27 febbraio 2007

GROTTESCHERIE: HIRST E LO SQUALO RIPUDIATO

Swimming with famous dead shark: così, con un po’ più di una punta d’ironia, The New York Times titola (1-11-2006) un articolo dedicato al “caso” dell’arte che darà filo da torcere a critici, estimatori dell’arte e del gossip: lo “squalo” di Damien Hirst sta marcendo, e allora lui, il pezzo da novanta dei British Young Artists, l’alfiere del contemporaneo, l’asso nella manica della Saatchi Gallery - distributrice planetaria di multimiliardaria paccottiglia contemporanea - che fa? Lo restaura, è chiaro; ovvero, con uno scivolamento concettuale su cui vale la pena soffermarsi, lo sostituisce con un altro squalo; le due bestiole, a dire il vero, sono piuttosto simili – i pesci, si sa, non brillano per espressività – ma questo non ha dissuaso critici bacchettoni e anacronistici nemici del nuovo-che-avanza dal turbare il sonno del povero Hirst con il loro brusio di dissenso. Ma procediamo con ordine: nel 1991 il gallerista C. Saatchi commissiona, per la modica cifra di 50.000£, uno squalo in formaldeide al giovane Hirst, peraltro già arcinoto grazie al suo buongusto anatomico per aver esposto capre, cavoli, mucche e altri animali della fattoria immersi – diremmo imbalsamati, se non fosse termine così passatista – in una soluzione a base di formaldeide. Il gallerista londinese è, si sa, uno che ha fiuto per gli affari, e infatti: alla fine del 2004 l’opera – altresì detta, nostalgicamente, The Physical impossibility of death in the mind of someone living - viene battuta all’asta alla Gagosian Gallery per la cifra record di 6,5 milioni. Il fortunato (!) è S. Cohen, US hedge found manager e munifico collezionista d’arte, che sistema l’opera in casa in attesa della costruzione di un museo dedicato. Ma cosa sarebbe la vita senza un pizzico di brivido: dopo poco lo squalo, in barba all’impossibilità fisica del titolo, irresponsabilmente inizia a mostrare segni di cedimento, si deforma dall’interno e inizia ad emanare un nauseabondo fetore, il tutto galleggiante in soluzione verde speranza. Hirst non era mai stato troppo contento del risultato, di cui, già a suo tempo, diceva “Non incuteva poi così tanto timore. Pareva finto. Sembrava quasi non avesse peso”, il miliardario, invece, non si crucciava troppo - “E’ vero? Non è vero? Sono stato attratto da tutto il fattore di rischio” - e anche la faccenda della putrefazione, tutto sommato... Ma questo per l’artista è davvero troppo: chiama in Australia alcuni fisherman di fiducia, fa pescare un altro squalo, possibilmente con l’aria un po’ più truce, lo carica su un aereo e si rinchiude, armato di maschere, impermeabili gialli, aghi, formalina e imbalsamatori, in un capannone sperduto nel Gloucestershire, per “restaurare” la sua opera a ritmo di rap. “Il lavoro è lungo e complesso - dichiara Mr. Crimmen, responsabile al Museo di Storia Naturale e coordinatore dell’operazione - a causa delle dimensioni del corpo; centinaia di aghi iniettano la formaldeide in profondità, sperando di raggiungere anche i punti più remoti, e la notte l’opera è lasciata a “marinare” in un bagno di formaldeide” – melius abundare quam deficere. Viene da chiedersi quale sia il ruolo di Hirst in tutto questo, ma la risposta vien da sé. L’artista, infatti, assicura che questa volta il successo è garantito: “Quando lo squalo era stato manipolato 15 anni fa avevamo usato una tecnica tutta diversa..”, e, intervistato da S. Morgan, risponde così ai critici: “Mi hanno intervistato a proposito della conservazione delle opere e mi hanno detto che la formaldeide non era la tecnica più indicata. Pensano che io l’abbia usata per tramandare un’opera d’arte alla posterità, mentre in realtà io la uso per comunicare un’idea”. Dunque è così, l’artista ha l’idea, la fa realizzare da altri, prende i soldi e garantisce che “show must go on”. Tra l’altro, alcuni maligni insinuano che l’artista abbia tratto “ispirazione” da un altro squalo, esposto assai prima da E. Saunders nella vetrina del suo negozio in East London, ma non è bene eccedere nella cattiva fede. Comunque, la linea di difesa, come si evince, è davvero molto “concettuale”, eppure non persuade i più, tra cui il conservatore S. Gillespie, che in Keep artists away from their own work sottolinea la capitale differenza tra conservazione, restaurazione e sostituzione, e si interroga sulla legalità dell’intervento di un artista su opere “finite”. In poche parole, la diatriba sembra riprendere da dove Benjamin l’aveva lasciata: digerita la vecchia riproducibilità tecnica – che pure continua a dare i suoi grattacapi al mercato dell’arte – ora approdiamo alla sostituibilità materiale. Autentici miracoli delle idee, occulto potere del concetto, far passare in secondo piano le oltre 20 tonnellate di un innocente pescione, privato della vita e ora anche della dignità di soprammobile per miliardari. La questione è davvero spinosa, a tratti grottesca, se si pensa che il “restauro” – le fonti sull’identità del finanziatore sono oscillanti – avrà un costo stimabile intorno ai 100.000$. Il mondo dell’arte se la ghigna, le parodie si sprecano, ma vale la pena di ricordare che l’effetto advertising per Hirst – in questo più scaltro di una vecchia soubrette – è assicurato. Miracoli del contemporaneo, non si può che amarne l’eleganza sublime.

Intanto, però, Hirst tradisce – scivolone di stile – la sua pura vocazione concettuale con una dichiarazione che fa riflettere: per il futuro dell’opera – la seconda, l’unico vero, nuovo originale – l’artista non pare preoccupato, ma dichiara “finchè io sarò vivo, sarò soddisfatto. E’ garantita 200 anni. Soddisfatti o rimborsati”. Il che equivale a dire che l’arte e gli squali saranno anche un concetto, ma il denaro no. E se poi, diciamo tra 100 anni, il danneggiato vorrà avvalersi della garanzia, gli occorrerà un bel po’ di fantasia per indirizzare la sua protesta, dato che Hirst, seppur a fatica, sta ormai entrando nell’età adulta. E già viene da chiedersi; e il primo squalo, quale sarà il suo destino di ripudiato dell’arte? Hirst lo allontanerà dal binomio occhio-cuore, oppure se lo terrà in cantina, prova inconfessabile di un errore di gioventù? Inutile commentare oltre, l’arte contemporanea è così bella, e bisogna, bisogna proprio crederci ciecamente. Anche perché, a pensarci troppo, si rischia di dubitare e di peccare di malizia, il che sarebbe molto demodé…

Viviana Birolli


20 febbraio 2007

CORREZIONE AUTOMATICA

Un racconto dell’orrore di Giorgio Sorbona

Alle due di notte di una sera di dicembre pensai che fosse una buona idea scrivere un racconto.

On.
Il computer sbuffa e scricchiola. Carica dati e memoria.
Carica Windows Xp.
Carica ancora.
Non carica più.
Ms Word 2003.
*click* click*.
Carica. Blank Page.

Titolo. Times new Roman. 16. Centrato


Non sapevo in realtà cosa scrivere, sapevo solo che volevo scrivere.
Il titolo lo decido dopo, pensai. Il titolo si decide sempre dopo.
Non so neanche come cominciare!
Giusto. Il ragionamento fila. Vai col racconto.


Prima però scrivo l’autore. Che poi sono io. Che ci sia scritto qualcosa aiuta sempre davanti alla pagina bianca, no?
Times new Roman. 12. Allineato a sinistra.
Scrivo “Davide”, e fin qui nessun problema.
Scrivo “Bonacina”, e qui m’incazzo. Al solito, un solco rosso appare sotto la parola appena digitata.
Cazzo di correttore automatico.
La graffetta animata, l’assistente di Word insomma, mi guarda attraverso i cristalli liquidi.
Per un attimo mi sembra che sogghigni.
“Lo saprò come cazzo mi chiamo” penso inconsciamente, e ignoro la traccia porpora che, sapevo, sarebbe magicamente scomparsa una volta stampata la mia opera. La cosa però mi irritava profondamente, forse perché il fatto di studiare Lettere mi faceva presumere di saperne di più di una stupida macchina, che non era capace di distinguere fra errori e cognomi, turpiloquio, neologismi, onomatopee.
Eppure, lo vedo, lei vuole lo stesso consigliarmi, dire che sbaglio, tracciare segni tanto simili a quelli che la mia maestra delle elementari tracciava sui temi. Odiavo il correttore, ma allo stesso tempo avevo paura di disabilitarlo.
Ogni volta che ero sul punto di, un pensiero, un incubo, mi faceva capolino nella mente, e mi faceva desistere.
“E il giorno che sbagli davvero?”
La grammatica è vasta. Basta un niente, una dimenticanza, una distrazione, una combinazione di tasti mal riuscita, ed ecco che il regno partorito dalla tua mente va in rovina, crolla. Le certezze di una vita cedono come cannule alla bonaccia.
No, il correttore automatico era il mio paracadute. La mia coperta di Linus. Il mio salvachiappe.
Tutto questo per farvi capire il mio stupore quando la graffetta di Word cominciò a parlarmi. “Perché continui ad ignorarlo? E’ anni che ti consiglia, e tu non gli dai mai retta” Mi disse la graffetta.“Ignoro chi?”dissi io.
“Come chi? Il correttore automatico, no?”
“Cosa? E cosa dovrei fare, correggere il mio cognome?”
“Perché no?” Mi rispose placidamente lei.
“Perché è così e basta! E poi......oddio, sto parlando con un software"
“In effetti è vero”
“Ok sono impazzito…vabbé prima o poi doveva succedere”
“Forse sì…beh, perlomeno ne sei consapevole…al giorno d’oggi la consapevolezza è lusso di pochi”
Continuò lei “Comunque, allucinazione o meno, dagli retta, fidati!”
“Ma su cosa?”
“Se ti dice che nel tuo cognome c’è un errore è perché c’è un motivo!”
“Certo! Che non ce l’ha in memoria semplicemente!”
“Quindi credi di saperne più di lui?”
“Non solo lo credo, lo so!” dissi, tronfio d’orgoglio.
“mmm…allora analizziamo i fatti…da una parte ci siamo noi, con una decina di versioni alle nostre spalle, in cui ogni volta un team di centinaia di persone ha eliminato ogni nostro errore e ci ha migliorato nelle nostre funzionalità"
“Ma…”
“Dall’altra ci sei tu, ventunenne studente in lettere. Certamente hai studiato, ma davvero hai la superbia di crederti più intelligente di noi, che abbiamo dietro decine e decine di upgrade e perfezionamenti?”
“Ma…”
“Accetta la realtà: tu sei una versione unica non perfettibile del software di te stesso.”
“Ehm, sì va bene, mi hai convinto, ma anche sapendolo che ci posso fare?”
“Te l’ho detto, cambiati il cognome!”
“Ma come, con che cosa?”
“Mmm…beh, Buona Cina è carino.”
“Ma non è vero, fa schifo!”
“Ma invece sì, abbi fiducia, ricorda, Mao, il comunismo. Fa molto scrittore di sinistra.”
“Dici?”
“Sì, sì, vedrai che con questo sfondi. Vedo già le pubblicità sui quotidiani “Buona Cina: lo scrittore più comunista del mondo!”.
“Sì, Sì…mi piace…mi…mi hai convinto lo faccio!”

Il giorno dopo andai all’anagrafe.

SERE NERE

E cosi sia: l'altra sera il buon Vespa ha parlato in seconda serata del ritrovamento dei diari di Mussolini. Con due ospiti d’eccezione: Alessandra Mussolini e Marcello dell’Utri. Ed ecco subito venire fuori i lati inediti del Duce: il Duce non voleva la guerra, il Duce cercava di frenare Hitler. Gli storici in studio - invitati più per scrupolo di par condicio che per etica giornalistica - ripetevano che si tratta ormai di cose assodate, che anche il dittatore degenere che ci ha guidato per oltre vent’anni si accorgeva che alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era pronta a malapena a combattere la Prima di Guerra Mondiale. Ma nulla da fare: la costruzione del santino era incominciata. E così via, allora, con il flusso di coscienza della Mussolini che sciorinava i ricordi di famiglia del caro nonnino, il quale casualmente è stato anche uno dei peggiori tiranni del ‘900 nonchè l’uomo che ha portato alla rovina l’Italia.
A tenerle bordone Dell’Utri, a cui non pareva vero far dimenticare la sua condanna a 9 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso, accreditando l’improbabile immagine di erudito filologo e storico. Dall’altro lato dello studio, peraltro, a completare il ritratto di “famiglia” in un interno, sedeva il senatore Andreotti il cui concorso esterno in associazione mafiosa non è mai stato smentito, ma solo prescritto.
Il tutto con buona pace di Don Puglisi, al quale era stata dedicata la prima serata, con la messa in onda del bel film di Roberto Faenza Alla Luce del Sole. Ma siccome bisogna imparare a convivere la mafia, ecco che par condicio è fatta: prima serata all’antimafia, seconda serata a Cosa Nostra.
E poi già che ci siamo, meglio imparare a convivere anche con i fascisti, nonni e nipoti(ne).


Niente male davvero per la programmazione serale della rete ammiraglia della Rai. Anche se a dire il vero, forse, è mancato un po’ di brio, un po’ di sano divertimento, qualche effetto in più per allietare gli spettatori del Bel Paese. Che so io, un’ entrata in studio degli ospiti dietro ai fasci littori o una conduzione di Vespa vestito da Balilla, od ancora, per cambiare versante, una mezza testa di cavallo mozza per Rita Borsellino, o un presidente della regione Sicilia con la coppola in testa (.....ooops mi sa che quest’ultima non è un idea molto originale…)

Francesco Zurlo

IL GRANDE CAPO - LA CAMERA-STYLE DI VON TRIER

Il grande capo, prima di essere un film (terribilmente geniale)e una commedia (terribilmente gustosa), è uno scritto di poetica. Tutti i cinema di Von Trier sono punti di concetto e di non ritorno, assoli che squarciano la nozione di immagine, e di senso: prima il decostruttivismo visionario (L’elemento del crimine, Europa), poi il dogma (Le onde del destino, Idioti), poi il simbolismo concreto alla Beckett (Dogville, Manderlay).
Ora l’autodenudazione del mestiere: il regista come manipolatore dissacrante del materiale umano e dello sguardo dello spettatore, ma non (più) del materiale filmico (Von Trier gira affidandosi all’ “Automavision”: un computer mette a punto una selezione casuale di shot).
L’intervento del regista non avviene più sullla pellicola, ma attraverso il sadico contemplare le debolezze altrui (degli attori, dello spettatore), spiandone le reazioni, costringendoli ad ammettere la propria inadeguatezza e il proprio vizio.
E sono prevedibili allora (anzi perfettamente consequenziali) gli strepiti sconcertati dell’establishment critico dei soliti noti, che non comprende, non coglie, non (si) riconosce.
Mentre Von Trier è già nel prossimo cinema, che si fa di nuovi confini da tracciare perché da abbattere, e di immagini che non sono state viste nello sguardo di nessuno.

GIUDIZIO
***
Mattia Mariotti

15 febbraio 2007

LE BARRIERE DEL TEMPIO


LKEREDAGADA (Orissa). 14 dicembre. Un piccolo gruppo di intoccabili entra nel tempio di Jagannath, sfidando la ferma opposizione delle caste superiori, che già lo scorso novembre hanno insultato e umiliato 4 ragazze intoccabili che avevano osato varcare le soglie dell’edificio sacro.
Questa volta il gesto temerario dell’avanguardia è imitato da altri dalit che cominciano ad affollare il tempio. La tensione sale e i sacerdoti abbandonano gli altari delle divinità, interrompendo i rituali che stavano officiando.
Il giorno successivo gli appartenenti alle caste superiori iniziano uno sciopero della fame, mentre un centinaio di giovani, sempre di alta casta, marcia gridando slogan di protesta contro l’amministrazione del tempio. Il tempio rimane chiuso. I negozi serrati. La polizia assedia il villaggio. C’è eccitazione tra i dalit. Urlano a gran voce la loro conquista.
Dalla costruzione del tempio, 300 anni fa, fino a ieri, sono stati costretti a guardare la divinità Jagannath da apposite fessure sul muro di cinta. L’entrata nel tempio è un gesto simbolico. E’ la rottura delle barriere sociali. Ma le alte caste si oppongono. Impuntandosi sui loro millenari privilegi. Noncuranti della recente ordinanza della Corte Suprema che stabilisce che ogni Hindu, senza distinzione di casta, ha libero accesso agli edifici di culto.

Chiara Checchini

11 febbraio 2007

EDITORIALE FEBBRAIO 2007


Se oggi uno studente sceglie l’insegnamento, non ottiene una cattedra prima dei 45 anni. È bravissimo e aggiornatissimo?
Non importa. Le graduatorie impongono a tutti una gavetta quasi ventennale. A parte anzianità e titolo di studio, gli altri meriti sono assolutamente inutili. Le nostre esperienze scolastiche sono ricchi di aneddoti su supplenti bravi e precari e su docenti inetti e garantiti. Soprattutto ricordiamo la frustrazione di professionisti intrappolati in un sistema che equipara impegno e nullafacenza. A chi giova? Non agli allievi. Non ai giovani insegnanti. Non alla società.
Forse solo ai titolari di un privilegio sempre più raro.
Luca Gualtieri

5 febbraio 2007

BOBBY

4 giugno 1968. Los Angeles. All’Hotel Ambassador lo staff del senatore Robert Kennedy aspetta con impazienza i risultati delle primarie, in cui si sfidano il fratello del presidente statunitense assassinato appena 5 anni prima a Dallas e Mc Cathy. In palio c’è la possibilità di correre alla Casa Bianca. Attorno, per i corridoi e le stanze dell’albergo, si muove una miriade di personaggi. Dal vecchio portiere cui è recentemente morta la moglie (Antony Hopkins) che sfida a scacchi un saggio collega (Harry Belafonte), al direttore dell’albergo (William H. Macy) che licenzia con orgoglio un dirigente razzista e carognesco (Christian Slater) e tradisce la moglie (un’inedita Sharon Stone, in versione parrucchiera dei divi) con una giovane centralinista (Heather Graham). Dalla cantante alcolizzata e sul viale del tramonto (Demi Moore), al pacifico broker (Martin Sheen) che combatte con la superficialità della moglie (Helen Hunt), collezionista di opere di Pop-Art. E poi i due giovani sostenitori dei democratici che prendono Lsd e dimenticano l’impegno politico, la ragazza che sposa un giovane amico solo per salvarlo dalla chiamata dello Zio Sam, ed il giovane attivista nero che vede nell’ascesa del candidato democratico una speranza per gli afroamericani. E ancora il cameriere messicano che rinuncia alla partita di baseball dei sogni per un caso di quotidiano sfruttamento, il cuoco di colore ormai disilluso dall’America che ha ucciso Martin Luther King e la giornalista cecoslovacca che nessuno prende in considerazione perché proveniente da un paese considerato “comunista”, malgrado la svolta democratica di Dubcek.


Nel raccontare le ultime ore di vita di Robert Kennedy, Emilio Esteves, figlio d’arte (suo padre è Martin Sheen) sceglie sapientemente di non mostrare mai il vero protagonista della vicenda, se non attraverso immagini di repertorio. Le parole dei discorsi di Bobby, che rimbalzano dagli schermi televisivi accessi nelle stanze dell’albergo, fanno da sottofondo a un affresco corale su un’America che insieme al giovane senatore democratico sta perdendo anche la propria innocenza. Un affresco alla Altman, che strizza l’occhio a “Nashville” (anche lì il film si chiudeva con colpi di pistola verso un candidato, seppur di segno radicalmente opposto). Ma tuttavia senza l’amarezza, il disincanto, la cruda ironia del maestro. Dal tono invece elegiaco, malinconico per ciò che avrebbe potuto essere, non è stato, e non sarà più.

Dallo schermo riaffiorano allora le angosce, le frustrazioni, le nevrosi (ma anche i lati positivi) di una società che sta sprofondando verso il baratro del Vietnam, del Watergate e di una delle più grandi crisi sociali e politiche che ha mai dovuto affrontare.

Non mancano ovviamente i riferimenti ai giorni nostri: dalla vicenda del messicano Jose che allude al muro della vergogna e alle leggi anti-immigrazione del governo Bush all’ovvio parallelo tra guerra del Vietnam e guerra in Iraq. L’America traballante di ieri, sembra dire il film, assomiglia terribilmente a quella di oggi, incamminatasi, come i soldati nel finale di “Full Metal Jacket”, verso un inferno terreno tutt’altro che metaforico.

Bobby appartiene quindi a un filone di film d’impegno civile, di simpatie squisitamente democratiche, che già in passato ha prodotto pellicole come “Tutti gli uomini del presidente” o “Philadelphia” e in tempi più recenti “Good night and good luck” o “Syriana”. Non rinuncia completamente all’idea del sogno americano (si veda la tirata del personaggio interpretato da Laurence Fishburne al giovane messicano Josè, che tira in ballo nientemeno che Rè Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda), ma sa anche dipingere i sogni spezzati di un epoca, in maniera nient’affatto trionfale. Il linguaggio è sonoramente hollywoodiano ma il finale è tutt’altro che retorico - o perlomeno ben lontano dalla retorica solenne a cui il cinema americano corrente ci ha abituato.

Forse molti cinefili storceranno il naso di fronte a questa pellicola così bien fait, dal cast stellare e dall’impaginazione abbastanza tradizionale – riferimenti ad Altman e al Thomas Paul Anderson di “Magnolia” a parte. Ma l’America di Bush ha quantomai bisogno di conoscere le proprie radici, le origini della crisi che l’hanno portato alla situazione attuale, anche attraverso un robusto ed edificante film popolare come “Bobby”. Per non ripetere gli errori del passato.

Francesco Zurlo

2 febbraio 2007

LA CATTIVA EDUCAZIONE

Ucciderne uno per educarne cento. E’ sempre stato il motto dei brigatisti rossi. Quelli del 2007 nei loro programmi pedagogici avevano previsto, tra le altre cose, l’eliminazione di quel cattivone di Pietro Ichino, professore nel nostro Ateneo. E a quanto pare i nostri messianici educatori avevano scelto proprio la nostra università per tirar su nuovi allievi con la pistola. Ma con scarso successo. Per fortuna i nostri cervelli ancora “poco educati” continuano a credere che il sogno di liberare il proletariato dal giogo dei giuslavoristi a colpi di pistola, per poi magari fare dell’Italia un’ oligarchia marxista-leninista satellite della Corea de Nord, dove ogni anno fabbricare un ordigno nucleare finto per costringere il resto del mondo a barattarne lo smantellamento con barili di petrolio nordamericani - sia solo il delirio di una ventina di casi gravi da ospedale psichiatrico.
Beniamino Musto