichi Sakamoto) s'invaghisce dell'ufficiale britannico Celliers (David Bowie): è solo passione, non amore, ma più alta, addirittura pura se confrontata con l'immondezzaio delle bugie hollywoodiane.

Tommaso de Brabant

24 ottobre 2009

COCCODRILLO N.2 Commemorazioni improbabili

Si è spento improvvisamente nella sua abitazione Daniele Capezzone, portavoce del Pdl.
Molto complessa sarà la celebrazione dei funerali. La salma, divisa in tre parti, riceverà innanzitutto le esequie religiose: ospite di spicco Magdi Allam che, solo un anno dopo il battesimo, farà già il chierichetto (già allestita anche un'ostia da 5 chili per Ferrara). Chiuderanno in serata la celebrazione ad Arcore nel mausoleo di Berlusconi (il coro funebre, guidato da Apicella, intonerà "Poco male se Daniele non c'è); e infine quella a casa Pannella, dove le ceneri, allungate con un po' di tabacco, saranno fumate dal leader radicale.

Solo così, hanno detto i parenti, si potevano esprimere le molte anime di Daniele.

Drammatiche le sue ultime parole: l'ex-radicale avrebbe mormorato "Non riesco a leggere", rivolgendosi con un filo di voce al collega Quagliariello, che si stava avvicinando con il solito foglietto con scritto cosa dire.
Il Pdl ha indetto un pubblico concorso per sostituirlo. Gli unici requisiti sono saper imparare a memoria brevi frasi e possedere un completo grigio. I candidati con il curriculum adatto per ora sarebbero almeno 15.000.

Anche Aldo Biscardi, dal quale Daniele era ospite fisso,lo ha ricordato con una lacrima. - Era sempre allegro e solare - ha detto l'inossidabile conduttore - tifando contemporaneamente per Inter, Milan, Juve e Roma per lui ogni lunedì era una festa!.
Non l'hanno dimenticato neanche i dirigenti del Real GianoBifronte, in cui il portavoce del Pdl ha militato da ragazzo. Il suo vecchio allenatore ci ha rivelato che Daniele, quando la sua squadra perdeva, era bravissimo a rubare la maglietta ad un giocatore avversario. In questo modo poteva comunque esultare al fischio finale dell'arbitro.

Sulla lapide, per volontà del defunto, sarà inciso il motto a cui la sua vita si è sempre ispirata:
Viva la Francia, viva la Spagna,
purchè se magna.

Filippo Bernasconi

21 ottobre 2009

Qualcosa si muove

La recente manifestazione a favore della libertà di stampa può essere vista sotto differenti angolature. Dal punto di vista strettamente politico è il segno che c'è ancora una parte d'Italia che non è disposta a lasciarsi guidare da una forza perversa. C'è ancora una parte del paese che ha voglia di dire la sua esprimendosi liberamente e, se occorre, contestare un sistema che non gli piace, espressione di un potere omologante che vorrebbe annichilire le coscienze e ridurre l'uomo a semplice suddito-compratore.

E lo fa con uno dei pochi mezzi rimasti a sua disposizione, il più antico e semplice di tutti: la piazza. In una fase della storia nazionale in cui chi si adegua al sistema politico-mediatico dominante ha facoltà di diffamare, minacciare, ricattare senza grandi patemi di dover rispondere delle conseguenze e chi si oppone è vessato fino allo scoramento, scendere in piazza acquista il valore simbolico di strumento di comunicazione e di riappropriazione identitaria che l'autorità non può contrastare, se non con la violenza fisica (e, ahinoi, sono ancora freschi nella memoria gli episodi di violenza di pochi mesi fa a piazza Navona...).

A questo proposito, chi può dimenticare il valore simbolico (e non solo) dello scendere in piazza delle madri dei desaperecidos argentini, le madres de Plaza de Majo? Un umile pugno di donne che con il loro quotidiano manifestare nella piazza antistante la sede del governo e la loro opera di controinformazione, sono state una perenne spina nel fianco per il regime al potere tra gli anni 70' e 80' del secolo appena concluso. All'inizio le chiamavano le pazze e nessuno attribuiva loro alcuna importanza sul piano politico. Poi si sono organizzate, hanno cominciato a viaggiare, a farsi conoscere all'estero, a stabilire una rete di contatti, riuscendo infine a portare alla conoscenza dei media internazionali ciò che la dittatura di Videla e dei suoi seguaci stava perpetuando e, quindi, facilitandone la caduta finale.

Certo, il caso dell'Italia è ben differente rispetto a quello dell'Argentina di trent'anni fa. Innanzitutto perché, ovviamente, qui non ci troviamo di fronte ad una sanguinaria dittatura. Tuttavia, il tentativo di condizionare l'informazione e rappresentare la realtà in modo monolitico e unidirezionale appare evidente anche da noi e rischia di provocare, tra le altre cose, l'isolamento internazionale della nazione. Per esempio, poniamoci questa domanda: sarà davvero un caso se nelle sue recenti visite in Europa (eccezion fatta per il G8 de l'Aquila) il neoeletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama non ha mai pensato di far visita nel nostro paese? Probabilmente no, a maggior ragione se si considera il fatto che lo stesso Obama ha più volte affermato che l'Italia è il paese al mondo che ama di più, USA a parte.

La situazione cui l'informazione italiana vorrebbe essere portata sembra paragonabile, per alcuni aspetti, a quella di certe famiglie in cui un padre autoritario ritiene (magari in completa buona fede) di poter imporre il proprio pensiero all'intero nucleo familiare, considerandone i membri un semplice prolungamento di se stesso e non delle entità separate, autonome, con il proprio diritto ad esistere, ad esprimersi in modo originale, ad affermarsi differenziandosi. Certe famiglie nelle quali non circolano le idee, ci si sente ripetere sempre gli stessi teoremi, si offre una ed una sola valida interpretazione della realtà, quella del capofamiglia, e chi la contesta è considerato alla stregua di un traditore del legame di parentela. Ma in un mondo sempre più interconnesso, dove è in atto un'ibridazione culturale senza precedenti, nel quale l'immigrazione transnazionale è già una realtà consolidata ed il problema, da decenni, non è più se accettare o meno i flussi migratori ma semmai come fare a convivere con tali flussi di uomini, e quindi di idee, possiamo davvero immaginare che un sistema informativo asfittico possa reggere l'impatto di tali tendenze?

L'Italia cui si vorrebbe dar vita è un paese chiuso in se stesso, incapace di guardare oggettivamente ai cambiamenti nei quali è coinvolto e, sopratutto, di guardarsi dall'esterno, quindi privo di autoironia, timoroso del confronto con la differenza, sia essa incarnata dall'immigrato, dall'avversario politico, dal nomade, dalle donne, o semplicemente da chi ha il “coraggio” di esternare una sua originale e difforme interpretazione del mondo.

Ma che importanza può avere la libertà di stampa, e, più in generale, di espressione, in una democrazia? Ha quella fondamentale importanza in quanto strumento di costruzione identitaria capace di dare forma alle passioni; è inoltre uno dei mezzi attraverso i quali prende corpo la dialettica politica nonché uno dei canali tramite cui avviene l'incontro-scontro con l'alterità.

Così, ostacolandola o, peggio, impedendola, si vorrebbe non riconoscere all'altro il diritto di esistere, rendendolo un semplice oggetto, e realizzare ciò che andrebbe nominato per quello che è, ovvero una vera perversione. La perversione, illusoria, di reificare l'altro e perciò poterlo dominare.

Luca Ricci

19 ottobre 2009

CELLULE STAMINALI

TRA ETICA E POLITICA LA LIBERTA' DELLA RICERCA


Il primo provvedimento preso dopo l’insediamento dagli ultimi due presidenti americani, Bush e Obama, ha riguardato lo stesso argomento: la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Il primo ne aveva proibito lo studio se svolto utilizzando fondi pubblici (era consentito però se finanziato da privati), il secondo ha invece tolto i vincoli imposti dal suo predecessore. Per capire le prospettive, diametralmente opposte, dei due presidenti sulle questioni etiche e scientifiche che questo tipo di ricerca implica, è bene partire dal dato tecnico.La cellula staminale è una cellula primitiva capace potenzialmente di riprodursi infinite volte. Può essere embrionale o adulta: quella embrionale dà origine sostanzialmente ad ogni tipo di cellula, la staminale adulta invece soltanto a cellule corrispondenti all’organo da cui proviene.

L’uso delle cellule staminali embrionali suscita interrogativi morali: per ottenere una linea di queste cellule infatti bisogna distruggere una blastocisti, stadio preliminare dell’embrione tra il quinto e il settimo giorno di gravidanza.
I detrattori muovono quindi due ordini di obiezioni al suo utilizzo: uno di carattere scientifico, uno di carattere etico.
L’obiezione “scientifica” è per la quasi totalità degli esperti del tutto pretestuosa: le cellule staminali embrionali sarebbero inutili, soppiantate dalle più proficue staminali adulte.
In realtà il potenziale di entrambi i filoni di ricerca è sconfinato, tanto che per il preside della facoltà di medicina di Harvard “le staminali saranno per le malattie degenerative quello che gli antibiotici sono stati per quelle infettive". I difensori delle cellule “etiche”(le staminali adulte), commettono quindi contemporaneamente due errori: sottovalutano frettolosamente per malcelati motivi religiosi le staminali embrionali, alimentando invece false illusioni in chi spera di guarire grazie alle adulte. Ad oggi la ricerca non ha raggiunto risultati definitivi in nessuno dei due tipi di ricerca, e non avrebbe alcun senso rinunciare a una delle due strade perché fino ad ora non ha prodotto nuove cure.
Nel caldeggiare l’utilizzo delle adulte, sono stati numerosi i casi di crudele disinformazione nei confronti dei pazienti. L’Avvenire, il giornale della Cei, il 24 maggio 2005 ha titolato con un bizzarro “Staminali adulte vs embrionali: 58 – 0”, un articolo dove si confrontavano le patologie curabili con l’utilizzo dell’una e dell’altra.
In realtà il dottor David Prentice, che per primo aveva millantato queste cifre, smascherato dalla rivista Science del luglio 2006, ha dovuto ammettere che in realtà era stato frainteso (vizio evidentemente comune anche oltreoceano), e che intendeva dire che per quelle malattie era in corso semplicemente una sperimentazione.

Il dibattito etico è ancora più intenso: la Chiesa difende ufficialmente lo status di persona dell’embrione. Molte però sono le obiezioni possibili, sia interne al cattolicesimo sia provenienti dal fronte scientifico. Innanzitutto la blastocisti da cui si traggono le staminali embrionali non è ancora un embrione: se lo fosse non avrebbe alcuna utilità di ricerca. Se per la Chiesa questo non è rilevante, visto che la vita inizierebbe comunque con il concepimento, lo è per altri pensatori cattolici come il filosofo della scienza Evandro Agazzi. Per Agazzi infatti, il concetto di vita cristiana è enchélubilmente legato a quello di persona. Nei primi istanti successivi alla fecondazione però, enché sia già determinata l’identità individuale, non lo è quella genetica. Nel caso di due gemelli monozigoti infatti, non si può distinguere la loro identità prima del sesto giorno. Come si può sostenere quindi di essere di fronte ad una vita umana, quando non si sa ancora se avremo una persona, due, oppure più? Grottesco poi che si consideri non etico l’utilizzo ai fini di ricerca delle blastocisti soprannumerarie, avanzate dalla fecondazione in vitro, che vengono comunque buttate via dopo qualche tempo.
La differenza tra vita umana è blastocisti è facilmente percepibile anche a livello intuitivo con un esperimento psicologico: immaginiamo scoppi un incendio in un ospedale, e di poter salvare o un bambino di cinque anni, o due blastocisti, cosa faremmo? Tutti, vescovi compresi, salverebbero il bambino. Se invece considerassimo la blastocisti una persona, coerentemente dovremmo salvare il maggior numero di vite possibili, abbandonando il bambino.
Esiste poi un ulteriore ordine di argomentazioni: le risorse di cui disponiamo sono limitate, e il loro utilizzo obbliga a “scelte tragiche”. Un’amministrazione comunale sa che allestendo un attraversamento pedonale invece che un sottopassaggio esporrà i pedoni al rischio di essere investiti. Non per questo però costruirà solamente sottopassaggi: il loro costo infatti assorbirebbe le spese per altri servizi che, proprio nella difesa della vita umana, hanno un rapporto costi – benefici migliore. Chi gestisce le risorse di tutti deve essere consapevole di questo, altrimenti, come diceva Max Weber, è un “fanciullo”, che si rifiuta di fare i conti con la realtà.
Quindi, se vogliamo ragionare sull’argomento in modo serio, senza trincerarci dietro comodi dogmi, dobbiamo mettere onestamente sulla bilancia i pro e contro della ricerca sulle cellule staminali. I contro sono il sacrificio di un certo numero di blastocisti, stadio preliminare, come detto, dell’embrione. I pro sono tutte le malattie potenzialmente curabili, specie di tipo degenerativo (immaginiamo l’importanza della cura di una malattia come l’Alzhaimer in una popolazione sempre più vecchia).
La scelta, se ponderata laicamente, trovo non possa che andare in direzione della libertà di ricerca.

Filippo Bernasconi

18 ottobre 2009

TOP TEN TV TRASH - SECONDA PARTE

Continua la top ten dei reality show più trash della televisione...

4. I REALITY SULLE VITE DEI VIP
Pur di mostrare al mondo di essere persone semplici, dai sani principi e alle quali il successo non ha assolutamente dato alla testa, l’ultima moda delle star hollywoodiane è quella di portare le telecamere tra le quattro(cento) mura di casa per far giudicare al pubblico in prima persona. E così si scopre che Jennifer Lopez spende 300 $ per una crema idratante, ma certe mattine si sente grassa e brutta come tutte le donne del mondo.
Un vero peccato che questa mania non sia dilagata anche in Italia. Chi non si appassionerebbe davanti alle puntate di irresistibili show come “Simona Ventura knows best” e “Casa Costanzo”?

3. TOMMY LEE GOES TO COLLEGE
Prendete un batterista ultra quarantenne e iper tatuato uscito miracolosamente indenne dagli anni novanta. Ricordate al suo neurone quiescente che nella vita esistono altre cose oltre alla musica, le droghe, l’alcol e l’album dei ricordi con le foto di Pamela Anderson.
Dotate il suddetto rocker dei giusti libri di corso, iscrivetelo al college, munitevi di videocamera per riprendere i suoi progressi e saprete come riempire quel buco nel palinsesto di prima serata.
È quanto hanno fatto con Tommy Lee, fondatore e membro dei Mötley Crüe, che nel programma “Tommy Lee goes to college” alterna reality (poco) a show (tanto).
Situazione talmente surreale da risultare quasi fantascientifica, ma che può portare a sviluppi esilaranti.

2. I PROGRAMMI PER ASPIRANTI PRINCIPI AZZURRI
Uomini rozzi, uomini maleducati, uomini impacciati, incapaci di cucinare, con comportamenti ad anni luce dall’essere definiti “bon ton”: come difendersi da questa tragedia? Prendendoli allo stato brado e addestrandoli per imparare le buone maniere!
Ci ha provato Helen Hidding in “L’uomo perfetto” (Sky Vivo), Jamie Foxx con “From G’s to Gents” (MTV) e persino la Rai in “Uomo e gentiluomo”.
Una piccola goccia nel mare.

1. PARIS HILTON’S MY NEW BFF
Dedicato a tutti coloro che si sono sempre chiesti cos’abbia mai fatto Paris Hilton nella sua vita, ecco il nuovo show del sabato sera su MTV. La ricca ereditiera è talmente sola che per trovare un amico ha bisogno di plasmarlo a sua immagine costruendoci sopra un reality (BFF sta per Best Friend Forever). Cercherà tra vari candidati: una decina di ragazze, un gay e un asessuato che combattono per la sua amicizia con astuzia, cattiveria, e un look da copertina. I concorrenti saranno costretti a girare per giorni con gli stessi vestiti, restare svegli per ventiquattr’ore di fila, farsi scattare una foto sexy mentre sono a testa in giù e così via. Tanto la Hilton sa che basterà regalare a tutti un nuovo blackberry per vederli tubare in coro “Ti amiamo, Paris!”.
Riuscirà un’amicizia tanto spontanea a durare per sempre?


Elisa Costa

16 ottobre 2009

EDITORIALE SETTEMBRE 2009

C’era una volta il buonismo. Il dizionario De Mauro lo definisce come un “atteggiamento di benevolenza (…) nei rapporti sociali e di continua ricerca di mediazione tra posizioni divergenti”. Ai più oggi “buonismo” suona come una parolaccia. Un misto di candida ingenuità, debolezza e stupidità di chi considerare ancora tutti gli esseri umani come fratelli, e non ha ancora aperto gli occhi alla realtà. Da qualche tempo pare essere diventato più trendy essere cattivi. A dettare la linea ci ha pensato il ministro degli Interni Roberto Maroni, quando, qualche tempo fa, ha detto chiaramente, durante un comizio, che bisognava essere “cattivi con i clandestini”.
Discendenti dirette di questa nuova filosofia del “cattivismo” sono le norme sull’immigrazione contenute nel cosiddetto “pacchetto sicurezza” varato dal governo. Un intricato e cervellotico insieme di leggi e cavilli burocratici che, preso nel suo complesso, sembra preoccuparsi più che altro di rendere la permanenza in Italia dei cittadini stranieri ai limiti del possibile, piuttosto che di rispondere a reali problemi di sicurezza della nazione. E, dal momento in cui le statistiche non sono riuscite a dimostrare che tutti i clandestini sono dei criminali, ci ha pensato il legislatore a creare questa equiparazione. Un legislatore che pare appagato dalla propria ottusa intransigenza, e con la smania di sdoganare il “cattivismo” come valore condiviso dal sentire comune. Cattiveria dunque. Da applicare con zelo. Con le denunce negli ospedali e nelle scuole. E, perché no, anche con qualche manganellata a un potenziale criminale, inequivocabilmente individuabile grazie alla colore della pelle di tonalità “Emanuel negro”. A noi che ingenuamente e buonisticamente ci domandiamo ancora quale potenziale minaccia possa rappresentare per il patrio suolo una badante peruviana irregolare che pulisce il deretano della nostra nonnina, alcuni politologi spesso ci ricordano che i partiti fautori di questa linea dura contro gli stranieri hanno il pregio di “saper parlare alla pancia del proprio elettorato”. Quasi come per dire che parlare alle viscere delle persone sia più corretto che parlare al loro cervello.


Beniamino Musto

14 ottobre 2009

La fiamma che ti spinge in vita


INTERVISTA AD ANTONIO MORESCO

Antonio Moresco è un uomo timido, nonostante la tempra del lottatore destinata a diventare leggenda. La sua storia di scrittore infatti sembra fantasia. E’ divisa in due tempi: da “sommerso” e da “emerso”, entrambi della durata di quindici anni. Nel primo ha accumulato rifiuti, false promesse editoriali e lividi morali. E ha scritto, con furore donchisciottesco, cinque romanzi. Emerge nel 1993, quando Giulio Bollati pubblica i racconti di Clandestinità. Da qui l’avanzata con romanzi e saggi dalla gittata quasi fluviale, come Gli Esordi (Feltrinelli), Lettere a Nessuno (Einaudi) e Canti del Caos (Mondadori). Tutti dominati da una forte tensione etica (ed eretica), dalla bruciante volontà di scardinare regole e schemi ormai consolidati dal nostro consorzio letterario, e dalla scelta di non uniformarsi a certe logiche salottiere, a costo di rasentare l’oltranzismo e l’intransigenza che, trasposte sul piano stilistico, secondo certi critici si tradurrebbero in oscenità e illeggibilità. Ma è anche capace di una dolcezza e di un candore raramente riscontrabili negli scrittori, spesso narcisi e supponenti.
Ha fondato il famoso blog “Nazione Indiana” e la rivista “Il Primo Amore”(Effigie ed).
Sono in molti a considerarlo il più grande scrittore vivente.

Dove ha trovato la forza di non avere paura, di andare sempre oltre i limiti imposti dalla mentalità dominante?
Non mi sembra di essere stato così coraggioso, eroico. Semplicemente era talmente importante e irrinunciabile quello che avevo nel cuore, che non potevo agire diversamente. Non puoi vivere se non fai qualcosa che ti riempia il cuore. Pensavo che si potesse creare un modo diverso di esistere, di stare al mondo attraverso la letteratura. Di creare un nuovo sguardo. Molti pensano che sia carriera, quella dello scrittore, come diventare Papa: prima prete, poi cardinale…per me la forza della parola scritta è un’altra cosa. E se per quindici anni non mi avessero sempre sbattuto le porte in faccia probabilmente non avrei scritto con questa volontà. E’ stata una dura scuola, quella di stare fuori dei giochi, ma anche la mia fortuna.

La volontà di cambiamento trapela vivida dalle sue pagine. Lei crede che i libri possano cambiare le cose?
Se non avessi pensato che le cose potessero cambiare non avrei scritto, sarei un cialtrone. Certo, non sono soddisfatto. Basta guardarsi attorno per capire che non si può essere soddisfatti; ma non riesco a spegnere la fiamma. E se si spegnesse non potrei più scrivere. Sono disperato ma fiducioso, e continuerò a scrivere, continuerò a lottare, e una battaglia la combatti anche se perdi. Non sono un tipo prudente: se credo in una cosa mi getto allo sbaraglio. Non sappiamo quanto viviamo, dobbiamo vivere come vecchini? E’ questa la forza della letteratura: la fiamma che ti spinge in vita.

Lettere a Nessuno è il libro che ha sollevato polveroni di polemiche e in cui bersaglia i nostri salotti letterari facendo nomi e cognomi, denunciando una certa logica mafiosa; ma racconta anche la sua militanza politica degli anni settanta. In che modo si sono intrecciate, nel suo percorso, letteratura e politica?
Quell’epistolario era una valvola di sfogo. Mentre stendevo i miei romanzi non volevo che venissero intaccati e zavorrati dal dolore e dall’amarezza del rifiuto; e mi è servito anche per capire chi ero, riavvolgendo il nastro. Le lettere contenute nella prima parte del libro non le ho mai spedite: semplicemente avevo bisogno di un interlocutore perché nella realtà non ne trovavo, ero sempre solo. Cercavo il confronto, l’attrito. Senza la pacificazione del semplice diario.
Questa piccola mafia non è nient’altro che l’antica lotta per il potere, la facoltà di dire ‘tu esisti, tu no’. Prima, se non ti omologavi, ti mettevano al confino. Ora è tutto un gioco mediatico. Per esempio, in alcuni miei scritti criticavo Calvino: non vedo perché le sue regole debbano apparire come leggi universali ed eterne. Ma guai a toccare Calvino! Ti mettono alla gogna. Perché la nostra letteratura è una valle degli echi, dove tutto si deve ripetere.
La militanza politica, invece, nonostante non la pensi più come trent’anni fa, mi è servita come disciplina per difendere le mie idee, a qualsiasi costo, anche a rischio della mia persona.

Ho avvertito del candore puro, nel suo stile, considerato tra le vette della nostra produzione letteraria.
Non saprei dirti. Forse era ingenuità, scarsa intelligenza, nel senso che non era funzionale. Non ero furbo. Sono sempre stato così, forse un po’ stupido e infantile, ma non voglio diventare un cinico. Sono dell’idea che la vita si possa sempre aprire, rinnovare. Molti dei nostri letterati hanno un’idea ristretta e parcellizzata del tempo. Le etichette, le griglie raffreddano la letteratura. I grandi, Dante, Leopardi, che in definitiva sono tra i miei maestri, sono ancora con noi, ci parlano ancora perché se ne fregavano delle logiche. Volevano cambiare il mondo.

Luca Ottolenghi

13 ottobre 2009

12 ottobre 2009

STELLE E STRISCE TRICOLORI


Note di italianità a New York

Sulla copertina del New York Times brilla il primo piano di Mark Sanford, afflitto. E’ il governatore della Carolina del Sud ed ha appena ammesso, durante un’apposita conferenza stampa, di aver violato il talamo nuziale con una misteriosa donna argentina. L’incontro mediatico è stato definito ‘valle di lacrime e scuse’, e gli editorialisti americani concordano nel ritenere il repubblicano Sanford definitivamente fuori dalla corsa alla Casa Bianca per il 2012. Semmai, si discute se sia il caso che completi il mandato come governatore dello staterello a nord della Georgia. Parlando di Italia e Stati Uniti di questi tempi, il paragone non può che sorgere spontaneo, fra un Paese in cui un tradimento coniugale basta per stracciare una carriera politica, e un altro in cui ipotesi ben più gravi non scalfiscono il potere costituito. Probabilmente, perché da una parte si discute la credibilità di un uomo politico – tralasciando i dettagli pruriginosi – mentre dall’altra si consuma una stucchevole cronaca di gossip d’alto bordo. Eppure, prima che l’uragano Sanford catalizzasse l’informazione made in Usa, l’Italia ha aperto più volte gli inserti del New York Times: con la notizia delle Nozze di Cana del Veronese, proiettate a Venezia in una performance multimediale di Peter Greenaway, oppure per via degli ultimi fuochi dal pianeta moda, con foto di Milano in primo piano.
La patina che, oltre Atlantico, avvolge lo stivale è evidente. L’idea di un Paese inteso come “occasione mancata” permea tutte le conversazioni, con chiunque, di qualsiasi nazionalità e tendenza politica. Ma a New York, in tempi di globalizzazione, l’Italia da macchietta e folklore è lontana. Nessuno crede più alla bugia dell’ “italianità” di “Little Italy”, quartiere “nazionale” a sud di Manhattan, ridotto ad una Street più o meno breve, colma di tricolori e Laura Pausini in loop nei turisticissimi ristoranti di pizza e pasta. A Nord si distendono le vie del quartiere “Nolita” (North Little Italy: come “Tribeca” è il Triangle Below Canal Street, secondo il logico sistema americano di qualificazione dei neighborhood), e nel cuore di Nolita c’è il Lulu’s Bar, lounge soffuso e a la page, tracimante di trentenni newyorkesi. Lo ha tirato su circa un anno fa Stefania, che dice: “Che domanda è ‘Se mi sento italiana?’ Io sono Italiana! Anche se vivo qui da tanto tempo.” E little Italy? “Una bugia. Si tratta in maggioranza di Italo-Americani. Nel mio locale, frequentato per lo più dalla gente del posto, di autenticamente italiano c’è il calore, la creatività, la voglia di approfondire.” Stefania è arrivata a New York nel 1998 e, secondo un’impressione comune fra gli europei a contatto con la grande mela, la città le era sembrata insignificante: “All’inizio mi sono detta: ‘ma cos’è questo luna park senza neppure un briciolo di storia?’ Poi il suo modo di vivere ti entra nelle vene.” Dopo i primi soldi guadagnati, l’idea di sbarcare nel business della ristorazione è stata immediata: a New York, la città che mastica senza sosta, si registra la più alta densità di pub, ristoranti e delivery al mondo.
Al bancone del Lulu’s un altro esempio di Italia all’estero beve il suo cocktail rosa. E’ Carolina – Carol per Ena, l’amica californiana alle sue spalle che finisce, sorridendo, lo shot di tequila – nata e cresciuta in Abruzzo, ora a New York per lavorare nel settore del design d’interni. La nuova generazione di italiani negli States è, contemporaneamente, più italiana e più integrata di quella precedente. Le donne sembrano capaci di adattarsi meglio degli uomini ai cambiamenti di stile di vita e mentalità. “Faccio un lavoro che mi piace e soprattutto vivo in una città unica – spiega Carolina – Semplicemente, posso fare tutto quello che voglio, quando voglio.” Il suo ufficio è in alto, dentro qualche grattacielo a due passi da Union Square, una delle zone più “europee” e rilassate di Manhattan, dove le torri aggressive lasciano il posto a palazzi originali e meno evidenti, e le vie si rimpiccioliscono, facendo quasi dimenticare la grata che taglia New York in rigorosissime strade orizzontali e verticali.

A Nolita, nel Village, a Chelsea, l’Italia si trova anche nelle code. Per arrivare, ad esempio, nella penthouse di un albergo con piscina in cima – alfine di gustare un tradizionale “aperitivo tricolore” celebrato da un gruppo facebook – la fila in attesa parla in italiano di marketing, e la festa replica gli happy hour brillanti e superficiali della “Milano bene”. Ma anche per ascoltare Jovanotti – impegnato in un lungo tour estivo fra Manhattan e Brooklyn con la sua band internazionale – la coda cianciante di jazz trabocca da un intimo locale d’essai e, con un po’ di fortuna, è possibile assistere al concerto accanto a Fabio Volo, newyorkese d’adozione, che beve serenamente una birra. Nella parte mediana di Manhattan scintillano i grattacieli e le insegne di uno dei simboli della città, Times Square. Il nome della “piazza” (il cui concetto, in realtà, varia molto fra vecchia Europa e Nuovo Mondo) deriva dal giornale che l’ha resa celebre, il New York Times. La nuova sede del più autorevole quotidiano statunitense svetta ora sull’ottava strada, a due passi dalla piazza, e la firma del suo progetto trasparente e sostenibile è di Renzo Piano, interamente italiana.

“Ma bisogna essere realisti – avverte Antonio Carlucci, corrispondente da New York per L’Espresso – politicamente il nostro Paese non conta nulla, e anche per quel che riguarda moda, stile e arte, i media americani concedono molto meno spazio all’Italia rispetto al passato. Chi oggi, da Italiano, riesce ad emergere a New York nel mondo del business o della creatività lo fa con le proprie forze, senza alcun sostegno politico o della comunità d’origine, il cui senso è molto diluito. Del resto, se la prima immigrazione era determinata dalla fame, ora le cose sono molto cambiate…”. Ora, essere italiani a New York equivale più a meno ad essere italiani dovunque nel mondo.
Tuttavia, le cifre di una storia di immigrazione non si cancellano, e i trascorsi di un popolo che ha lasciato il segno nel dna multiculturale degli stati uniti sono ancora evidenti. Washington Square – luogo di ristoro nel centro di Manhattan – è dedicata al leggendario primo presidente degli Stati Uniti. Eppure, davanti la grande fontana centrale, campeggia una fiera statua di “Giuseppe Garibaldi eroe italiano”, mentre nella vasca illuminata di notte, gli zampillii vengono interrotti dalle turiste che, immergendosi in acqua, richiamano vagamente una scena felliniana. Insomma, senza sforzarsi troppo, ci si può sentire a casa anche a New York. E’ questo il segreto della città delle città.

Gregorio Romeo
Fotografie: Federica Storaci

10 ottobre 2009

La visita inaspettata delle lettere

Una Lettera? Che: meglio una e-mail, no? Almeno mi rispondi subito. Chi ha tempo di aspettare e poi che avrai da scrivermi in una lettera? Quattro righe bastano, per quello che abbiamo da dirci…

Impugnare una penna, sentire d’avere un potere illimitato fra le dita, e iniziare a scrivere. Comunicare, spiegare, esprimere, raccontare ad un destinatario vero o immaginario quello che viviamo o abbiamo vissuto, un piacere accantonato nell’angolo “del quando avrò tempo”, nascosto dietro la lavagna e dimenticato lì, incuranti del privilegio cui abbiamo rinunciato per non perdere nemmeno un minuto della frenesia che ci fagocita quotidianamente.

La Lettera (la maiuscola è d’obbligo) è la grande protagonista del Festival delle Lettere, interessante kermesse letteraria a livello nazionale, organizzata dall’associazione culturale 365 gradi, che l’undici ottobre al Teatro dal Verme di Milano vedrà concludersi la 5° stagione.
Il progetto, nato nel 2004, prevede l’assegnazione di un tema principale (quest’anno “Lettera ad uno straniero”), indicato da un bando di concorso diffuso sul territorio nazionale a partire da dicembre, cui vengono affiancate altre sezioni quali: “tema libero”, la categoria “under 14”, il premio speciale Ettore Carminati alla libertà e “miglior grafia”. Le lettere migliori, selezionate con criterio emozionale e non stilistico, vengono inviate a una giuria composita, in cui spiccano illustri nomi del panorama editoriale e culturale italiano (Piero Gelli, Rossellina Archinto, Roberta Einaudi, Ambrogio Borsani per citarne solo alcuni), e premiate a teatro in occasione della giornata conclusiva. Una grande festa in cui attori professionisti leggono e interpretano gli elaborati più belli, accompagnati dalla colonna sonora di una fisarmonica, scelta originale che sembra racchiudere l’essenza della kermesse, il fascino suggestivo di una tradizione abbandonata.
Il tutto presentato da due conduttori d’eccezione: il comico Omar Fantini e l’attrice Francesca Reggiani, che vedranno avvicendarsi sul palco ospiti celebri come Elisa, Pino Petruzzelli, Ninni Bruschetta, Alessandro Haber e molti altri.
Un’occasione da non perdere per riscoprire la magia di un gesto atavico del comunicare attraverso la forma più moderna della sua presentazione: lo spettacolo.
Come ci ricorda Foscolo attraverso le parole di Lorenzo Alderani: “Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta”. Monumento che in questo contesto risiede nelle lettere stesse e nella loro capacità senza tempo di regalarci suggestioni.

Per chi fosse interessato all’evento può consultare questo sito: www.festivaldellelettere.it

Michela Giupponi