30 aprile 2010

Cuore nero: viaggio nella destra radicale milanese

Qualche giorno fa abbiamo conosciuto Marco Arioli, il responsabile lombardo di CasaPound, una delle più giovani organizzazioni politiche di estrema destra (anche se loro preferiscono farsi chiamare “fascisti del nuovo millennio”). La loro appartenenza politica suscita quel misto di spavento e fastidio, comune nei confronti di chi manifesta un pensiero e un agire radicali. La rivendicazione fascista poi, è ciò che maggiormente offende chi proprio non capisce cosa ci sia di tanto affascinante nel ventennio, tanto da ispirare indegne celebrazioni. Abbiamo però cercato di mettere da parte i nostri giudizi (o pregiudizi?), ascoltando e cercando di capire.

Per quanto riguarda CP, si tratta non tanto e non solo di un riflusso nostalgico verso un passato eroico, quanto piuttosto del tentativo di “sviluppare in maniera organica un progetto e una struttura politica nuova, che proietti nel futuro il patrimonio ideale e umano che il Fascismo italiano ha costruito con immenso sacrificio”. Il loro simbolo è la tartaruga: “l’animale che per eccellenza rappresenta la longevità”.

L'associazione nasce a Roma nel 2003, con l'occupazione di un edificio che ne diverrà la sede, da parte di alcuni ragazzi, guidati da Simone di Stefano. Oggi l’esponente di riferimento è Gianluca Iannone, protagonista dell’esperimento che ha poi ispirato la nascita di CP, Casa Montag, e “teorico delle occupazioni”, oltre che fondatore del gruppo rock ZetaZeroAlfa.

L'approdo a Milano, recente, è stato assai travagliato. Prima come Cuore Nero - ma la sede di Viale Certosa è stata incendiata prima dell'inaugurazione, nel 2007, da antagonisti di sinistra - e infine come Casa Pound.

Il nome è, ovviamente, un tributo a Ezra Pound, uno dei grandi poeti del novecento, impegnato collateralmente nello sviluppo di una teoria economica “contro l'Usura”. Celebre la sua prigionia a Pisa, dove fu prima internato in un campo, e poi considerato pazzo grazie ad una perizia truccata proprio per salvargli la vita.

Al centro della sua speculazione economica è il cosiddetto “mutuo sociale”, ossia la costruzione da parte dello Stato su terreni pubblici, di case da vendere a prezzo di costo alle famiglie, senza passare per il cappio delle banche, l'ambizione è quella di dare una risposta concreta all'emergenza abitativa. Altro punto cardinale, la statalizzazione della banche: da quando “l'emissione della moneta è stata scippata alla Comunità Nazionale a favore di gruppi privati” i cittadini sono tenuti “sotto strozzo”, attraverso un calcolato e controllato aumento del debito. Si tratta dell'altrimenti detto “signoraggio bancario”, tema non ignoto anche al pensiero radicale di sinistra - fino a qualche tempo fa, era tema anche degli spettacoli di Beppe Grillo (anche se è considerato da molti una delle maggiori bufale via web).

-Comunque la si pensi, non è facile neanche riuscire a parlarne - si lamenta Marco, - ci ho provato nelle scuola, ma il commento alle mie parole era sempre lo stesso: “porco fascista!”. L'antifascismo è un mito duro a morire, come dottrina unica professata dai sedicenti progressisti di sinistra, tolta la quale molto spesso resta il nulla. Siamo pur sempre il paese incapace di fare i conti con la propria storia. -

Senza che questo significhi rinunciare all’antifascismo, va loro riconosciuto merito per le iniziative migliori, come la distribuzione della spesa ai poveri o, in Abruzzo, la collaborazione nella ricostruzione di Poggio Picenze, che ha spinto il sindaco - di centro sinistra - ad affidare loro l'organizzazione di una biblioteca, dedicata, ovviamente, a Ezra Pound. Per l'occasione è stato pensato lo slogan: “Libri come mattoni, per ricostruire l'Abruzzo”.

Per colpa di un nostro inveterato pregiudizio, restiamo stupiti dalla disponibilità di Marco a parlarci di ciò che fanno, e di ciò che pensano. Sembrerà banale, deamicisiano, ma anche il suo entusiasmo stupisce: non sono molte le persone entusiaste del loro impegno politico. Chi avesse il coraggio di andare oltre l’iniziale rigetto, è proprio su questo che dovrebbe interrogarsi, su come sia possibile spiegare quest'impegno. Va riconosciuta la loro capacità di mobilitazione, specialmente se confrontata con il nulla di chi, non credendo più in nulla, nulla fa perché un frammento di ciò che non piace cambi.

Per sfatare qualche mito, è bene segnalare la loro posizione, non comune (almeno fra le parallele organizzazioni politiche di destra), favorevole alla regolarizzazione delle coppie gay. Altrettanto degno di nota il loro antirazzismo, lontano da ogni possibile “caccia all'immigrato”. Anche loro, così come il mondo civile, pensano che il problema non sia mai l'uomo bisognoso di aiuto, ma il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Difficile capire se dietro ai bei discorsi corrisponda un reale convincimento, fa comunque piacere sentire parole ragionate.

Alla fine della chiaccherata emerge che l’incompatibilità tra le nostre posizioni e quelle del responsabile di Casa Puond su molti temi non ci hanno impedito di ascoltare e di farci ascoltare, e per qualche secondo abbiamo intravisto la possibilità di un dialogo, di un confronto franco, non violento... Non è forse necessario questo per riuscire a realizzare qualcosa di nuovo e, secondo il motto di Confucio, tanto amato da Pound, rinnovare davvero?

Giuseppe Argentieri e Filippo Bernasconi

26 aprile 2010

IL GIOCO DELLA GUERRA E L'EDUCAZIONE AL PENSIERO LIBERO - Intervista al partigiano Luigi Pestalozza

Luigi Pestalozza ha partecipato giovanissimo alla Resistenza, militando a 16 anni nelle Brigate Giustizia e Libertà. Ha aderito al PCI nel 1956, dopo la destalinizzazione, per poi lavorare presso la Sezione culturale della Direzione del Partito. Esperto di Costituzione e appassionato di musica, ha insegnato storia della musica presso l'Accademia di Belle Arti di Brera ed è stato critico musicale per il settimanale Rinascita. All'attività di storico della musica, alterna quella di giornalista e pubblicista. Come inviato di Rinascita e dell'Unità ha viaggiato lungo l'Africa, seguendo da vicino la Rivoluzione somala. Tra i suoi libri pubblicati: Il processi Muti; Il cittadino; Lezioni di educazione civica; Somalia, cronaca di una rivoluzione. E’ attualmente Vicepresidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I).

Nella lunga chiacchierata che ci ha concesso, spazia dall'analisi economica e politica dell'Italia attuale a citazioni legate alla sua vastissima cultura musicale. Ma i racconti che lo vedono più coinvolto sono i ricordi della sua esperienza di partigiano. Ricorda con nostalgia la Compagna Bianchina, “ragazza coraggiosissima”, che trasportava le armi sulla sua bicicletta e della quale, dopo il suo arresto, non si è saputo più niente. E ricorda con simpatia la maitresse del casino, che nascondeva le armi per i partigiani, che per recuperarle dovevano fingersi clienti.

Partiamo dalla tua esperienza di partigiano. Cosa ti ha spinto a entrare nella Resistenza a 16 anni?
Su questo ho scritto addirittura un libro, si chiama Il gioco della guerra. Mi ha spinto la mia vita in famiglia. Appartenevo a una famiglia miliardaria ma di un antifascismo assoluto. Nel ’38 mio padre è stato processato, condannato e siamo stati anche ridotti in povertà. E così all’8 settembre mi sono subito dato da fare per entrare nella Resistenza. Sono entrato esattamente il 20 febbraio 1944, qui a Milano, nel giorno in cui compivo 16 anni. Non vi colpisca la cosa perché eravamo tantissimi così giovani. Occorre pensare che chi aveva 16 anni nel ‘44 aveva dietro di sé quattro anni di guerra, di case bombardate -compresa la nostra-, di morti -il fidanzato di mia sorella maggiore era morto in Albania.
Avendo 16 anni non mi hanno mandato in montagna, ma mi hanno tenuto a Milano. La cosa più straordinaria in proposito è che a Milano eravamo 720 partigiani a fronte di 11000 tra tedeschi e fascisti. Però chi dominava la città eravamo noi, e loro non riuscivano mai a sapere dove noi facessimo un disarmo, o un comizio davanti a una fabbrica all’ora del pasto. Sperimentavamo la solidarietà del popolo milanese, culminata a marzo, con lo sciopero generale di tre giorni. Scioperavano anche i mezzi di trasporto e noi pattugliavamo la città. Per quanto riguarda la mia brigata, Giustizia e Libertà, ci era stata affidata la vigilanza di corso XXII Marzo. Alla mattina i tram non andavano, e tenete conto che scioperare per i tramvieri non era poco perché dovevano starsene a casa, quindi ciascuno si fidava, sapeva che anche il compagno sarebbe stato a casa. Però verso le undici della mattina i tram cominciavano ad andare guidati dai fascisti, e noi gioivamo perché sui tram non saliva nessuno. Gridavano: “Salite, salite, tutto funziona!” e la gente continuava a camminare tranquilla, ignorandoli.

Come vicepresidente dell'A.N.P.I, cosa pensi si debba fare per evitare che l'antifascismo sia percepito unicamente in un' accezione commemorativa?
È una delle cose che io cerco di fare inutilmente. Qui devo fare una critica in generale all’A.N.P.I, e non sono il solo. Ci battiamo perché l’A.N.P.I diventi trainante nel porre la questione dell’applicazione della Costituzione repubblicana ma nell’associazione prevale un’impostazione celebrativa. All’ultimo congresso abbiamo modificato lo statuto aprendo i ruoli dirigenti anche agli iscritti più giovani senza bisogno che per accedervi si abbia partecipato alla Resistenza. Ma non c’è niente da fare, l’A.N.P.I rimane l’organizzazione della memoria, e non del progetto.

Ora vorremmo sfruttare anche la tua esperienza di musicologo...
La mia esperienza di musicologo parte dal fatto che io non sia un musicologo, ma uno storico della musica. Il termine musicologo si porta dentro il positivismo ottocentesco, e cioè una concezione puramente oggettuale della musica, e non della musica come parte della storia. Musicologo è un termine selettivo, inserito in una concezione specialistica dei rapporti, per cui io so tutto della musica ma mi occupo solo della musica. Questa visione culmina nell’attenzione privilegiata alla cosiddetta “Grande Musica” e nella proposizione della categoria odiosa e che io ripudio del Genio, che è sempre di copertura al potere. Alla base di queste concezioni c’è sempre l’idea come di un’infusione divina che scinde l’unità tra ciò che si è e ciò che si fa e si dice.

Musica quindi come parte irrinunciabile della cultura e della storia, ma ti chiediamo allora, che fine ha fatto il dibattito intellettuale-culturale? Negli anni '60-'70 era molto fervido, dal Formalismo russo al Gruppo 63, alle infinite avanguardie critico-artistiche. Da un po' di tempo invece sembra spento. E' davvero così? O il dibattito esiste ma è sommerso o elitario?
In realtà è scomparso perché dalla fine degli anni ‘70, non soltanto in Italia, ma nel mondo, avviene l’affermazione del capitalismo finanziario su quello produttivo. Le contraddizioni mutano e in questo contesto irrompe un nuovo modello di cultura, che ha in Craxi il suo punto d’inizio nel nostro paese ed è oggi dominante. Io ho conosciuto Craxi anche personalmente e ho avuto a che fare con la politica culturale del PSI quando ero dirigente del settore musica del dipartimento cultura del PCI. Per esempio fui contattato da un dirigente craxiano che mi offrì qualsiasi cifra in cambio del mio impegno per garantire l’appoggio del nostro partito a un loro disegno di legge in materia musicale, per il quale eravamo e siamo rimasti contrari. In sostanza questo nuovo modo di concepire i rapporti in campo sociale, come in campo culturale, si caratterizza per la sua concezione di una funzionalità diretta all’interesse individuale o di gruppo privilegiato ricercata in modo spregiudicato, che finisce per vanificare la libertà del dibattito e negare la ricerca libera dagli interessi materiali dominanti. In questo clima avanza una cultura della neutralizzazione delle idee. Desidero citare un convegno della Confindustra del ‘95 sul tema cultura e scuola il cui documento conclusivo sostiene che, nell’ottica dell’interconnessione tra sistema economico, cultura e formazione, il sistema scolastico debba essere interamente riconcepito e indirizzato alla formazione di “menti d’opera emancipate dal sapere critico”. Questo è alla base di quanto sta avvenendo anche qui nell’università, dove sta prevalendo l’educazione al saper fare su quella al pensare. Questo mi ricorda la politica scolastica del fascismo, che ho sperimentato direttamente, avendo frequentato le scuole del regime fino al ginnasio. Ricordo ancora le rabbiose reazioni repressive suscitate dai miei dubbi di bambino, come quando chiesi perchè, con tutti i mari che esistono, i nostri temi vertevano solo sul Mare Nostrum (allora c’era la smania mussoliniana del Mediterraneo). L’insegnante chiamò addirittura i miei genitori a colloquio col direttore didattico per sapere chi mi avesse insegnato a dire certe cose…Effettivamente, appartenendo io a una famiglia di borghesia democratica, non liberale, ero abituato a pensare e comportarmi diversamente dai miei compagni. E io mi ricordo ancora il dito puntato verso di me della mia maestra che mi redarguiva davanti a tutti, dicendomi “tu sei qua per imparare non per pensare!”. Mezzo secolo dopo abbiamo la Confindustria che dice esattamente la stessa cosa. In questo clima si è disfatto tutto il fermento culturale culminato negli anni ‘60 e ’70.

Nella tua biografia, anche politica, spicca molto la volontà di mantenere una forte indipendenza di idee. Qual è, secondo te, il ruolo della cultura nel mantenere un’autonomia di pensiero?
Occorre a mio avviso riflettere a partire dall’autonomia della cultura, che significa anzitutto autonomia del sapere, venuta meno con il processo di privatizzazione iniziato all’epoca di Craxi e giunto oggi a maturazione. Perché si infierisce in maniera così diretta e implacabile sulla cultura, tagliando i fondi, riducendo l’intervento pubblico a intervento di supporto all’appropriazione privata delle attività culturali, nella totale assenza di un progetto? Perché la cultura, se autonoma, ti educa all’autonomia del pensare. Come ci ha insegnato Marx, ma prima di lui il vero Gesù Cristo, quello non falsato dal Concilio di Nicea, occorre mettere al centro l’Uomo, facendone il perno dell’azione e della trasformazione. È evidente come non si possa riuscire in questo in assenza di autonomia della cultura. Non a caso, le classi dominanti hanno sempre mirato a questo: negare autonomia alla cultura attraverso una politica dell’accesso al sapere come accesso alla formazione tecnica, non umanistica e quindi non in grado di cogliere e analizzare le contraddizioni che dividono gli uomini.

Al termine dell'incontro Luigi Pestalozza, riflettendo sulla fortuna-sfortuna generazionale e paragonando la ricchezza di stimoli e di idee della sua adolescenza al panorama sociale attuale, ci lascia con un’affermazione comprensiva e solidale: “Io ho avuto una vita difficile ma bellissima. Immagino che vita difficile dovete avere voi, circondata dal vuoto”.

Laura Carli e Giuditta Grechi
fotografie di Alessandro Massone

24 aprile 2010

GLI INVISIBILI: 35 RHUMS

Cos'è decisivo per la nostra formazione: ciò che leggiamo o ciò che non leggiamo? Quello che abbiamo visto o quello che non vedremo? Inevitabilmente entrambi concorrono a formare ciò che, in una parola, chiamiamo gusto. Se questo è vero, allora varrà la pena di provare a capire, volta per volta, perché manchiamo certi incontri o occasioni, certi libri o film.

Prendiamo il cinema, è semplice: alcuni film nel nostro paese non escono. Forse nessuno andrebbe a vederli o quasi, anche perché è molto probabile che in pochi sarebbero capaci di apprezzarli, ma questo perché?

L'anno scorso è uscito 35 rhums (vers. ingl. 35 shots of rum) della registra Claire Denis, osannato ovunque, qui ignorato.

Si tratta di una straight story, apparentemente facile: un padre che ama la propria figlia: Lionel (Alex Descas), autista della metrò, vedovo, e Josephine (Mati Diop), giovane studentessa di Scienze Politiche e commessa in un negozio di dischi. Attorno alle loro, due altre esistenze, spezzate. Gabrielle (Nicole Dogue), ex di Lionel, taxista, e Noé (Grégoire Colin), giovane inquieto, non si sa bene di cosa viva , oltre che assieme al suo gatto. Vorrebbe partire, lasciare la casa una volta per tutte, senza farlo mai. Un po' in disparte, Rene (Julieth Mars Toussaint), collega di Lionel, costretto a una pensione forzata, indesiderata, che riduce la sua vita a un susseguirsi di giorni difficili da riempire.

Gabrielle ama ancora Lionel, lo cerca più di quanto lui sia disposto a lasciarsi trovare, Noè scherza, anche se non è chiaro fino a che punto, con Jo, bellissima eppure indifferente alla sua stessa bellezza (indifferenza che è parte di quello stesso inconsapevole fascino che divide col padre).

Una sera sono tutti assieme diretti a un concerto, ma la macchina di Gabrielle si ferma sotto il diluvio. Nel corso della notte che segue alcuni frammenti della storia cominciano a ricomporsi, secondo la comune miscela di casualità e destino.

Il film ha la capacità di mostrare al di là delle parole, e al di sotto della superficie degli eventi gli affetti, i sentimenti, le inquietudini, le ansie, e i momenti di felicità dei protagonisti, l'evolvere della loro interiorità.

Aggiunge preziosità al tutto la colonna sonora dei Tindersticks e la splendida fotografia di Agnes Godard.

Il titolo si riferisce a un rito da compiere in occasione di un momento speciale.

Saper raccontare l'amore è forse ciò che più manca al nostro cinema (ma si potrebbe spezzare la frase per trovare tre cose di cui ugualmente fa difetto: sapere, raccontare, amore), come cantava Celentano (ma un rinascimento è forse in vista).

Le mancanze degli autori si riflettono poi in quelle del pubblico, che proprio questo tipo di film corre in massa a vedere (cioè, di nuovo, quelli che mal raccontano l'amore).

Ecco allora l'importanza di opere come quella della Denis.

L'arte è un continuo studio d'alfabeto. Se la frequentiamo è per imparare a leggere meglio tutto ciò che siamo, che viviamo, e non per un'incorreggibile bisogno d'essere salvati. L'unica consolazione è che non c'è consolazione. E che, nonostante questo, ne vale la pena.

Giuseppe Argentieri

21 aprile 2010

AVATAR: COSE DELL'ALTRO MONDO? La foresta amazzonica e i danni all'ecosistema

Pandora, meraviglioso pianeta azzurro dei Na'vi, affascina e stupisce con la sua maestosa vegetazione e le sue fantasiose creature. Le riprese dall'alto delle immense foreste possono ricordare la foresta tropicale dell'Amazzonia, unico luogo della terra che ancora non è stato modificato troppo dall'intervento dell'uomo. Una delle idee più interessanti del film è che ci sia una specie di coscienza che pervade il pianeta, che i Na'vi chiamano "Madre". Anche una scienziata del progetto Avatar, Grace, scopre durante le sue ricerche un legame biochimico tra le radici di ogni albero, che le unisce come fossero sinapsi. I Na'vi rivolgono le loro preghiere a particolari specie di alberi dove sopravvivono gli spiriti degli antenati che li proteggono fungendo da tramite con la "Madre".

Gli alberi di Pandora hanno molte analogie con una particolare specie di alberi presente in Amazzonia. L’albero Samauma, chiamato “Regina della foresta”, è alto fino a 30 metri con un tronco del diametro di tre metri, ma la grandezza non è l'unica caratteristica in comune, Il Samauma è dotato di grandi radici chiamate “sapopernas”,strettamente intrecciate, che vengono utilizzate dagli indigeni per parlare tra loro a distanza percuotendole.

Ogni tanto nella foresta risuona un battito che nessuno ha provocato.

Si narra che creature invisibili e magiche, le Curupiras, proteggano la foresta e utilizzino le radici di quest’albero per comunicare. Oggi però il rumore delle motoseghe e delle macchine scavatrici sovrasta il segnale delle Curupiras. La loro antica voce rischia di scomparire del tutto.

In pochi decenni abbiamo perso il 40% della foresta amazzonica e in questo momento migliaia di incendi distruggono centinaia di ettari di alberi secolari per lasciare spazio a sconfinati campi per allevamento e colture intensive. Senza contare gli interessi delle grandi multinazionali del legno e la presenza di miniere d’oro, petrolio e gas naturale.

Ma infondo che male può fare qualche albero in meno?

Le foreste pluviali tropicali sono dei regolatori naturali della temperatura del nostro Pianeta e l’Amazzonia è il polmone verde più grande del mondo, determina l’andamento delle precipitazioni nel Brasile centrale, influenza il clima dell’America meridionale, del Golfo del Messico ed è fondamentale per l’equilibrio climatico mondiale.

La foresta amazzonica si estende in Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Guiana Francese, Perù, Suriname, Venezuela. E’ più grande dell’Europa, ricopre il 30% della superficie delle foreste tropicali del mondo e ospita: 40.000 specie di piante, 420 specie di mammiferi, 1294 specie di uccelli, 818 specie di rettili, 427 specie di anfibi e 3000 specie di pesci nel Rio delle Amazzoni (un numero di specie superiore rispetto a quelle che vivono nell’oceano Atlantico). Immaginate i danni che la deforestazione e la pesca insostenibile attuata dalle grandi industrie hanno fatto e possono ancora fare?

Il wwf da anni cerca di impedire questo scempio con molte iniziative. Ha certificato 500 mila ettari di foresta con il marchio FSC (Forest Stewardship Council) che identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. Il wwf 1985 ha realizzato progetti di agricoltura sostenibile, economia agroforestale, educazione ambientale ed ecoturismo in 35 villaggi vicini alla Riserva di UNA (Brasile). Ha creato due riserve naturali nella foresta amazzonica in Perù, per un totale di 60.000 Km2 e, non ultimo, ha lanciato una campagna per salvare il Samauma.

Evidente in Avatar è la tematica ecologista: i veri nemici sono gli umani che sfruttano il pianeta incuranti del danno che provocano. La speranza è di smuovere un po' l'opinione pubblica e non solo in America.

Noi cosa possiamo fare? Non è colpa nostra se le grandi industrie distruggono il nostro pianeta per profitto. Tanto per cominciare si possono raccogliere alcuni suggerimenti presenti nel sito del wwf (www.wwf.it). Alcuni dicono che queste azioni sono soltanto una goccia nel mare e che in fondo non possono cambiare la situazione. Magari però, goccia dopo goccia...

A causa della deforestazione ogni minuto perdiamo un area equivalente a 36 campi da calcio, ogni anno perdiamo 1 milione e 600 ettari di foresta amazzonica.

I Na'vi hanno ingaggiato una guerra disperata contro un nemico nettamente più forte di loro per salvare Pandora. Noi cosa siamo disposti a fare?

Elena Sangalli

19 aprile 2010

IL TEMPO DI SCHIELE

“La guerra è finita, e io devo andare. I miei quadri saranno esposti nei musei di tutto il mondo.”

Queste le ultime parole pronunciate da uno dei padri dell’espressionismo austriaco, prima di morire di febbre spagnola nel 1918, neanche trentenne.
E infatti dal 24 febbraio al 6 giugno 2010 Palazzo Reale propone a Milano una mostra che, in collaborazione con il Leopold Museum di Vienna, raccoglie quaranta opere del pittore Egon Schiele e altre di suoi contemporanei quali Klimt, Moser, Gerstl e Kokoschka, del quale è possibile ammirare il celebre “Autoritratto con mano sul viso”.

Le ultime parole del pittore, tuttavia, oltre che profetiche sono sintomo di un’importante consapevolezza: egli era cosciente della sua raggiunta maturità artistica e del suo essere divenuto, dopo l’affrancamento dall’esempio di Klimt e della Secessione viennese, capo di una nuova scuola artistica proiettata verso il futuro. Era il 1918, l’Austria usciva sconfitta dalla guerra, le speranze dell’“epoca delle certezze” della Vienna “felix” di fine secolo si sgretolavano, e si poteva ormai scorgere l’inquietudine e il disagio di una nuova epoca a cui Schiele non aveva mai avuto timore di guardare senza rimpianti per il passato. All’arte pur innovativa ma ancora legata alla tradizione della Secessione si era sostituita la nuova arte dell’espressionismo.

L’esposizione si pone come obiettivo il far comprendere allo spettatore quale sia il clima in cui si collocano la nascita dell’arte moderna in Austria e in particolare l’elaborazione delle opere di un artista che sapeva dare ai suoi personaggi un “respiro ardente e appassionato”, citando le parole di Rudolf Leopold, curatore della mostra e direttore artistico del Leopold Museum. Il curatissimo allestimento, infatti, proietta il visitatore in una sorta di passeggiata nel tempo e gli permette di rivivere un frammento di storia: quello della Vienna tra ‘800 e ‘900. Come in un libro dispiegato, una narrazione di un’altra dimensione spazio-temporale, si affacciano alla percezione dello spettatore fotografie d’epoca, pannelli di contestualizzazione storica, valzer come sottofondo musicale e le opere degli artisti. Il tutto realizzato con motivi grafici e tipografici del nuovo gusto decorativo del primo Novecento viennese, segnato dalla nascita del graphic design e dalle scelte estetiche della Wiener Werkstatte, ditta legata al design, la quale fondeva vari stili, dal Liberty allo Jugendstil alla Secessione, in un nuovo classicismo.

In tale contesto di sperimentazione artistica, letteraria e musicale, permeato di ottimismo e certezze, inizia la sua carriera Egon Schiele. Il pittore, dopo aver abbandonato l’Accademia di Belle Arti, esordisce con uno stile prezioso, di cui è esempio La danzatrice di Moa con il suo cromatismo dorato, fortemente influenzato dal maestro Gustav Klimt. Subito però l’irrequieto spirito indagatore dell’artista lo spinge a trovare nuovi registri formali, che indaghino le inquietudini e gli impulsi segreti della natura umana. Proprio negli stessi anni Freud iniziava la sua ricerca sull’inconscio e definiva le pulsioni fisiche e sessuali forze determinanti per la psiche, e un romanziere come Arthur Schnitzler dava voce a desideri irrazionali abitualmente respinti dalla società, Schiele comincia a porre sulla tela una sorta di diario intimo. Abbiamo numerosi autoritratti, tra cui citiamo “Autoritratto con alchechengi”, eseguiti con uno stile scarno, asciutto, composto da pochi tratti drammatici che realizzano il corpo come un organismo sofferente e inquieto, dal volto teso e dai gesti nervosi, attraverso i quali il pittore fa trasparire l’interiorità del soggetto. Il suo sguardo lucido e impietoso si serve spesso dello specchio come strumento d’osservazione, un oggetto ricorrente anche nelle fotografie che ritraggono l’artista. Infine Schiele approda a una fase di erotismo maturo, che ha al centro non la nudità astratta e pacificata dell’arte classica, ma quella legata direttamente alla sessualità, all’eros inteso come realtà quotidiana spesso cruda, affrontando tabù come l’autoerotismo e l’omosessualità femminile. La carica provocatoria di queste rappresentazioni suscitò uno scandalo che si accompagnò al successo nel momento culminante della carriera del pittore, scandalo che non sembrerebbe in grado di raggiungere lo spettatore di oggi, assuefatto dalla continua vista di immagini legate alla nudità e al sesso. Eppure queste opere hanno un effetto perturbante e portatore di sotterranei timori: ciò che provoca sgomento è la sensazione che l’eros di Schiele tratteggi scenari di follia visionaria, rappresentando non una banale esperienza edonistica consumabile in tranquillità ma pulsioni incontrollabili che pure muovono la nostra psiche. La bellezza terribile e grottesca di questi corpi turba il nostro intontimento di ordinati e sedati uomini della società civile.

Irene Nava

17 aprile 2010

Eppur ci credo. La sindone: falso o miracolo?

Nel 1988 tre differenti laboratori, ad Oxford, Tucson e Zurigo, hanno effettuato il test del Carbonio 14 per datare un campione del tessuto della Sindone. Il risultato complessivo colloca la fabbricazione della presunta reliquia tra il 1260 e il 1390, proprio il periodo in cui nelle cronache medievali appare per la prima volta il misterioso sudario. Se pensiamo che nella Storia sono circolate una quarantina di altre sindoni, tra le quali la più celebre è quella di Besançon, poi distrutta durante la rivoluzione francese, non è difficile presupporre l’opera di qualche falsario medievale.

Se la questione fosse solo scientifica sarebbe finita qui, ma non è così. La voglia di credere a tutti i costi di una parte del mondo cattolico (non però della Chiesa, che non riconosce ufficialmente l’autenticità del sudario) e la compiacenza di media ben contenti di inseguire le teorie più strampalate, permettono al mito di resistere.

Gli argomenti attraverso i quali i sindonologi ne sostengono l’autenticità seguono due principali filoni: la demolizione della prova del Carbonio 14 e la pretesa impossibilità di riprodurre il manufatto. Contro la datazione gli sforzi dei “negazionisti” sono veramente prodigiosi: innanzitutto c’è chi sostiene che dietro ai test vi sia l’immancabile lobby massonica, che avrebbe falsificato deliberatamente i dati, gettando un’ombra sulla lunga querelle tra le sedi candidate alla realizzazione dell’esperimento.

Sarebbero poi presenti anche degli errori nei calcoli statistici relativi ai dati del laboratorio di Tucson, che potrebbero forse spostare di qualche anno la datazione. Servirebbe però un miracolo, questa volta vero, per retrodatare il risultato di 1300 anni.

E’ stata avanzata anche l’ipotesi che il campione prelevato non fosse originale. Margherita d’Austria, zia di Carlo V, avrebbe fatto prelevare un lembo della veste, poi sostituito con un rattoppo. Disgraziatamente l’equipe di scienziati avrebbe prelevato proprio quel frammento. L’ipotesi, formalmente plausibile, potrebbe essere facilmente verificata con un nuovo test, ma forse si preferisce mantenere un alone di mistero.

Esistono poi ipotesi pseudoscientifiche veramente gustose: nel 1532 la Sindone è stata sottratta ad un incendio a Chambery. Per alcuni il calore delle fiamme ne avrebbe alterato la radioattività. Demolita scientificamente l’ipotesi, rivelatasi completamente infondata, ne è stata partorita subito un’altra: non il fuoco, ma dell’olio di colza usato per ripulire il telo avrebbe aumentato la quantità di carbonio, sfalsando di tredici secoli il risultato. Fatto questo che potrebbe teoricamente succedere, ma solo dopo aver rovesciato litri e litri d’olio sull’immagine dell’Unto del Signore. Le due ricerche, opera entrambe di due screditati studiosi russi, lo scienziato Kouznetsov e l’ex agente del Kgb Fesenko, hanno ricevuto notevole risalto sui media italiani. Peccato però che le loro smentite siano rimaste relegate alle riviste specializzate.

A prescindere dalla datazione, resta però aperto l’interrogativo su come la Sindone sia stata ottenuta. Ancora oggi non esiste una tesi definitiva, tra le molte avanzate, in grado di spiegare in modo conclusivo il procedimento usato. Vi sono le tesi più antiche, come quella vaporografica, che vede nella Sindone il prodotto di una reazione chimica tra il tessuto e alcuni aromi, completamente demolita da studi più recenti; è stata esclusa da quasi tutti gli studiosi anche l’eventualità che la sagoma umana sia stata dipinta, dopo aver constatato dopo accurate analisi l’assenza di pigmenti. Più recentemente è stato proposto il metodo della strinatura, ottenuto bruciando parzialmente il tessuto. Il procedimento permette di riprodurre l’immagine ma non l’effetto tridimensionale.

Il progresso più importante nel campo è però stato compiuto di recente dal professor Garlaschelli dell’Università di Pavia in collaborazione con il Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) e l’Uaar (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti). Il professore ha realizzato una copia della Sindone utilizzando mezzi potenzialmente accessibili ad un falsario del ‘300. Il risultato non è non poteva essere identico all’originale, ma ne riproduce alcune caratteristiche considerate irriproducibili, come l’assenza di pigmento o la tridimensionalità, utilizzando il metodo del bassorilievo in gesso, ossia strofinando con un tampone cosparso di ocra rossa un telo poggiato sul corpo di un volontario.

In conclusione si può dire che dopo la prova regina della datazione del Carbonio 14 ed altre dimostrazioni collaterali la tesi che difende l’autenticità della Sindone sia diventata, scientificamente parlando, completamente insostenibile. Sorprende l’accanimento di alcuni scienziati nel difenderla, soprattutto quando questo genere di miracoli, verso i quali persino la Chiesa si mostra molto prudente, nulla toglie e nulla aggiunge alla Fede del credente.

Filippo Bernasconi

16 aprile 2010

Quanto conosci Milano?

A Milano non abbiamo “solo la nebbia”, luogo comune molto diffuso, soprattutto negli stadi. Milano ha molti luoghi d’arte, visitati da turisti di ogni sorta e noti a tutti gli universitari. Ma la città nasconde molte altre bellezze, che spesso non vengono notate nel nostro camminare quotidiano con lo sguardo rivolto al marciapiede per evitare di pestare qualche “portafortuna canino”. Il Duomo, la Scala, il Castello, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Torre Velasca etc. sono ormai troppo conosciute per essere anche solo nominati. Sarebbe bello, invece, fare un giro turistico diverso dai soliti percorsi guidati, accompagnati da discorsi ammorbanti.

Per iniziare si potrebbe partire, zaino in spalla da vero turista, dalla nostra Università degli studi. Pochi accenni bastano per descrivere la Statale, un tempo sede dell'antico complesso della Ca' Granda come Ospedale Maggiore. L’ateneo di Milano viene istituito nel 1923 nell'ambito della riforma promossa dal ministro clip_image002[9]Giovanni Gentile; negli anni precedenti Milano faceva riferimento all’Università di Pavia. Il logo rappresenta la dea Minerva (la Sapienza) e sullo sfondo la città di Milano; la scritta disposta in cerchio recita “Universitas Studiorum Mediolanensis”.
Proseguendo a piedi, a pochi metri, troviamo piazza Santo Stefano. Qui sorge la Chiesa di San Bernardino alle Ossa, costruita nel 1269 in aggiunta alla camera destinata ad accogliere le ossa provenienti dal cimitero vicino – ai tempi l’Ospedale Maggiore era ancora attivo. Le pareti interne dell'Ossario, a pianta quadrata, sono quasi interamente ricoperte di teschi ed ossa, dando all’edificio quel senso di macabro mescolato all’arte rococò di fregi, porte e cornicioni.
In via Francesco Sforza è possibile ammirare un edificio poco comune: un tempio! Si tratta del Tempio Valdese, adattato ad una chiesa costruita su quel terreno anni prima. I fedeli appartengono ad una confessione protestante, il Valdismo.

Dirigendoci verso il Duomo, non si può mancare il passaggio in Piazza Sant’Alessandro. La piazza che accoglie la grande chiesa, seppure poco conosciuta (ma non dalla maggior parte degli universitari che frequentano la sezione di Studi Linguistici), è uno dei più begli spazi della vecchia Milano, non intaccati dalle ricostruzioni postbelliche. La chiesa viene costruita nel 1601, per volere dell’ordine dei Barnabiti e presenta una pianta centrale a croce greca coperta da cupola cui è aggiunto un secondo corpo minore, anch'esso sovrastato da una cupola, che funge da presbiterio. clip_image002[7]
Via Torino è poco distante. Famosa più per i negozi e le “mandrie” del sabato pomeriggio, in realtà questa via nasconde una perla di rara bellezza. La Chiesa di Santa Maria presso San Satiro, costruita tra il 1476 e il 1482, a pianta centrale, difetta di un quarto braccio, non costruito per la presenza di una strada assai frequentata (già allora!!). Ecco allora il colpo di genio: Bramante decise che il presbiterio ci deve comunque essere e fece costruire un finto spazio in prospettiva, con una volta in stucco, profondo soltanto 97 centimetri, ma in grado di suggerire una profondità molto maggiore, vero antesignano di tutti gli esempi di trompe l'oeil dei successivi sviluppi della storia dell'arte.

Se l’inganno ottico vi stuzzica, si può anche vedere il portone del Palazzo al civico 16 di Via Dante, certamente meno raffinato di un’opera del Bramante, ma degno di attenzione.

Percorrendo tutta via Torino, si arriva alle Colonne di San Lorenzo con relativa Basilica. Luogo molto noto, più per ritrovarsi a bere una birra in compagnia che per l’arte. All’interno della Basilica di San Lorenzo si può ammirare un arcaico Cenacolo, nel caso in cui siate impossibilitati a visitare quello in Santa Maria delle Grazie, visto che serve prenotare mesi prima. Il sito internet della Basilica descrive così questa “copia” : La pittura fu scoperta alla fine del 1800 mentre si lavorava alla base della parete per aprirvi una porta. (..) L’affresco, fu ritenuto una copia della “Cena” di Leonardo o addirittura la prima “Cena” di Leonardo anteriore, e perciò meno perfetta a quella dipinta per il Convento delle Grazie. Ma queste affermazioni cadono dinnanzi al fatto che Leonardo venne a Milano nel pieno rigoglio della sua attività artistica. Tuttavia il valore di questa pittura rimane elevato. Pur non presentando caratteri di originalità denota nell’ispirazione, nel disegno, nei clip_image002mezzi tecnici usati, un fine senso estetico che pone l’ignoto autore fuori dalla mediocrità. Merita il viaggio, anche perché non ci sono code e l’ingresso è gratuito.

Se tutta questa arte “antica” vi ha stancato, basta prendere la Linea 2 della Metropolitana nei pressi delle Colonne ( fermata Sant’Ambrogio) e scendere a Lambrate. In Via Predil, sulla massicciata della stazione è possibile ammirare una bellissima opera di street art realizzata da Blu. Il murales è immenso e si allunga su un muro ribaltando, in modo immaginifico, la gerarchia quotidiana del traffico cittadino: una marea di piccole macchine vengono schiacciate dalle ruote di ciclisti “ciclopi”.

Daniele Colombi

14 aprile 2010

EDITORIALE marzo 2009

Il vescovo emerito di Pistoia, Simone Scatizzi, ha dichiarato che ''la ostentata e dichiarata omosessualità impedisce l'amministrazione della comunione”.

L’uscita del prelato lascia in bocca quel senso di stupidità oleosa che ti stomaca per giorni.

Se però ci fermiamo un attimo a riflettere, la conclusione non è che una: il vescovo ha ragione. E non solo, ha ragione proprio in nome di quella laicità dello stato, che tutela l’indipendenza dalla Chiesa, ma anche della Chiesa.

Poco importa quindi se è di moda un cattolicesimo liquido, dove i dogmi vanno e vengono, scelti magari attraverso primarie tra i fedeli.

Disgraziatamente infatti la religione, per chi ci crede, è una verità rivelata, dove non c’è discussione ma al massimo interpretazione (basata sui testi, non su quello che “ci si sente dentro”). E un’interpretazione “pro-gay” del cattolicesimo è semplicemente folle.

Chi sbaglia quindi? Sbaglia chi non sceglie. Sbaglia chi pretende si possa essere contemporaneamente cattolici e rispettosi dei diritti umani in senso moderno; chi vorrebbe praticare l’omosessualità e allo stesso tempo ricevere l’eucarestia, cioè la vera carne del figlio di quel Dio che considera l’omosessualità “cosa abominevole” (Levitico 20:13)

Chi rispetta i gay quindi deve essere ateo? No, basta che non si dica cattolico, rinunciando a tutto quel gran varietà religioso fatto di battesimi, comunioni e pranzi che a noi italiani piace tanto. E finiamola per favore con certi fanta-cattolicesimi fai da te, che riescono nell’impresa di offendere sia chi crede sia chi non crede.

Filippo Bernasconi

11 aprile 2010

SOTTILE COME I SIMPSON, CAUSTICO COME SOUTH PARK

Intervista a Neri Marcoré, che ci parla di satira, democrazia e del suo
prossimo film

Ciò che spiazza e colpisce tanto di Neri Marcorè è il suo aspetto low profile: ha un atteggiamento timido, è alto, dinoccolato. Fissa il mondo dal suo metro e 88 con due profondi occhi scuri e un mezzo sorriso divertito. Sembra un pacifico impiegato con una leggera espressione sardonica sul viso. Poi ti sorprende con la sua straordinaria vivacità intellettuale, che emerge non solo durante gli sketch comici, ma anche quando parla, serafico eppure coinvolto, dell'attualità.
Ed è decisamente bravo, uno di quegli artisti polivalenti che molti sognano di essere: recita, canta, imita e, all’occorrenza, fa pure l’accompagnamento con la chitarra. Come ha dimostrato nel suo spettacolo “Un certo signor G.”, omaggio a Giorgio Gaber che lo ha portato in tournèe negli ultimi tre anni e che si è concluso il 2 aprile allo Streheler.
“In un qualche modo abbiamo restituito Gaber alla sua Milano” ha commentato Marcorè lo scorso 26 marzo, ospite in Statale per la terza edizione di “Lezioni d’artista”.

Lo abbiamo incontrato nel backstage; dopo aver firmato autografi e scattato foto ci ha concesso questa intervista.

La prima domanda è: a chi non piace Neri Marcorè? Anche i soggetti stessi delle tue imitazioni si sono rivelati tuoi fan, un esempio su tutti Gasparri. Senti per questo in qualche modo sminuita la portata satirica del tuo lavoro?
A parte che non è vero che piaccio a tutti: Capezzone ha detto che ho dato il peggio di me nella sua imitazione! E di Gasparri che devo dire? Se uno per convenienza o per autenticità si diverte all’imitazione che uno gli fa, beh, buon per lui e per qualsiasi modo la si voglia vedere.

Ma quindi ti senti artefice di una sorta di irrisione bonaria? Pensando alla tua recente imitazione della Binetti tanto bonaria non sembrerebbe...
Forse io posso confondere un po’, perché non ho uno stile aggressivo. Ma un conto è essere aggressivi e un conto è essere banali. Penso che si possa non essere aggressivi ma allo stesso tempo risultare efficaci, edificanti. È giusto avere dei toni più civili e smorzati, ma questo non significa essere più banali o democristiani.

Quindi satira graffiante o più bonaria? Insomma, meglio i Simpson o South Park (visto che li hai doppiati entrambi)?
Sono due tempi diversi, non si può scegliere, si è al cospetto di due modi intelligenti di fare satira o comicità. Perché insomma non tutti e due?

Alla manifestazione per la libertà di stampa hai letto un brano molto bello della Democrazia in America di Alexis de Toquieville, che diceva tra le altre cose: “Moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa, cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi” e qui credo che il collegamento con il presente sia lapalissiano. E ancora: “Il padrone non ti dice più: "Pensa come me o morirai"; ma dice: "Sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resterà, ma da questo istante sei uno straniero fra noi". Puoi dirci qualcosa a proposito di questa citazione?Grassetto
Beh, innanzitutto descrive un ricatto vigliacco perché dice “tu non pagherai per questa cosa ma ne subirai le conseguenze” che è molto più strisciante e meno diretto. E seconda cosa: le degenerazioni legate alla democrazia – perché di quello parlava appunto, della dittatura della democrazia – valgono al di là di qualsiasi tempo e di qualsiasi personaggio abbia il potere in quel momento.

È ovvio che leggendole adesso pensiamo a Berlusconi, però è proprio perché Berlusconi non rappresenta soltanto lui, ma tutte le possibili anomalie. Insomma, questo è un testo che ha 300 anni e quindi… se già a quel tempo o nell’antica Grecia c’erano testi che mettevano in guardia rispetto a queste possibili degenerazioni, vuol dire che questa cosa può succedere, che ci sono degli strumenti, delle dinamiche che fanno sì che questo avvenga e quindi che la Storia deve ancora una volta insegnare, che i saggi e i filosofi ci aiutano a riconoscere meglio le situazioni e ci forniscono un appoggio per decodificare meglio il presente. E poi dice anche che il popolo a cui si mettano a disposizione beni materiali sarà lui stesso per primo a rinunciare alla propria libertà e indipendenza, perché riesce comunque a ottenere la cosa per lui più importante: il benessere. Rinuncia spontaneamente perché dice “c’è qualcuno che provvede a me”.

A proposito di ruolo della cultura. Si parla di chiusura per il tuo programma di Rai 3 di "Per un pugno di libri". Confermi? Ennesima sconfitta della cultura in televisione?
Il programma non chiuderà, almeno non quest’anno. Io non mi sono stufato: l’ho condotto per nove anni, pensavo di farlo per un altro anno ancora e poi passare il testimone per dedicarmi a qualcosa di nuovo. Ma la rete, per logiche che non sta a me spiegare, mi ha detto che il programma non andrà avanti a lungo. A ottobre ricominceremo ma quanto possa avere vita non lo so. Personalmente, e parlo anche come spettatore, mi auguro che in TV possano continuare programmi che parlino di letteratura. “Per un pugno di libri” è un modo non noioso per farlo, spero non lo si voglia cancellare per fare spazio a un nuovo reality perché non ne sentiamo la mancanza!

Parliamo di cinema. Come attore hai rappresentato ruoli molto diversi: dal Papa all’angelo, passando per l’autistico e il gran seduttore. Come scegli i tuoi ruoli e i personaggi?
Un po’ anche in base a quello che non ho fatto. Dopo “Il cuore altrove”, per esempio, (il film del 2003 di Pupi Avati che ha rivelato il suo talento drammatico, ndr) mi sono arrivate molte proposte di personaggi simili. Secondo me sarebbe stato un errore accettarli, anche se potevano essere ben scritti. A fossilizzarsi su un solo tipo di personaggio poi la paghi. Una delle cose a cui cerco di stare più attento è proprio quella di smarcarmi, di non mettere mai due cose dello stesso colore vicine. Poi ovviamente decido anche in base a quanto è scritta bene una cosa, guardando non soltanto il mio personaggio ma l’insieme. Un personaggio può avere successo all’interno di un film solo se anche il film è scritto bene e recitato da attori bravi.

Quanto ti senti libero di esprimere il tuo lato comico e il tuo lato drammatico?
Non c’è un limite, mi vanno bene entrambi perché come nelle cose della vita, il comico e il drammatico sono sempre mescolati insieme, non ha senso dividerli. Un film eccessivamente drammatico sarebbe una noia mortale e uno solo comico sarebbe di una superficialità mortale. È quello che ci insegnavano i grandi maestri della commedia italiana: loro parlavano di un Paese con dei problemi forti, ma vi sapevano accostare situazioni leggere e battute. Quella è la nostra tradizione, è il motivo per cui molti film anche adesso hanno successo, perché anche adesso c’è chi sa fare bene questo lavoro.

Hai da poco finito di girare “La scomparsa di Patò”, puoi darci qualche anticipazione?

La storia è ambientata nel fine ‘800 e io faccio Patò, che scompare all’inizio del film; lo si vede solo in flashback e in pochi minuti all’inizio, ambientato nel presente. Non si sa se sia morto o no, lo si scopre alla fine.

Mi è sembrato un progetto interessante, la sceneggiatura era scritta da Camilleri (autore del romanzo da cui è tratto il film, ndr) e anche col regista Rocco Mortellitti mi sono trovato. Poi ho lavorato con Nino Frassica, Maurizio Casagrande… è stato un bel modo di coniugare tante cose positive insieme.


Nel rispondere, tra le righe, probabilmente senza nemmeno accorgersene, Neri Marcorè si lascia scappare quale potrebbe essere la condizione del povero Patò. Ma è talmente bravo che lo perdoniamo!

Laura Carli e Elisa Costa
Fotografie di Francesca Di Vaio

5 aprile 2010

Uno sguardo attraverso le crepe

da San Giacomo a Collemaggio


Ci sono tanti modi per raccontare la città de L’Aquila dopo la tragedia del terremoto del 6 aprile scorso. Può essere efficace iniziare con uno sguardo ai manifesti. Lungo le strade aquilane sono ancora frequenti i programmi della festività pasquali e gli avvisi di chiusura dei negozi: “Chiuso il 6 aprile, si riapre il…?”. Alcuni esercizi commerciali aprono le proprie pubblicità con un incoraggiamento: “Insieme a voi, per ricominciare”. Un cartello affisso su una vetrina offre un comodo servizio extra: “Parrucchiere con doccia”. Simbolo ricorrente è un cuore rovesciato, identificativo dell’azienda Sebach, che ha rifornito le tendopoli di bagni chimici.

La costanza delle immagini lascia presto spazio alla varietà degli stati d’animo della popolazione che, come dice un responsabile Caritas, “il terremoto ce l’ha dentro”, come se fosse un orologio biologico.

Una delle zone meno colpite dal sisma è la frazione di San Giacomo: molte case non hanno subito danni ingenti e la Protezione Civile ha allestito due tendopoli, una delle quali attrezzata per la mensa, l’assistenza sanitaria e lo spazio giochi per i bambini. È rilevante la presenza di anziani, che ai volontari chiedono principalmente compagnia ed ascolto, accompagnati dai sempre ben accetti pacchi di pasta. La Protezione Civile è affiancata in questo ed altri compiti da volontari delle più diverse provenienze, dalla Caritas a Rifondazione Comunista a Scientology. L’opinione generale nei confronti dei volontari è positiva, anche quando gli sfollati sfogano su di loro la propria frustrazione, con bestemmie che vengono ascoltate come fossero preghiere non canoniche.

Spostandosi nella località di Collemaggio ci si trova immersi in ben altra atmosfera: si tratta della zona del centro storico, che ha subito danni rilevanti ed è in maggior parte transennata. Nonostante le delimitazioni si può arrivare fino a piazza Duomo, meta di turismo macabro e di individui a caccia di telecamere. La cosiddetta zona rossa, comprendente la prefettura e la casa dello studente, è invece inaccessibile senza l’autorizzazione dei militari.

Anche a Collemaggio c’è una tendopoli, in una situazione particolarmente infelice. E’ allestita sul ciglio della strada, in curva, con le macchine che rallentano per gettare sguardi curiosi. Vige l’esplicito divieto di fare fotografie e i cani che hanno perso i padroni sotto le macerie girano soli sotto l’occhio dei volontari. Non è possibile entrare senza autorizzazione e da fuori si percepisce desolazione, come di fronte ad un campo profughi.

Le differenti situazioni in cui versano le località di San Giacomo e Collemaggio evidenziano come non si possa raccontare l’Abruzzo proponendo un’unica visione dei problemi, ma è invece necessario adottare uno sguardo più sfaccettato, evitando la genericità che a volte contraddistingue l’informazione sul tema.

Prendiamo ad esempio la parola “case”, tanto ricorrente quanto banalizzata. Occorrerebbe fare sempre alcuni distinguo: le case possono essere in muratura (crollate, rimaste in piedi o da ricostruire), in legno, le M.A.P. (Moduli di Abitazione Temporanea), alcune delle quali consegnate ad Onna il 15 settembre, e le cosiddette C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili), parte del progetto governativo che ne prevede la costruzione in diciannove aree della regione. Alcuni di questi complessi sono stati consegnati il 29 settembre ed il 15 ottobre e consistono in abitazioni-ponte tra le tende o M.A.P. e le case vere e proprie.

Sui M.A.P e i C.A.S.E fioccano le opinioni più disparate. Tre comitati cittadini hanno scritto una lettera al Presidente Napolitano nella quale spiegano che il progetto C.A.S.E costerà il triplo rispetto a ciò che sarebbe stato speso per costruire case di legno, che avrebbero invece evitato la dispersione delle comunità, una delle maggiori paure della popolazione. D’altro canto la rassegna stampa del sito della Protezione Civile evidenzia come molti abruzzesi abbiano accolto con favore il progetto, ed è evidente il sollievo di chi già vi abita. Ferma restando la difficoltà di trovare una soluzione che accontenti tutti, sarebbero auspicabili maggiori riflessioni sui motivi di questa discordanza di idee.

Le case rimaste in piedi sono classificate come “A”, agibile, “B”, che necessita di lavori, o “C”, che necessita di lavori maggiori. Vi sono poi le case “E”, inagibile, ed “F”, irraggiungibile.

Una ragazza di nome Isabella racconta che dopo il sisma ha comprato una roulotte dove dormire per un po’, nonostante viva in una casa di tipo “A”, per la paura di trovarsi nuovamente intrappolata tra le mura domestiche durante una scossa.

Una situazione paradossale è vissuta dai proprietari di case “B” e “C”, che ai primi di ottobre, sei mesi dopo il terremoto, non vedono ancora avviati i lavori di ristrutturazione delle loro abitazioni, le cui condizioni piuttosto sono in continuo peggioramento. Un volontario della Protezione Civile, Roberto, ci fa però sapere che le ristrutturazioni dovrebbero iniziare a giorni.

Ad aggravare ulteriormente la situazione è arrivato l’inverno, ma stando al Sottosegretario Bertolaso in primavera tutti dovrebbero avere un tetto sopra la testa. Fino ad allora, e per il tempo necessario a tornare alla normalità, per gli Abruzzesi la parola che avrà più senso e che meglio li rispecchia sarà il cosiddetto slogan della ricostruzione: “terremotosto”.

Alice Manti

(Articolo pubblicato sul numero di Vulcano di Settembre 2009)

2 aprile 2010

IL MOVIMENTO VERDE E I “GREEN DAYS”


L'Iran e la protesta degli studenti
Il Movimento Verde Iraniano è sicuramente un argomento complesso e delicato a cui la stampa italiana non ha dedicato sufficiente attenzione. Dopo un lungo colloquio con uno studente iraniano trasferitosi in Italia, M.S., sono emerse dinamiche e problematiche molto interessanti e credo ignorate da molti dei lettori che si cibano delle notizie diffuse dalle pubblicazioni nazionali.

Innanzi tutto, mi pare logico iniziare con la domanda più ovvia:Cosa è il Movimento Verde?

È bene chiarire che non si tratta di un movimento strutturato, ma spontaneo, nato all’indomani delle elezioni presidenziali del 13 giugno, (quelle che riconfermarono il potere al presidente Mahmud Ahmadinejad, a scapito del leader riformista Mir-Hossein Mousavi), in un clima già di fermento, come forma di protesta contro i presunti brogli elettorali. Da allora il movimento ha acquisito sempre più popolarità rafforzandosi e costruendosi progressivamente nell’azione di piazza.

Dopo lo spoglio delle schede elettorali, molte sono state le occasioni per gli oppositori di tornare a manifestare, sfruttando le ricorrenze legate al regime e agli anniversari religiosi o utilizzando date indipendenti. Tra queste ultime è necessario ricordare le celebrazioni del 7 dicembre nelle Università iraniane, in ricordo dei tre studenti uccisi nel 1953 dalla polizia dello Scià. La Giornata dello Studente doveva essere la prova di forza del movimento e un’occasione per coinvolgere una più ampia fascia della popolazione. Non solo studenti, intellettuali e dissidenti, ma anche quella classe media, individuabile nella concezione più ampia di “popolazione lavorativa”, rimasta estranea alla protesta e non tutelata da alcun tipo di istituzione sindacale. Una partecipazione massiccia avrebbe significato un’importante presa di posizione, destabilizzando l’equilibrio sociale interno: il presupposto per una vera e propria rivoluzione, accompagnata dal ricordo e dalle istanze (ridistribuzione delle ricchezze, democrazia, giustizia sociale) di quella del 1979, ma rompendo con le vecchie ideologie.

Speranze disilluse. L’utilizzo dei Basiji (milizie volontarie controllate dalla Guardia Rivoluzionaria, i Pasdaran), e una più limitata libertà di informazione, sono i segnali di un regime sempre più compatto e risoluto nella repressione del dissenso.

Il movimento però resiste e giorno dopo giorno prende coscienza di sé e dell’incompatibilità con il sistema.

L’eterogeneità del movimento introduce un’altra questione: cosa lo tiene compatto?

“Si tratta di un movimento contro la dittatura – sottolinea M.S. – che prende coscienza di sé giorno dopo giorno, sicuro della propria incompatibilità con il regime”. Un regime che, attraverso le politiche, perpetua la forza della propria nomenclatura. Un sistema che ha contribuito ad accrescere il ruolo sociale, politico, economico dei Pasdaran, detentori delle risorse finanziarie del Paese e di circa un terzo dell’economia iraniana. Secondo M.S. qualora si riuscisse a sovvertire l’ordine esistente e i riformisti si trovassero al governo, poco potrebbero contro la politica dei sussidi di Stato. Questo evidenzia le complessità e le ambiguità del movimento: rivoluzionario, perché teso a sovvertire il regime, riformista perché i leader a cui esso si riferisce sono comunque legati agli ideali dell’Ayatollah e della Repubblica Islamica. Mousavi, Karrubi e Khatami, gli ispiratori dell’Onda Verde, sono infatti ex funzionari di Stato ben inseriti nella struttura istituzionale. D’altra parte c’è la necessità di legarsi a figure di riferimento, adatte a creare le basi politiche su cui costruire un nuovo potere.

Per il momento non ci resta che mantenere viva l’attenzione su ciò che sta accadendo e seguirne gli sviluppi.

Michela Giupponi

Green Days è il titolo della docu-fiction della regista iraniana Hana Makhmalbaf, presentata nella sezione Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.