18 dicembre 2008

NON CHIAMIAMOLA RIFORMA


Legge 133/2008. Questo il movente ufficiale delle ultime e pressanti mobilitazioni e prese di posizione che hanno visto protagonista il mondo accademico nostrano. Non si tratta propriamente di una riforma universitaria, ma della legge approvata nell’agosto 2008 relativa ai programmi per il triennio 2009-2011 in materia finanziaria, entro cui si inseriscono provvedimenti che toccano direttamente la natura delle istituzioni universitarie e del corpo docente. L’iter legislativo della 133 ha visto l’approvazione del preliminare Decreto Legge 112/2008, che ne anticipava sostanzialmente i contenuti. Su proposta del Ministro del Tesoro Tremonti, il Consiglio dei Ministri ratifica quindi il 25 giugno il decreto, recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria.

Vediamo nello specifico di cosa si tratta.
ART 16: Facoltà di trasformazione delle università in fondazioni.
Cit:"le Università pubbliche possono deliberare la propria trasformazione in fondazioni di diritto privato. La delibera di trasformazione è adottata dal Senato accademico a maggioranza assoluta. [...] Le fondazioni universitarie subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell’Università [...]. Le f.u. sono enti non commerciali e perseguono i propri scopi secondo le modalità consentite dalla loro natura giuridica e operano nel rispetto dei principi di economicità della gestione. […] Eventuali proventi, rendite o altri utili derivanti dallo svolgimento delle attività previste dagli statuti delle f.u. sono destinati interamente al perseguimento degli scopi delle medesime". E ancora: "i trasferimenti a titolo di contributo o di liberalità a favore delle f.u. sono esenti da tasse e imposte indirette e da diritti dovuti a qualunque altro titolo e sono interamente deducibili dal reddito del soggetto erogante. [...] Le f.u. hanno autonomia gestionale, organizzativa e contabile. La gestione economico-finanziaria delle f.u. assicura l’equilibrio di bilancio".
Non è chiaro, però, fino a che punto questa autonomia vada a incidere sulla qualità e l’indirizzamento della ricerca e le ripercussioni che questa scelta possa avere sia sulla governance che sul sistema di finanziamento degli atenei.

ART 66: Turn over
Cit:"le amministrazioni provvedano, entro il 31 dicembre 2008 a rideterminare la programmazione triennale del fabbisogno di personale in relazione alle misure di razionalizzazione, di riduzione delle dotazioni organiche e di contenimento delle assunzioni".
Per il triennio 2010-2012 gli enti di ricerca possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato che non può in ogni caso eccedere le unità cessate nell’anno precedente, con una riduzione del turn over pari al 20% nei prossimi tre anni. Questo comporterà una notevole diminuzione del personale docente negli atenei, o quanto meno un’assenza di rinnovamento del corpo docente italiano - già gravato da una anzianità elevata – consentendo una sola nuova assunzione ogni 5 pensionamenti.


Solo recentemente, il Governo ha preso provvedimenti per alleggerire il peso del turn-over per alcuni casi specifici. Infine, elemento portante della legge 133 è, da qui al 2013, la riduzione dei fondi destinati ad università e ricerca per un taglio complessivo di 1441,5 milioni di euro.
Il provvedimento governativo è stato subito accolto da pareri contrastanti. Buona parte del mondo accademico ha dimostrato perplessità nei confronti dell’intervento. Di natura strettamente economico-finanziaria, la misura è stata espressamente apportata dal Governo allo scopo di risanare il deficit di bilancio determinato dall’abolizione dell’Ici anche per i ceti più abbienti. Giustificata, inoltre, con la volontà di riassestare l’inefficiente sistema universitario, si realizza nel concreto come una serie di tagli indiscriminati, in assenza di alcuna progettualità riformatrice.
Secondo la CRUI (Conferenza dei rettori italiani), conseguenza del nuovo panorama realizzato dal Governo sarebbe il peggioramento del livello di funzionalità delle Università e la crescente difficoltà nel reggere la concorrenza/ collaborazione in atto a livello internazionale. In una nota approvata all’unanimità, la Conferenza dei Rettori ha lanciato l’allarme sulla situazione drammatica in cui versano le università italiane, che ad oggi rischiano il rosso in bilancio. Nel documento, indirizzato al ministro Gelmini, i rettori hanno ricordato che i nostri atenei "sono strangolati e rischiano di non poter pagare neppure le retribuzioni del personale.[…] Non è più sopportabile l’azzeramento dei finanziamenti per l’edilizia universitaria che impedisce sia l’avvio di nuove realizzazioni, funzionali alla didattica e alla ricerca, sia la semplice manutenzione delle strutture esistenti".

Nel caso del nostro Ateneo, ad esempio, secondo quanto riferito dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, a partire dal 2010 non si saprà come chiudere il bilancio. L’alternativa proposta dalla finanziaria stessa, la facoltà di trasformazione delle università in fondazioni di natura privata, non pare al momento fattibile, già solo per l’incapacità della struttura produttiva italiana di sostenerne i costi.
Alcuni docenti, tra i quali figurano illustri ordinari e rettori della Sapienza, delle Università di Torino, Napoli, Padova, Catania e Teramo, sono scesi in piazza lanciando un appello per contrastare i provvedimenti governativi che, sostengono, impoveriscono economicamente e culturalmente l’Università: "si tratta di misure che […] restringono lo spazio vitale dell’Università sancendone l’emarginazione irreversibile nella vita del Paese. Non viene soltanto auspicata la ritirata dello Stato dalle sue funzioni storiche nel garantire la formazione superiore e la riproduzione delle sue classi dirigenti [...] significa condannare tanto le Università pubbliche che private a un sicuro destino di irrilevanza."

Pare dunque lecito domandarsi: Ci sarà ancora spazio, nell’università della 133, per quel settore della ricerca che non produce risultati "economicamente rilevanti"? Come potrà essere garantito a tutti il diritto ad un’istruzione superiore e di qualità? E ancora: perché in un momento di recessione non investire proprio nell’Università come propulsore di uno sviluppo che permetta l’uscita dalla crisi?

Giuditta Grechi, Silvia Valenti, Laura Carli

12 dicembre 2008

STATALE OKKUPATA?


Il programma della mobilitazione previsto per la serata di oggi, 12 dicembre, è saltato. Nell’intenzione dei promotori, il corteo organizzato in concomitanza allo sciopero generale indetto da Cgil, al ritorno in Festa del Perdono sarebbe dovuto sfociare nell’occupazione dell’ ateneo, da realizzarsi con una serie di iniziative che spaziano da assemblee e rievocazioni della strage di Piazza Fontana (di cui oggi è l’ anniversario), a un concerto di band universitarie.
Il definitivo annullamento della serata prevista è stato l’epilogo di una giornata già iniziata questa mattina con la divisione degli studenti in due cortei: 40 dalla parte di Via Festa del Perdono, 70 dall'altra. Un corteo numericamente esiguo decide di frazionarsi ulteriormente. Durante il ritorno in Università si innesca uno scontro tra due delle fazioni più attive. Sembra che la controversia, inizialmente scoppiata come rissa tra singoli soggetti, abbia avuto origine dal tentativo di occupare l’Aula Magna. Mentre un'assemblea organizzata e autorizzata doveva svolgersi in un'aula, l'atrio è stato teatro di scontri e disordine, e nel frattempo la porta d’ingresso dell’Aula Magna veniva in parte scassinata. E' a questo punto che si consuma la frattura fra gli organizzatori delle iniziative: una parte abbandona subito la Statale, in segno di dissociazione, lasciando al loro destino tutte le iniziative in programma. Rimane solo una frangia a presidiare l'auletta precedentemente occupata, di fianco agli uffici al piano terra, incapace numericamente e strategicamente di portare a termine il programma di eventi previsto. Nelle ore successive si è parlato di sgombero, di sicuro al moment c'è solo la convocazione di un'assemblea prevista per lunedi prossimo alle 14 per discutere dei fatti accaduti. Forse si tratta di una sconfitta per la mobilitazione studentesca che, partita a Ottobre all'insegna di grande partecipazione, ha subito oggi l'incapacità da parte degli organizzatori, che pure hanno avuto tanto credito dalle istituzioni universitarie, di realizzare in Università un evento aperto alla città, e in particolare di gestire la presenza delle diverse fazioni in campo.

5 dicembre 2008

Rokia Traorè: la sirena del Mali



Delle sirene, quegli splendidi e pericolosi animali mitologici che la tradizione ha tramandato sino ai giorni nostri, la cantante e musicista maliana Rokia Traorè ha pressoché tutto. In primis, una bellezza fisica stordente, che par celare un segreto inafferrabile, nella sua completezza. Delle sirene, Rokia ha anche una voce divina che, -c’è da scommetterci- sarebbe capace di far naufragare anche i moderni marinai. Scherzi a parte, Rokia è davvero un’artista con una marcia in più, perché non si limita a proporre al pubblico occidentale la musica cara alla propria tradizione. A differenza di quanto faceva, ad esempio, Ali Farka Tourè, il più grande e rimpianto chitarrista blues africano (che peraltro ha anche il merito di aver scoperto la Traorè), Rokia non mostra interesse verso operazioni di recupero, propriamente filologiche. Alla nostra non è sufficiente mettere insieme un paio di tamburi tindè e accordare la propria voce agli strumenti a corda tipici del Mali. La nostra sirena fa molto di più. La nostra sirena inventa linguaggi, incrocia generi, fa sintesi. Per dirla meglio: Rokia ha vissuto e continua a vivere il fenomeno della globalizzazione (non solo in ambito musicale), in maniera tutt’altro che passiva.

Per lei, ascoltare Machine Gun di Hendrix o Jammin’ di Bob Marley non significa subire un vero e proprio e choc, come era accaduto, per esempio, in un paese come il nostro tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Per la giovane e sensibile artista maliana, invece, ascoltare Hendrix o Marley, (ovviamente i due nomi hanno qui una funzione puramente metonimica) non è un’assoluta scoperta. Tale evento, piuttosto, fa subito scattare in lei un meccanismo memorativo di riconoscimento. Si materializza così un filo rosso che sprofonda le radici nell’infinito e ancestrale tempo dell’Africa. Un’Africa che qui non può che finire col coincidere con quella “Grande Madre” da cui tutto ha avuto inizio. Si è andati lontani, forse troppo. Torniamo alla nostra umile presentazione di Rokia Traorè. Si diceva giustamente del rapporto eterodosso che lega Rokia alla tradizione musicale del Mali, perché è innegabile che la ricerca che propone parta inequivocabilmente dai suoni di quella storia. Rokia non rinnega nemmeno per un attimo quei quattro quarti che anzi elegge a veri e propri pilastri della sua musica. Semplicemente, la Traorè si è accorta dello straordinario viaggio che il blues e le sue successive modificazioni genetiche hanno compiuto in giro per il mondo. La nostra ha studiato con commovente umiltà e sincera passione per la conoscenza la storia della musica afro-americana ed ora non dimostra di conoscere a menadito i frutti della pianta del blues. Nei suoi dischi sembra spesso voler ripercorrere l’itinerario che la cosiddetta “musica del diavolo” ha effettuato, cullato dalle limacciose del Mississipi: dalle gigantesche piantagioni dell’Alabama o della Georgia, alle metropoli di Memphis e Chicago.

E’ solo tenendo a mente tutto questo che si comprende la profonda passione, o meglio, la quasi venerazione che Rokia nutre per Jimi Hendrix. E’ solo a questo punto che si intuisce la profonda importanza ideologica che si cela dietro alla scelte di cantare servendosi degli idiomi più diversi. Del resto né l’inglese, né il francese, né l’africano, né altre lingue, sono la Lingua del Mondo. È piuttosto dal loro incontro che può nascere un frutto artistico universalmente godibile. Un frutto che ogni paio di orecchie declinerà in maniera diversa e che forse finanche capirà in maniera diversa. Ma tutte queste diversità non sono poi così importanti, sembra sussurrarci implicitamente Rokia, che ormai vive da anni in Francia, dove produce e incide i propri dischi. Piuttosto, tali diversità possono divenire non solo importanti, ma anche funzionali nella prospettiva di un arduo ma fascinoso superamento delle stesse.

La musica di Rokia, è una musica delle minoranze, una musica di riflusso. Una musica che il miope orgoglio autoriale non riesce a scalfire. Questa musica restituisce alla collettività del popolo africano, (in questo senso più che mai ampliato) tutto quello che in secoli di vite, gioie e patimenti è stato partorito. Nel canto della splendida Rokia c’è dunque il sublimato sostrato culturale di un continente intero. Il suo lato tragico, il suo lato comico e la loro sintesi etica ed estetica Questa sintesi altro non è che la consapevolezza dell’esistenza di una “ricchezza collettiva”. Insomma, le diversità sono, secondo Rokia, motivo di imperdibile ricchezza. Nella sua musica, che ci piace presentare come alternativa al montaliano “male di vivere”, così, non possono non essere intraviste queste splendide parole dello studioso Albert Jachard: “l’altro, come individuo o come gruppo, è prezioso nella misura in cui è dissimile”. Rokia è dunque una sirena moderna, la cui funzione è diametralmente opposta a quella che la mitologia tradizionale affidava a questi esseri. Più che far perdere il senno e la via, la Traorè sembra volerci aiutare ad orientarci. Dapprima oscura e poi luminosa, come una stella vespertina.

Davide Zucchi

2 dicembre 2008

1 dicembre 2008

QUESTO MATRIMONIO NON S'HA DA FARE?

I primi di giugno a Viterbo si è consumata una storia di ordinaria intolleranza. Forse non così ordinaria, dato che il gesto di discriminazione proviene da chi predica la tolleranza come valore.
Il caso del ragazzo rimasto paralizzato a due mesi dal matrimonio e che decide di procedere ugualmente, senza nemmeno rimandare le nozze, è già commovente. La trama però si colora di tristi tinte dickensiane quando la giovane coppia si trova davanti un ostacolo imprevisto: “Questo matrimonio non s’ha da fare”, dice il vescovo di Viterbo. La motivazione? Il ragazzo non è più in grado di farsi onore perpetrando la specie. La sensibilità collettiva rimane turbata, mentre la Curia si difende sostenendo che si è trattato di una decisione obbligata, conforme ai dettami del magistero cattolico. Questo arroccamento dottrinale, oltre a danneggiare la coppia, rischia di riportare in auge il crudele concetto di malattia e deformità percepite come colpa e, soprattutto, non corrisponde al sentire dei fedeli, sempre più inclini ad un cattolicesimo “liberal”, se non critico. Lo strapotere della Chiesa è indubbio, forte anche del gran numero di fedeli su cui dice di contare. Ammettiamo pure che la mentalità italiana sia inevitabilmente intrisa di cattolicesimo, ammettiamo che il novanta percento della popolazione italiana sia, talvolta suo malgrado, battezzata; mi chiedo però quanti si sentano realmente rappresentati da un’istituzione religiosa così arroccata nella difesa del diritto divino da negare un estremo atto di pietà (penso al caso di Welby), o un significativo gesto di vicinanza a dei giovani che hanno già sofferto molto? Ai cattolici l’ardua sentenza.

Laura Carli

SE POTESSI MANGIARE UN’IDEA


9 dicembre 2008 - ore 17.00 Università degli studi di Milano - Aula Magna Festa del Perdono


SE POTESSI MANGIARE UN’IDEA. GIOELE DIX RACCONTA GABER

con Gioele Dix, produzione Fondazione Giorgio Gaber.

È tra i principali obiettivi di ‘Milano per Gaber’ la divulgazione della figura e dell’opera dell’artista soprattutto tra il pubblico giovanile e studentesco. In questa direzione si inserisce la proposta ‘Se potessi mangiare un’idea – Gioele Dix racconta Giorgio Gaber’ programmata martedì 9 dicembre 2008 alle ore 17.00 presso l’Aula Magna dell’Università Statale. L’evento, anche in considerazione del contesto accademico nel quale è presentato, si caratterizza come una vera e propria ‘Lezione – Spettacolo’, nel corso della quale Gioele Dix ripercorre le tappe più significative dell’opera del Signor G, attraverso l’esecuzione di vari brani musicali, accompagnati da un’articolata e approfondita elaborazione teorica sull’importanza e l’attualità della figura di Gaber. Gioele Dix, ideatore dell’iniziativa, è uno dei più importanti interpreti e autori del teatro italiano. I suoi spettacoli, spesso premiati con il ‘biglietto d’oro’ dell’Agis, si inseriscono a pieno titolo tra le opere più significative della drammaturgia contemporanea , capaci di avvicinare il pubblico più giovane alla nobile e insostituibile arte del teatro.


INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI

30 novembre 2008

L' INFORMAZIONE AI TEMPI DELLA RETE


Supermedia onnivoro, la rete ingurgita, digerisce, trasforma i media tradizionali, preoccupati ormai più di sopravvivere che di evolvere. Ed è l’informazione a passare per prima tra le sue grinfie: sta mutando in senso più partecipativo, quasi artigianale. Qualcuno lo pensa seriamente: presto i giornali non esisteranno più. Addirittura l’Economist ne previde la fine per il 2043. Congetture azzardate, certo, ma qualcosa di nuovo sta accadendo e fa leva sui blog e sul giornalismo autogestito.


Quei diari online, in cui l’autore pubblica pensieri, opinioni, esperienze in maniera assolutamente semplice e immediata, lasciando ai lettori la possibilità di commentare e replicare, appaiono per la prima volta nel 1997. La loro diffusione è cresciuta in maniera esponenziale. Si stima che la blogosfera, cioè l’insieme di tutti i blog, raddoppi le sue unità ogni cinque mesi, anche se soltanto il tredici per cento di esse viene aggiornato almeno una volta a settimana. Una selezione naturale fortissima vige, perciò, all’interno di questo mondo: se nasce circa un blog ogni secondo soltanto alcuni sopravvivono e possono ambire a un discreto successo. La loro importanza tende, comunque, a dilatarsi e, secondo le previsioni, in pochi anni domineranno le classifiche dell’autorevolezza tra le pagine web dedicate all’informazione. Le testate giornalistiche corrono ai ripari: se hanno iniziato creando una versione online dei fogli stampati, aggiungendovi poi nuovi servizi per renderne più interattiva la consultazione, adesso equipaggiano di blog i loro più importanti cronisti e opinionisti. Una parte importante dei diari attivi, infatti, è dedicata alla politica e alla società, guarda cioè ai tradizionali lettori dei quotidiani, i quali trovano soddisfazione anche nella lettura dei blog.


Diversi fattori favoriscono l’espansione dei diari telematici: i bassissimi costi di produzione, pubblicazione e aggiornamento; la mancanza di qualsiasi mediazione editoriale e di filtri sui contenuti; la grande interagibilità con i lettori. Il binomio editore-pubblicista è, insomma, completamente scisso. E molti, anche in Italia, hanno smesso di snobbarli. Alcuni, come Beppe Grillo e Marco Travaglio, ne hanno fatto la base operativa per degli imponenti movimenti d’opinione o politici.


Quale futuro, quindi, per l’informazione? Prevedere se i quotidiani scompariranno non è certo facile. Si è vero, cresce sempre di più l’informazione collaborativa – il cosiddetto citizen journalism; molti blogger si pongono come opinion leader di fama internazionale e l’informazione e l’editoria cercano sempre più di ristrutturarsi e di adattarsi, ancora con grandi e crescenti difficoltà, ai nuovi mezzi. Ma bisogna riconoscerlo: i nuovi canali forniscono per lo più un’informazione parziale e incompleta. E allora, anche se prevale tuttora una certa contrapposizione, ci si può avviare verso una fase di complementarietà: i blog possono essere utili solo in quanto integrano e controllano l’informazione tradizionale, sembra alquanto difficile che possano sostituirla. Il nostro Paese offre un terreno molto fertile per uno sviluppo in tal senso: la maglia nera sulla libertà di stampa in Italia sembra trovare una costruttiva opposizione nel giornalismo autogestito, anche se i quotidiani si ostinano a non riconoscerlo e ad ignorare il fenomeno.

Danilo Aprigliano

23 novembre 2008

BATTESIMO ADDIO!


In aumento il numero di “sbattezzati”: da internet scaricati oltre 30.000 moduli per non far più parte della chiesa cattolicaForse anche per questo nel 1986 è nata l’Uaar, Unione Atei e Agnostici Razionalisti, associazione che oltre a tutelare la libertà di religione, è fra le poche a battersi anche per la libertà dalla religione.Una delle iniziative di maggiore successo è stata l’introduzione del, così detto, “sbattezzo”. Ne abbiamo parlato con Massimo Redaelli, dottorando di ingegneria e membro del circolo milanese dell’Uaar.


Innanzitutto cos’è lo sbattezzo, quali sono i suoi effetti e come fare ad ottenerlo?

Dal 1999 il garante della privacy ha concesso, ai battezzati che lo desiderano, la possibilità di far annotare nei registri della parrocchia la volontà di non far più parte della Chiesa Cattolica. Gli effetti sono la scomunica latae sententiae, ossia senza che debba essere pronunciata, e quindi l’impossibilità di essere testimone di nozze o di battesimo (sarebbe in effetti abbastanza ridicolo), e di ricevere l’estrema unzione. Lo sbattezzo si ottiene inviando una raccomandata alla propria parrocchia.Gli effetti spirituali, sostanzialmente la cancellazione del peccato originale, sono invece ineliminabili. Per chi non crede di essere colpevole per una mela o altro frutto proditoriamente mangiato da Adamo, questo non dovrebbe essere un grosso problema.


E’ proprio questo il punto: chi, comprensibilmente, non crede nella dottrina della Chiesa, che bisogno ha di sbattezzarsi? Non potrebbe semplicemente continuare a non credere?

In Italia il Vaticano esercita, di fatto, un potere temporale. Questo avviene perché la Chiesa può vantare un altissimo numero di presunti cattolici, calcolati in base soprattutto al numero dei battezzati (che supera il 90%). Quanti di questi sono realmente credenti? Molto meno. Quanti poi si sentono vincolati all’insegnamento di Santa Madre Chiesa? Quasi nessuno, specialmente tra i politici che difendono i “veri valori”.Immagini se tutti quei battezzati che hanno abbandonato la Fede o sono contrari al potere temporale della Chiesa, si sbattezzassero: i cardinali che vogliono dettare l’agenda politica avrebbero vita molto più difficile. Per questo l’Uaar parla di “bonifica statistica”.


Non sarà magari vero, come cantava ironicamente Giorgio Gaber, che “la Chiesa si rinnova per salvar l’umanità”, ma va riconosciuto che ha fatto notevoli passi in avanti per restare al passo coi tempi. Da dove deriva tutta questa ostilità nei confronti della Chiesa d’oggi?

Sicuramente la situazione negli ultimi decenni è molto cambiata. Pensi che nel ’58 il vescovo di Prato insultò dal pulpito due coniugi che avevano scelto di sposarsi col rito civile, definendoli “peccatori e pubblici concubini”, negando poi i sacramenti a loro e ai loro genitori. Oggi i due si sarebbero fatti una bella risata, ai tempi invece persero gran parte della loro clientela (erano commercianti), vennero insultati e addirittura il marito fu malmenato. Denunciarono l’alto prelato, ma ottennero solo un risarcimento simbolico, che fece però parlare il Vaticano di “deriva laicista”, fino all’assoluzione in appello.Tutto ciò oggi non sarebbe più possibile. Ciò non toglie che in Italia governi di sinistra non riescano ad approvare leggi morbidissime sulle unione civili, mentre in paesi cattolici come la Spagna addirittura la destra, vincendo, si sarebbe limitata a cambiare nome al matrimonio gay.Non parliamo poi dei fondi statali che vanno ad ingrassare un’istituzione già ricchissima: in tempo di dichiarazione dei redditi vale la pena spendere due parole sull’8 per mille. Forse non tutti sanno, infatti, che quella quota di imposta di chi non esprime una preferenza (la netta maggioranza) viene comunque riscossa. Queste poi sono ripartite in base alle preferenze espresse dagli altri contribuenti. Ovviamente la Chiesa batte Valdesi, Testimoni di Geova e pochi altri, accaparrandosi circa mezzo miliardo di euro “senza preferenza”. Come se non bastasse, lo Stato utilizza buona parte dei fondi ad esso destinati per il restauro di edifici di culto. A livello personale mi aveva poi spinto ad aderire all’Uaar la vicenda di Piergiorgio Welby (malato terminale di sclerosi deceduto poco più di un anno fa, al quale non vennero concessi i funerali religiosi, richiesti dalla moglie cattolica, per aver scelto di morire mediante eutanasia. ndr): non capisco come una credo personale, irrazionale e soggettivo, possa condizionare la vita di altri.


Va bene, ma parliamoci chiaro: non sarà certo un gesto, lo sbattezzo, che a molti pare una goliardata, a cambiare questo stato di cose.

Certo non spero che quel 70% di italiani non praticanti decida di sbattezzarsi. Ciò non toglie che il fenomeno ha ormai una certa rilevanza: dal nostro sito, www.uaar.it, sono stati scaricati oltre 30.000 moduli appositi. A livello nazionale poi, si sta organizzando una grande manifestazione di sbattezzo collettivo in ogni città. Si trovano informazioni all’indirizzo www.uaar.it/milano.


Un’ultima domanda: molti parlano degli atei come di sacerdoti della non fede, come integralisti della laicità, in tutto simili a preti e imam. Cosa risponde?

Non credere, come è evidente, è ben diverso dal credere. Chi crede, a torto o a ragione, ritiene di non aver bisogno di prove oggettive per dirsi certo della sua Fede. Non sorprende questo porti agli integralismi: trovo molto difficile un dialogo tra chi esprime due certezze contrapposte basate su fumose esperienze personali, senza appigli oggettivi.L’atteggiamento di chi non crede è ben diverso: egli non è affatto certo che Dio non esista, ma semplicemente constata come non ci sia alcun buon motivo per credere nella sua presenza reale. Coerentemente rispetta le convinzioni intime e personali delle altre persone, ma pretende che queste non influiscano sulle leggi che devono valere per tutti.


Filippo Bernasconi


21 novembre 2008

QUANDO CHIUDE UN CORSO

a cura di Davide Bonacina, Virginia Fiume, Denis Tivellato

E’notizia di qualche mese fa: il corso di Teorie e tecniche multimediali dell’immagine e della comunicazione, insegnamento della triennale di Scienze della Comunicazione tenuto dal Prof. Capano e dalla Dott. Naldi, è stato cancellato. Negli ultimi anni, qui in Statale, non è la prima volta che accade che un corso venga chiuso: gli universitari di vecchia data ricorderanno un corso di Storia della Fotografia, molto apprezzato da tanti studenti, ma tuttavia annullato. Quali sono, quindi, le modalità di chiusura dei corsi? Chi decide? Quali sono gli organi universitari consultati?
Partendo dagli ultimi accadimenti, cerchiamo di spiegarlo in questa inchiesta.


IL CASO CAPANO

Giuseppe Alonzo, Rappresentante degli studenti al Consiglio di Facoltà di Lettere e Filosofia, ci spiega che già da tempo era cominciata a circolare una voce circa la sospensione del corso in questione. Le motivazioni addotte sono state le più diverse. La prima, ripetuta anche dalla Prof. Bonomi (direttrice del corso di laurea in Scienze Umanistiche per la Comunicazione) a Fanny Papa, rappresentante in consiglio di facoltà (C.D.F.) di Scienze della Comunicazione, venuta a chiedere spiegazioni circa la cancellazione del corso, è stata l’istituzionale “mancanza di fondi per tenere in vita l’insegnamento”. Plausibile e chiara. Ma come mai si è giunti alla sospensione proprio di quel corso? E qui veniamo alla seconda causa. L’insegnamento faceva parte del settore SPS/08, Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Del settore si è parlato in C.d.F, nel quale il Prof. Bosisio ha accennato ad un cambiamento di nome del C.d.L in Scienze dello spettacolo e della comunicazione multimediale, che dovrebbe diventare semplicemente “Scienze dello Spettacolo”. Questo cambiamento è riconducibile ad una volontà d’abbandono progressivo della multimedialità, che il nostro Ateneo sta considerando perché “non competitivo” in quel campo con le altre Università. All’interno di questo settore, già sovraccarico, il prof. Capano era uno dei professori di più basso grado, dato che era a contratto e non di ruolo (la sua cattedra è allo IULM). E pure il Prof. Franzini, preside della Facoltà, ha sempre dichiarato che ogni nuova attivazione può essere fatta solo se a costo zero. Tutto questo può avere concorso alla cancellazione (speriamo comunque non definitiva) del corso.

Abbiamo tentato di tracciare il percorso tipico di un corso che viene cancellato. Tuttavia, la questione è molto fumosa e il giro molto ampio e complesso, dunque le seguenti sono indicazioni di massima. Consiglio di Amministrazione (C.d.A). E’ il luogo dove si valuta come e dove distribuire il budget a disposizione dell’Università. Presidenza di Facoltà. Dove vengono fatti i conti, si decide il budget destinabile a ciascun C.d.L, si valuta soprattutto se c’è un ammanco di soldi ed eventualmente come porvi rimedio. Consiglio di Facoltà (C.d.F) e Consiglio di Coordinamento didattico (C.C.D). E’ il cuore decisionale. Qui la presidenza di Facoltà e i membri dei consigli stessi propongono le loro soluzioni, come la sospensione di un corso. Senato Accademico. La fase finale, dove viene sancita (o negata) definitivamente la sospensione del corso.

Davide Bonacina



VOX POPULI: LE VOCI FRA GLI STUDENTI

“Durante le lezioni abbiamo affrontato, sotto la guida dei professori, le esperienze artistiche di maggiore contemporaneità e sperimentazione, tenendo come punto di riferimento la Biennale di Venezia degli ultimi anni”. Un insegnamento molto apprezzato, aule piene ed esubero di tesisti. Chiude i battenti il “corso a contratto” di “Teorie e Tecniche Multimediali dell’Immagine e della Comunicazione Visiva”.

Lo scorso 4 ottobre, l’aula 23 di via Mercalli presentava un seguito capiente di studenti pronti a sostenere l’esame. Si parla con qualche studentessa e si percepisce la grande passione e il grande entusiasmo che ha suscitato in loro il corso. Mi riferiscono di averlo seguito con interesse e del loro dispiacere nell’aver appreso che, per il nuovo anno accademico, il corso non verrà riproposto. Alcune avrebbero voluto laurearsi con il prof. Capano ma, dato l’esubero di tesisti e la chiusura definitiva dell’insegnamento, hanno dovuto rivolgersi a qualche altra cattedra trattante anch’essa l’arte contemporanea. Una ragazza mi comunica che a febbraio si svolgerà l’ultimo appello disponibile per sostenere quest’esame.

“Ho frequentato il corso di Capano. E’ stato uno dei corsi che ho seguito con più interesse ed è stato davvero un piacere prepararlo. Un programma variegato, super contemporaneo che ha riscosso grande successo. Le aule sempre piene, tanta gente agli esami e tante richieste di tesi. Talmente tante che la mia è stata rifiutata per eccedenza. Poco male, mi sono detta, anche se non posso prepararla con Capano potrò analizzare gli argomenti del corso con qualche altro professore. E così ho fatto: ora sto preparando una tesi sulla performance artistica”.
Ma come mai si decide di chiudere un corso così seguito?
Una ragazza, con il sostegno di molte sue colleghe studentesse,propone una tesi non poi così ardita: “durante il corso si sono viste delle immagini molto impressionanti e alcune persone che all’inizio del corso seguivano le lezioni se ne sono andate disgustate senza più fare ritorno”. Quindi? “Non sono l’unica a pensare che la chiusura di questo corso sia dovuta a qualche pressione dell’alto di qualche associazione forse un po’ bigotta”. E, in effetti, in molti artisti contemporanei (si possono citare: Orlan, Stelarc...) presentati al corso troviamo sviluppati temi come la nudità, il sangue, il corpo portato ai limiti della sopportazione del dolore, le macchine come strumenti destinati a ibridarsi con la carne umana.

La domanda si pone da sola: in base a quale criterio hanno cancellato l’unico corso che in università affronta, finalmente, la complessità delle esperienze artistiche contemporanee?

Sul blog dell’insegnamento http://cosachesente.splinder.com (spazio virtuale dove è possibile comunicare con i docenti e rintracciare materiale utile per lo studio) l’assistente del professore, la dottoressa Naldi, incentiva gli studenti ad approfondire personalmente gli argomenti trattati durante le lezioni, proponendo visioni di artisti contemporanei. Non solo. La prof. invita a protestare alfine di riprendere al più presto le fila dell’insegnamento interrotto. L’adesione a questo nuovo modo telematico di comunicare tra prof. e allievi è certamente una nota positiva del corso che presto verrà chiuso. Uno strumento in grado di incentivare maggiore partecipazione all’esperienza didattica. Un motivo in più per scegliere, la prossima volta, con maggiore attenzione quali corsi sospendere, tutelando gli insegnamenti che offrono opportunità innovative di conoscenza e studio.

Denis Trivellato


INTERVISTA A MONICA NALDI

Per approfondire il caso e per sentire l’opinione delle persone coinvolte nella vicenda, abbiamo contattato la Dott.ssa Monica Naldi, assistente del Prof. Capano (ha tenuto diverse lezioni durante il corso) e curatrice del blog cosachesente.splinder.com, molto apprezzato dagli studenti. Lei ha gentilmente risposto alle nostre domande.

Dott.ssa Naldi, qual è la sua ricostruzione della vicenda?

Circa un anno fa l’Ateneo ha contattato il Prof. Capano per informarlo della necessità di far cessare alcuni corsi, tra cui il suo: gli è stato detto che il suo caso si inseriva in una politica di tagli alle spese che l’Università stava conducendo. Capano non si è opposto, avendo ricevuto nel frattempo una cattedra dallo IULM. Dopo qualche mese però, abbiamo scoperto che solo pochissimi corsi erano stati soppressi, e a quanto pare per “motivi tecnici” (pensionamento del docente o simili).

E quindi?

E quindi ci siamo chiesti, perché proprio noi? In realtà, però, non voglio tanto capire le ragioni, quanto sapere se si tratta di una decisione temporanea e in qualche modo revocabile, visto che il corso era ben frequentato e apprezzato da molti studenti con cui tengo i contatti sul blog, tuttora attivo.

Ci è giunta voce, però, anche di lamentele da parte di alcuni studenti…

Beh, effettivamente nel corso degli anni ci sono stati episodi di protesta. Ad esempio, quando ho fatto vedere in aula il film Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) di P.Greenaway, alcune
studentesse si sono dette “scioccate”, ma ne abbiamo parlato e mi pareva che fosse tutto a posto. Certo, abbiamo fatto vedere anche immagini di Body art che a volte sono piuttosto intense.
Il mio ciclo di lezioni dell’anno scorso, in particolare, riguardava la rappresentazione della violenza, ma sono stata attenta a contestualizzare e ad evitare alcune immagini che potessero essere ritenute troppo offensive o angoscianti. Anche il comportamento di Capano è stato effettivamente oggetto di polemiche: è un tipo estroso, gli piace fare battute che talvolta possono essere fraintese. Ma credo che qualche sua eccentricità possa essere ampiamente compensata dalla sua capacità di insegnamento. È giusto protestare se qualcosa dà fastidio, ma bisogna anche evitare di prendersi troppo sul serio, in modo anche un po’ vittimistico, e ricordare che una reazione eccessiva può avere conseguenze pesanti.

Quali sono le prospettive future, soprattutto per quel che riguarda un eventuale riapertura del corso?

Per ora, essendo una semplice assistente, ne so poco o nulla. Sicuramente, a mio parere, il corso ha sofferto anche di una collocazione errata: è troppo difficile per una Laurea Triennale, dove
ci sono anche studenti del primo anno, ancora privi di un background di studi sufficiente, ed è molto più adatto ad una Laurea specialistica. Inoltre, ho notato che gli studenti di Beni Culturali si sono dimostrati mediamente più preparati e interessati. Anche il Prof. Capano si era detto interessato a una riapertura del corso alla Specialistica. Staremo a vedere.

a cura di Davide Bonacina



INTERVISTA ALLA PROFESSORESSA ILARIA BONOMI

Per capire le motivazioni dell’annullamento dell’insegnamento di “Teorie e Tecniche Multimediali dell’immagine e della comunicazione visiva” abbiamo incontrato la professoressa Ilaria Bonomi,
direttrice del corso di laurea in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, corso cui l’insegnamento del professor Capano faceva riferimento.

Professoressa, perché è stato annullato l’insegnamento del professor Capano?

Intanto devo fare una premessa fondamentale. Ci rendiamo tutti conto che la condizione ideale per il nostro Ateneo sarebbe quella in cui fossero attive tutte le materie inserite nei piani di studio che gli studenti consultano quando scelgono un determinato corso di laurea. Ma a volte ci si trova di fronte alla necessità di fare dei tagli economici. I tempi adesso sono più difficili da un punto di vista strettamente finanziario.

Perché?

Nei primi tre anni di vita il corso di laurea ha avuto un grosso finanziamento ministeriale: il Campus 1, fondi devoluti dal ministero per i corsi più “innovativi”. Scienze Umanistiche della Comunicazione era l’unico corso di laurea della Facoltà a poter usufruire di questo finanziamento. Finiti i soldi del sussidio abbiamo scelto, per forza di cose, di tagliare alcuni di quegli insegnamenti che facevano riferimento a professori “a contratto”, che l’Ateneo deve pagare oltre agli stipendi dei docenti di ruolo. E poi c’è anche la questione delle doppie cattedre. I vincoli rispetto a chi insegna in più università stanno diventando più stretti.

Qualcuno sostiene che tra le motivazioni per la sospensione del corso del professor Capano ci fosse anche una risposta a lamentele sul contenuto stesso dei libri: immagini troppo forti per qualcuno…

Questo mi sento di escluderlo completamente. Nella scelta tendiamo a non dare ascolto a posizioni “ideologiche”. E a me personalmente queste voci non sono giunte.

Ma chi decide dove effettuare i tagli?

Gli organi alti: Consiglio di amministrazione, Senato Accademico e Consiglio di Facoltà.
Comunque non è detto che il corso sia annullato per sempre. Potrebbe tornare, magari inserito nei piani di studi di qualche corso magistrale.

Non è molto giusto, però, che le scelte dei corsi vengano effettuate sulla base di motivazioni economiche.

Certo che non è giusto. Ma è necessario. Ci sono tante esigenze. Bisogna barcamenarsi e bilanciare, spesso col rischio di proteste. Anche alcuni laboratori molto interessanti sono stati sospesi, come per esempio quello di inglese specialistico. Come si fa a coprire i corsi e i laboratori più “professionalizzanti” senza fare ricorso a contratti esterni? Per i laboratori si cerca di usare altre forze interne: dottorandi, assegnisti…mi rendo conto che non è l’ideale, ma cerchiamo di
fare del nostro meglio. Ed è stato istituito un Nucleo di Valutazione della Didattica, per affrontare alcuni nodi del sistema didattico.

a cura di Virginia Fiume


PER TIRARE LE SOMME

Siamo partiti da un corso annullato, siamo passati dalle sensazioni degli studenti e dalle risposte istituzionali ma adesso è arrivato il momento di parlare di questo anno accademico appena
cominciato. La professoressa Bonomi smentisce motivazioni di natura “ideologica” per la sospensione del corso di Teorie e Tecniche multimediali dell’immagine e della comunicazione visiva e parla di questioni economiche. Che, sebbene a malincuore, non possono essere ignorate.

Resta però una domanda aperta rispetto a quanto ci siamo domandati all’inizio di queste pagine: come si fa a determinare se un corso funziona o non funziona. Se è utile agli studenti o se si tratta solo di un “riempilibretto”. Per decidere se un corso deve restare attivo conta solo la tipologia di contratto del docente o ci sono anche altri criteri di valutazione?

La Facoltà di Lettere e Filosofia inizia quest’anno accademico con il tentativo di dare risposta a queste domande, istituendo il Nucleo di Valutazione della Didattica, una commissione composta
da 13 docenti, uno per ogni area disciplinare, e 3 rappresentanti degli studenti.
Abbiamo incontrato il professor Conca, docente di Filologia Bizantina e Civiltà greca, responsabile della Commissione. Ci ha detto che l’obiettivo del Nucleo di Valutazione della Didattica è arrivare all’elaborazione di un nuovo modulo di valutazione. “Quello che viene sottoposto agli studenti è troppo poco approfondito e uguale per tutte le facoltà. Noi vogliamo arrivare a sentire la voce degli studenti, fare in modo che ci diano risposte più articolate rispetto a quelle di un semplice questionario”. Il nuovo modulo dovrebbe quindi cogliere, nell’idea del gruppo di lavoro che lo sta elaborando, quali sono i corsi più frequentati e quelli meno, capire le perplessità degli studenti su qualità e continuatività dell’insegnamento del docente. E poi, cosa più importante, capire quale congruenza c’è tra il numero dei CFU e il programma dell’esame. Per evitare squilibri. “Senza dimenticare una valutazione su puntualità e frequenza degli orari di ricevimento e sull’utilizzo della posta elettronica” ci tiene a precisare Conca, “sembra incredibile, ma molti colleghi la
utilizzano saltuariamente”. Il lavoro del Nucleo è appena cominciato. Il nuovo questionario
dovrebbe essere pronto in tempo per valutare i corsi del secondo semestre. Chissà che l’anno prossimo non possano essere utilizzati i nuovi indicatori per decidere quali corsi meritano di restare patrimonio della cultura degli studenti della Statale. Senza il rischio di illazioni e magari prescindendo dalla spada di Damocle che pende sulla testa dei professori a contratto.

Virginia Fiume

AMNESTY INTERNATIONAL- ANCONA CALCIO 0-2

Pare che il consiglio Episcopale Permanente abbia spalleggiato la Santa Sede nella sua iniziativa di ritirare i finanziamenti ad Amnesty International per “la clamorosa inclusione, tra i diritti umani riconosciuti, della scelta di aborto”. Ora, la scelta della Santa Sede di eliminare i finanziamenti può risultare discutibile (come la recente decisione, da parte di un associazione cattolica, di acquistare l’Ancona, team calcistico di serie C), ma diventa addirittura paradossale se si precisa il fatto che Amnesty non ha mai ricevuto né sollecitato finanziamenti da parte dell’organo ecclesiale, nonostante la sospensione di questi sia stata largamente pubblicizzata. La linea d’azione seguita dal Consiglio Episcopale si colloca sotto l’insegna di un monito periodicamente riproposto: la profonda crisi morale che investe il Paese.
Con un volo pindarico mi viene in mente un’affermazione di Beppe Grillo, uomo del mese. Tra accuse di neo-qualunquismo o volgarità gratuita, tutti concordano almeno sul fatto che il velato invito sia segno di un’esasperazione diffusa. Al V-Day di Bologna il comico-vate individua la genesi di tale insofferenza in un quesito molto semplice: come educare i propri figli in un paese in cui è la disonestà ad essere premiata col successo? Ammetto che parlare del deficit culturale e legale dell’Italia è originale quanto mettere in dubbio l’obiettività di Emilio Fede. C’è da chiedersi però, dopo le invettive, cosa viene fatto contro il degrado morale.
La CEI, per cominciare, accusa Amnesty e compra una squadra di calcio…

Laura Carli

14 settembre 2008

COSA PENSANO DI NOI?

TRE GIORNALISTI STRANIERI INTERPELLATI SUI VIZI (TANTI) E LE VIRTU' DEL NOSTRO PAESE

“La politica italiana? Per noi tedeschi è poco più di un teatrino. Dell’Italia ci godiamo più che altro la gaffes degli esponenti politici, anche mortadella e spumante in parlamento non ci hanno stupito più di tanto. Ormai siamo abituati ad esibizioni del genere”.

Ci vuole dire che in Italia non trovate proprio nulla di serio? Anche, ad esempio, un fenomeno drammatico come la mafia è ridotto a puro folclore?

“No, assolutamente, la mafia, soprattutto dopo il regolamento di conti di Duisburg (dove il 15 Agosto 2007 sei persone sono state uccise a colpi di fucile in seguito a una faida tra cosche della 'ndrangheta. Ndr), è avvertita come un problema serio, forse anche più che qui nel nord d’Italia, dove mi sembra sia ancora vista come un fenomeno di costume. L’episodio di Duisburg ha suscitato nuovo interesse, e non è un caso che il libro di Roberto Saviano, Gomorra, abbia venduto molto anche in Germania.

Qual è il commento più diffuso in Germania riguardo al recente risultato elettorale?

"Spaventoso. Non solo in Germania ma a livello europeo non ci si spiega come abbia potuto vincere Berlusconi. Un mio amico esperto di relazioni internazionali tra Germania e Italia mi ha confidato qualche giorno fa che una vittoria della destra avrebbe probabilmente incrinato i rapporti politici tra Berlino e Roma. Berlusconi si è rivelato incapace di condurre un dialogo nel suo mandato precedente e nessuno si aspetta che le cose siano cambiate".

Vedete quindi in Berlusconi un pericolo per l’Italia e le sue relazioni internazionali?

“Nonostante tutto mi fa ridere chi parla dell’Italia governata dalla destra come di una dittatura: probabilmente Berlusconi è troppo stolto per fare il dittatore. In ogni caso ha un controllo totale dell’economia e di buona parte dei media, quindi il suo potere è fuori discussione.”

A proposito di economia, dati recenti hanno evidenziato una crescita dello 0.3% per l’Italia: è un problema avvertito anche in ambito europeo?

“È normale che un paese abbia un periodo di crisi, ma solitamente Italia e Germania vanno di pari passo per quanto riguarda gli aspetti economici. Questa volta la situazione è diversa, l’Italia rischia seriamente di perdere importanza a livello continentale.”
Prima ha parlato di media. Lei ha origini italiane: segue i programmi della televisione italiana?

“Assolutamente no, preferisco quella estera. Anche per quanto riguarda l’informazione, in Italia c’è la tradizione della ‘lenzuolata’, un’enorme costruzione mediatica che in realtà non dice nulla e non fa riferimenti seri alle fonti. I giornalisti validi si contano sulle dita di una mano. Io personalmente apprezzo molto Marco Travaglio."

Si riferisce anche al modo in cui vengono trattate le notizie di cronaca nera?

“Noi non abbiamo l’abitudine di trasformare i delitti in soap operas. Non riesco a credere che in Italia le indagini su un singolo caso possano protrarsi per anni. A volte sento di indizi o prove ritrovati sul luogo del delitto tre o quattro anni dopo l’avvenimento, tracce che sono sempre state lì, che si sarebbero potute trovare al primo sopralluogo. Com’è possibile?”

Su questa domanda rimasta in sospeso lo schietto corrispondente di origine italiana viene raggiunto da Katharina Kort, sua collega e connazionale, dal nome, questa volta, inequivocabilmente teutonico.

Anche lei ha una visione così disastrosa del nostro paese o riesce a cogliere aspetti più positivi?

“Sicuramente l’ennesima elezione di Berlusconi ha sorpreso tutti, anche se c’è da dire che da noi si insiste troppo sulle gaffes, mentre bisognerebbe valutarlo più per quello che fa... oppure non fa. C’è il forte rischio di non notare le proposte valide della politica italiana se l’unico interesse sono le figuracce dei ministri o dei capi di stato.”

Secondo Graham Allison, ex ministro della difesa in USA, per quanto riguarda democrazia, libertà e legalità, Berlusconi è equivalente a Putin. Cosa ne pensa?

“Mi sembra esagerato. Come ci ha detto qualche giorno fa Gherardo Colombo, più che antidemocratico, Berlusconi è amorale. In fondo è stato nominato attraverso elezioni democratiche, non si è imposto con la forza né con altri metodi dittatoriali. È stato eletto dagli italiani che, evidentemente, hanno fiducia in lui.”

Parlando di libertà d’informazione, come giudica l’influenza degli organi politici sui media?

“Mi sono accorta che in Italia, rispetto alla Germania, l’influenza è molto più forte. Non solo le ingerenze sono eccessive nel mondo della carta stampata, ma anche a livello televisivo: un “editto bulgaro” da noi sarebbe impensabile. In Germania è il giornalismo che influenza la politica e non il contrario: i politici vengono condizionati dal giudizio che i giornali danno di loro.”

Il livello di attenzione da parte dei giovani italiani nei riguardi della politica è piuttosto scarso. All’estero la situazione è simile?

“All’estero sicuramente i giovani danno più importanza alla politica perché la politica dà molta importanza a loro. In Italia l’età media in cui i politici emergono è troppo elevata, sembra quasi che il potere sia nelle mani dei ‘vecchi’. Per fare un esempio, anche da noi esiste il precariato ma è funzionale ad una carriera e non è ‘eterno’ come può esserlo in Italia. Le aziende sono sempre più avide di giovani.”

Nel dibattito interviene anche Emily Backus, giornalista americana che si occupa di design per il Financial Times. Cosa può dirci a proposito dei giovani poco interessati alla politica?

“Gli statunitensi, non solo i giovani, sono piuttosto provinciali, direi quasi egocentrici. Il loro interesse per la politica estera è pressoché nullo finché non vengono toccati in prima persona. Per questo ho preferito lavorare per un giornale inglese.”

Come è gestita l’informazione nel mondo anglosassone?

“In Inghilterra, per legge, bisogna essere bilanciati: si deve necessariamente, dopo aver accusato una parte, sentire l’opinione della difesa, sia per una questione etica sia per evitare problemi legali che possono stroncare una carriera.”

Questo non influisce sulla libertà di informazione?

“Forse in parte si. In ogni caso dà sicuramente maggiore equilibrio alla questione che viene riportata. Prima di occuparmi di design ho lavorato all’aspetto investigativo del caso Parmalat: ricevetti molta pressione dagli uffici stampa che cercavano di manipolare i giornalisti per i loro scopi. In Italia si presta molta meno attenzione alla qualità dell’informazione, e spesso ci si sbilancia senza pensarci troppo. Mi è sembrato di avvertire che nel vostro paese l’informazione fosse più controllata rispetto al resto d’Europa, anche a causa della presenza dell’ordine dei giornalisti e delle sovvenzioni pubbliche all’editoria.”

La conversazione, che alimenta un fastidioso sentimento a metà tra lo stupore e la vergogna per le risposte ricevute, termina qui. In conclusione una domanda sorge spontanea: se ogni italiano con diritto di voto avesse sostenuto un colloquio del genere prima di entrare nella cabina elettorale e tracciare la fatidica croce, il risultato sarebbe stato lo stesso?

a cura di Daniele Grasso, Riccardo Orlandi

1 settembre 2008

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 - REPRISE


Pasquale Finicelli è un autista che lotta ogni santissimo giorno nel traffico di Milano. Poi accade una cosa: quest’uomo contemporaneo si ricorda di essere stato qualcuno; che sì, per dio, quei quindici minuti di celebrità li ha avuti anche lui. Allora corre a casa, prende quel baule impolverato con la scritta “Negli anni ’80 per un attimo sono stato famoso anche io, e che cazzo!”, lo apre, ha le mani tremanti, rovista tra ritagli di giornali ingialliti, tra le tessere del Partito Socialista, tra le fotografie che lo immortalano con Claudio Martelli e Cicciolina nel transatlantico di Montecitorio, altre che lo vedono a Capalbio in mutandine verdi fluorescenti che gioca a racchettoni con Bobo e Stefania Craxi, mentre il buon Bettino, da sotto la tesa del berretto di feltro, vigila con quel suo tipico sguardo da velociraptor ciccione. Ed ecco, sotto le macerie culturali di un decennio impossibile, trova lei: la parrucca bionda col ciuffo rosso. Nello spazio di una fellatio al Presidente del Consiglio, ri-diventa Mirko, il mitico leader dei Beehive. L’immagino così la reunion della band che tra il 1985 e il 1988, ha incarnato i Beehive, animazioni della serie Kiss me Licia. Il Finicelli ha richiamato tutti: Manuel “Matt” De Peppe, Sebastian “Satomi” Harrison, Luciano “Paul” De Marini, e la new entry, il noto (negli ambienti di casa sua) Tony Amodio, del quale si ricorda anche l’album Deja vu, con la hit Forever, che a sua volta è la versione italiana di I can’t hold you (all the time), che però si chiama Forever, quindi è palesemente la versione italiana. La band simbolo degli anni 80, anni in cui c’era un simbolo al minuto, riparte in grande stile con un album e un tour estivo: la prima data è stata l’11 luglio a Lignano Sabbiadoro. Il tour prevede tappe in Italia, ma anche a Malta, in Slovenia e in Canada. Intanto, però, l’unico altro concerto ufficiale si terrà il 23 agosto all’interno del Festival “50 anni e dintorni” a Montecatini Terme, durante il quale, questi splendidi cinquantenni si esibiranno per altri splendidi settantenni, ospiti per le annuali cure termali e la rimozione dei fastidiosissimi duroni e calli alle dita dei piedi. Un’occasione per Finicelli e Satomi di testare l’impermeabilità al tempo, potendo vantare finalmente un pubblico maturo e consapevole; altro che i mocciosi gocciolanti, che li adoravano senza spirito critico. Noi reduci di quegli anni attendiamo con curiosità degna di un bradipo muto, cieco, sordo, paralizzato ed impotente, il ritorno sulle scene di questa band, che ha saputo scalzare dalle classifiche i Duran Duran, e gli Wham, senza saper suonare una nota che fosse una. Ci sentiamo di augurare ai Beehive che la polvere che ha coperto per vent’anni i loro successi, si tramuti, come d’incanto, in polvere di stelle. O in cocaina.

Fabrizio Aurilia

18 agosto 2008

VULCANO SU STUDENTISTATALE

Interviste, approfondimenti, vita universitaria: Vulcano è on line sul sito studentistatale.it. Buona lettura.

23 maggio 2008

NON SONO UNA SIGNORA/2 ART.13

Il tredicesimo articolo della Costituzione, il primo dopo i principi fondamentali, riguarda la libertà personale. Nella tradizione anglosassone assume il nome di Habeas Corpus. Una conquista del 1679 che consiste nell’impossibilità di arrestare qualcuno tanto per il gusto di farlo, ma richiede la vigilanza del potere giurisdizionale che garantisce una maggior tutela dei cittadini. Qual era il problema alla radice? I cittadini potevano essere arrestati senza capi d’accusa, in assenza di qualsiasi indizio, solamente sulla base del puro arbitrio.
In questo articolo un’affermazione in particolare merita di essere sottolineata.
ART. 13: (...) E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. (...)
Insomma, niente tortura, a prescindere che le finalità siano probatorie o di puro divertimento dei carcerieri. Non é nemmeno un’affermazione cosi incomprensibile all’interno di una Costituzione moderna. Da sottolineare che qui non si parla di "divieto" ma di "punizione" nel caso la tortura venga consumata. Provate a prendere la vostra copia della Costituzione. Scorrendo le sue parole vi accorgerete che non esistono altri articoli che prevedono espressamente una punizione. E’ giusto pensare che la tortura di una persona sotto arresto sia quanto di più vigliacco un essere umano possa concepire. Lo facevano i nazisti. Lo facevano i fascisti durante la guerra di liberazione. Lo fanno tuttora le dittature sparse per il mondo. Lo fanno gli americani nelle carceri costruite in vari paesi, più o meno democratici, sparsi per il mondo. Ma ormai noi sappiamo che la tortura é da vigliacchi. A tal punto che merita questo trattamento particolare nella Costituzione.


Sorge però un grande problema. Il nostro paese é l’unico in Europa che non ha mai approvato alcuna legge che condanni la tortura. Abbiamo ordinanze che puniscono con il carcere chi lava i vetri delle auto e non abbiamo alcuna legge che preveda il reato di tortura. A dispetto della nostra Costituzione, e degli obblighi internazionali che l’Italia ha sottoscritto, torturare è lecito. O almeno, non esiste come delitto. Si chiama "violenza privata".
Vi ricordate quel lontano 2001, quando duecento persone furono arrestate, poi tutte rilasciate perché, detto banalmente, non avevano fatto niente di niente ma erano solo state pescate nel mucchio durante le manifestazioni contro il G8 a Genova? Quelle duecento persone sono state sequestrate, picchiate, minacciate, percosse, insultate, durante il sequestro, durante il tragitto, durante la «detenzione». In quel famoso carcere preparato appositamente per contenere «la più grande violazione dei diritti umani dal dopoguerra ad oggi, nell’Europa occidentale». Non é forse tortura questa?
Ma talvolta la nostra dignità sembra eclissarsi. Sotto l’ombra della, così detta, "violenza privata".


Marco Bettoni

21 maggio 2008

EDITORIALE MAGGIO 2008

Chi dice che il nostro Paese è avaro di memoria avrà avuto modo di ricredersi. Dai saluti romani al nuovo Divo Capitolino Iannus Alemannus, agli scontri della Sapienza, gli italiani ricordano bene come si conduce il dibattito democratico. Guardiamo i fatti: alcuni neofascisti se la sarebbero presa, in definitiva, per l’annullamento della conferenza sulle foibe alla quale era stato invitato Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova. Questa la causa primaria, l’ "aition", come direbbe Pericle. Già, le foibe: tragedia rimossa per decenni dalla cronaca, dalla storia e dalla memoria. Ma siamo sicuri che il modo migliore per risarcire il popolo italiano di una memoria messa sotto il tappeto come sporcizia culturale, sia quello di invitare ad una conferenza un dichiarato neonazi-fascista? Non è il modo migliore, ma è il "nostro": in Italia non è possibile condividere niente, è ontologicamente necessario mettere cappello, così da lottizzare e parcellizzare la memoria. Le foibe, dimenticate consapevolmente dalla sinistra, sono patrimonio della destra, e giustamente, il preside della Facoltà di Lettere della Sapienza, che organizza una conferenza per parlarne, non può che chiamare l’esponente più "discutibile" della malandata destra italiana: un ragionamento assurdo ma geneticamente italiano. E quanto è tipicamente italiano scrivere di scontri tra studenti di sinistra e estremisti di destra? Benvenuti nel primo numero di Vulcano del 1977.
Fabrizio Aurilia

15 maggio 2008

UNA QUESTIONE DI PULIZIA


Siamo un popolo di incompresi. Chi ci definisce razzisti e xenofobi non ci capisce. Noi non siamo intolleranti e approfittatori, noi siamo generosi. Se uno straniero puzza, c’è un Borghezio che lo lava. È vero, usa il Vetril, ma sono dettagli da cronaca di costume. E se vivono in un campo sporco e pieno di topi, c’è un Galan che risolve la questione: "Questi non sono campi, sono immondezzai, non vedete quanta spazzatura? Bisogna spazzarli via". La domanda sorge spontanea. Di che si parla? Forse una risposta può arrivare da frasi illuminanti come "Hanno fatto pulizia", "Bisognava pur pulire", "Certo bisogna ancora pulire un po’". In tempi come questi, il pensiero corre a Napoli e alla Campania. Ingenuità. A parlare sono i commercianti della zona Stazione Centrale di Milano e si riferiscono ai bambini rom. Ed è quasi commovente la rude semplicità di De Corato, che con estremo pragmatismo invoca le ruspe. Questa sì che si chiama schiettezza, alla faccia di chi ci reputa intolleranti. Come si diceva? Italiani brava gente...
Chiara Caprio

5 marzo 2008

“Io, prigioniera della mia Teheran”


INTERVISTA A MARINA NEMAT
Marina Nemat, scrittrice iraniana detenuta ai tempi della rivoluzione komeinista, ha ricevuto il Premio “Human Dignity” dal Parlamento Europeo.

Iraniana cristiana ortodossa, fu arrestata dai guardiani della rivoluzione quando aveva solo 16 anni. Era il 1982. Erano i tempi della rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini. Marina non era un’attivista politica. L’unica sua colpa fu quella di aver alzato la mano durante una lezione di matematica per chiedere all’insegnante di non fare propaganda politica. Marina fu torturata, condannata a morte e rinchiusa nella prigione di Evin, a sud di Teheran, nota per il suo braccio della morte destinato ai prigionieri politici condannati alla pena capitale. Una delle guardie che la interrogarono, Ali, si invaghì di lei. La sua sentenza fu ridotta all'ergastolo ma, in cambio, la guardia la costrinse a sposarlo e a convertirsi all'Islam. Così, per due anni rimase in prigione come moglie del suo aguzzino. Quando Ali venne ucciso da altri rivoluzionari suoi rivali nel 1984, fu liberata. Non fece mai parola del matrimonio e di tutto ciò che era accaduto a Evin.Sposò il ragazzo di cui era innamorata prima di entrare in prigione e con lui si trasferì a Toronto, in Canada. Aveva 26 anni.

In tutto questo tempo Marina ha cercato di dimenticare l'Iran, ma oggi, a distanza di vent’anni, le cose non sono affatto cambiate nel suo paese. La morte della madre, nel 2000, e della giornalista iraniana-canadese, Zagara Kazemi, arrestata per aver scattato nel 2003 fotografie della prigione di Evin, hanno segnato una svolta. L’autrice ha trovato la forza di fissare su carta il ricordo, indelebile, dei suoi due anni, due mesi e dodici giorni trascorsi in quella prigione. Per se stessa e per tutti quelli che hanno vissuto lo stesso dramma. “Prigioniera di Teheran” pubblicato da Cairo editore, è la sua storia. Un racconto lucido, commovente e autobiografico di chi è riuscito a ritornare dalla morte alla vita.
L’abbiamo incontrata a Milano, presso il Palazzo Stelline, dove ha ricevuto il Premio “Human Dignity” conferitole dall’On. Mario Mauro, Vice Presidente del Parlamento Europeo, per la sua testimonianza attiva e il suo impegno nella difesa dei diritti umani.


Un libro difficile. Una scelta difficile quella di raccontare. La sua amica Parisa che, come lei, ha vissuto gli orrori della detenzione, dopo alcune chiacchierate ha deciso che non voleva più ricordare. Perché, invece, lei ha scelto di scrivere?
Non è stata una decisione presa razionalmente ma l’esito naturale di un processo. È arrivato un momento in cui non riuscivo più ad andare avanti, a vivere con questo pesante segreto. Per anni tutti quelli che mi circondavano avevano deciso di ignorare il fatto che io avessi trascorso più di due anni nella prigione di Evin. Tutti avevano cercato di dimenticare, di proseguire con la propria vita ed io, per così dire, sono stata al gioco. Però ad un certo punto ho dovuto affrontare il mio passato, non riuscivo più a dormire, a sorridere. I ricordi si erano fatti insostenibili e soffocanti. Ho dovuto affrontare il fatto che io fossi sopravvissuta mentre molti altri erano morti.


Cosa significava essere cristiana a Teheran durante il regime?
Prima della rivoluzione, nel periodo dello Scià, non era importante la religione che si professava. A scuola eravamo tante ragazzine di credo diverso e convivevamo tranquillamente. Con la rivoluzione islamica le cose sono cambiate. Si è instaurato una legge islamica estrema e a quel punto la religione è diventata un problema. Come cristiana, comunque, sono sempre stata un po’ ai margini della società. Anche nel periodo dello Scià ero leggermente diversa dagli altri e questa differenza l’ho sempre avvertita. Ma non si andava in prigione per il fatto di professare la religione cristiana, purché si rispettasse la legge islamica. Purché non si diventasse, diciamo, politici nel proprio credo. Chiaramente una volta in prigione essere cristiana ha rappresentato un grande svantaggio.


Cosa è cambiato oggi rispetto a vent’anni fa?
Non ci sono molte differenze in realtà. Per un breve periodo, quello della presidenza di Katami, le cose sembravano migliorate, ma erano solo cambiamenti estetici. La donna, ad esempio, poteva indossare un po’ di rossetto, e anche se una ciocca di capelli fuoriusciva dal foulard non era importante. Però erano variazioni molto superficiali. Oggi con la presidenza di Ahmadinejad siamo ritornati a dove eravamo con Khomeini. Sempre più donne subiscono delle pressioni, devono indossare in modo adeguato l’hijab e incontrano grandi difficoltà nella loro vita di ogni giorno. La verità è che fino a quando rimarrà al potere un regime islamico non potranno esserci cambiamenti per gli iraniani. La democrazia è qualcosa di inconciliabile con il sistema della repubblica islamica. Occorre che il sistema cambi perché ci sia democrazia. Fino a quando ci sarà un leader supremo, che ha potere di veto su qualsiasi decisione del Parlamento, non ci potrà essere libertà: questa è la ricetta della dittatura e nient’altro.


In questa storia di odio, dolore, disperazione c’è anche amore, amicizia, resurrezione. Ma ad un certo punto bene e male sembrano confondersi e compenetrarsi. Come ha fatto alla fine di tutto a ritrovare l’equilibrio e scrivere una storia che è anche di speranza?
Penso di dovere questo mio equilibrio al modo in cui sono stata cresciuta. Mia nonna mi ha educata ai valori cristiani, dicendomi sempre di guardare al nemico con il rispetto dovuto ad un altro essere umano, di amare, comunque, il mio prossimo. Questi principi sono stati, per così dire, incisi nel mio animo. Quando sono stata imprigionata, a 16 anni, ero giovanissima e non avevo avuto abbastanza esperienza per poter provare odio. Vivevo alla giornata e, non avendo pregiudizi, se esisteva un minimo di bontà anche nell’essere più vile e più crudele io riuscivo a trovarla. Quello che più mi ha colpito, infatti, è stato scoprire che la famiglia di mio marito, che per me era stato un aguzzino, un torturatore, in realtà era una buona famiglia. È stato così che ho dovuto necessariamente riconciliare il concetto del bene con quello del male. E’ stato lì che ho appreso che il mondo non è o bianco o nero.


Per questo libro ha ricevuto il premio “Human Dignity” del Parlamento Europeo. È un passo avanti perché si cominci a aprire gli occhi sugli orrori della tirannia. Eppure ancora oggi giornalisti in Iran vengono condannati per reati d’opinione. Gli ultimi resoconti ci parlano della morte della fotoreporter iraniano-canadese Zahara Kazemi e della condanna, nel Kurdistan iraniano, alla pena capitale per due giornalisti curdi. Si tratta, quindi, ancora di censura?
Si, certo, si parla di censura politica ma anche di forte omertà. Quando io ero in prigione non c’era alcuna reazione. Praticamente erano migliaia i teenager di 16/17 anni imprigionati in Iran, ma nessuno ne parlava. Addirittura io mi chiedevo se ci fosse qualcuno che sapesse o si preoccupasse di questa situazione. Ma dopo 25 anni di silenzio oggi qualcuno finalmente sta ascoltando. Questo è positivo. Il Parlamento Europeo ha fatto un passo avanti, approvando una risoluzione in cui si riconosce che tutte le minoranze religiose stanno affrontando delle difficoltà: le persone vengono uccise, torturate in nome del proprio credo. Un’atroce tortura fisica, che lascia segni visibili, ma anche e soprattutto una tortura psicologica che logora dentro.

Cosa può fare la comunità internazionale?
Sicuramente non spedire eserciti in Iran o in altri Paesi del Medio Oriente. Sappiamo che la storia si muove lentamente e non si possono risolvere i problemi dell’Iran in un giorno. La cultura mediorientale è estremamente complessa e la Comunità Internazionale deve proseguire il dialogo, deve continuare a parlare della violazione dei diritti umani. Inoltre, i governi occidentali dovrebbero esercitare delle pressioni sul governo dell’Iran perché vengano rilasciati i prigionieri. Oggi c’è anche internet, uno strumento estremamente potente per partecipare a questo tipo di discussioni facendo sentire la propria voce. È un modo per mostrare sensibilità e avviare un dibattito internazionale con la possibilità di scambiare idee e opinioni con cittadini iraniani. E’ necessario ricordare che il 70% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni, quindi sussistono speranze effettive di cambiamento. Bisogna aspettare che i cittadini iraniani trovino la loro via verso la democrazia quando ne saranno pronti.
Vivendo in nord America, conoscendo la realtà di questo paese, trovo disturbante il fatto che la gente si concentri di più su quelli che sono i problemi di Britney Spears piuttosto che delle vite perdute nelle guerre in Asia o Africa, o si concentri di più sulle avventure di Paris Hilton, piuttosto che sulle vittime dell’AIDS nel terzo mondo. Dobbiamo renderci conto che la cultura popolare deve ridefinirsi, deve cambiare le proprie priorità perché, come diceva giustamente lei, le atrocità vengono tutt’ora commesse a livello mondiale. Bisogna chiedersi se è normale per un essere umano ignorare. Se le vere necessità del pianeta vengono riconosciute è necessario poi assumersene tutte le responsabilità. E questo, si sa, non è certo facile anzi è molto scomodo.

Silvia Valenti

18 febbraio 2008

ANDALUSIA

APPREZZA MEGLIO UN NETTARE LA PIU' CRUDELE ARSURA

Camminavo oramai tra tre ore. La strada tagliava la valle, una lunga lama bianca piantata tra le scapole della pianura del Duero. Il calore era insopportabile. Il cielo diafano s’era fatto sole tutto: impossibile dire da dove i raggi venissero a proferire la loro condanna. La luce opaca riverberava sulla pelle butterata dei colli lontani, tra le braccia tese delle spighe di grano tra i quali si insinuavano le teste rosse dei papaveri, lungo il corpo secco degli alberi scuri e contorti. Avanzavo nella morte apparente del mezzogiorno. Mi accompagnava soltanto il frinire delle cicale, un ronzio intenso, costante, infinito.
L’impressione era quella di trovarsi accanto sempre lo stesso ciuffo d’erba gialla, la stessa traccia di serpente disegnata nella polvere rossa della strada. Polvere rossa che si attaccava ai capelli, correva lungo la schiena, si posava tra le dita dei piedi esausti.
Vidi gocce d’acqua dondolare mollemente sulla punta degli steli d’erba, dopo un acquazzone primaverile. La campagna verde della mia terra dove i salici sfiorano con dita gracili il corpo sinuoso dei ruscelli. Vidi passeri sguazzare nelle pozze d’acqua bassa. Mani chiuse a ricevere il fresco dono cristallino di polle alpine. Nel mio delirio avanzavo e avanzavo, trascinando i piedi nella terra riarsa.


Scrisse Emily Dickinson:
Più dolce appare il successo
a chi mai lo conobbe
apprezza meglio un nettare
la più crudele arsura
[...]

Solo nella più completa disidratazione conobbi la sete.


Ma una speranza c’era. Si chiamava orizzonte. Lontano, sopra il dorso ocra di un colle, si attorcigliavano nubi a spire, si annunciava tempesta. Trascorsero minuti infiniti. L’ombra avanzava lungo la valle, veniva da sud, lesta, silenziosa, incontro a me. Accelerai pregustando l’abbraccio, la frescura del suo corpo dentro la mia pelle. E l’abbraccio arrivò. Il sole venne inghiottito da un budello di nembi. Il sollievo era immenso, inebriante. L’ombra mi cinse i fianchi, mi coccolò e mi carezzò il viso con il suo respiro umido.
Le prime gocce scesero come una benedizione. Lungo il solco teso della mia bocca, nella mia gola ardente. Folate di vento sostenevano il mio cammino, ora più sicuro. Infine un colle, una curva, le prime case, dei volti umani: contadini che rientravano dalla campagna sotto la minaccia dei primi lampi. Poi in fondo ad una stradina, stretta tra una chiesa e un muretto a secco, sotto un perticato incorniciato dall’edera, una taverna.

Senorita, un poquito de agua por favor!
Enrico Gaffuri

Liberamente ispirato da un articolo di Laurie Lee, Sotto il solleone Spagnolo, in Questa meravigliosa Europa, Selezione del Reader’s Digest, 1976, Milano


13 gennaio 2008

DIALOGO IN CORSO

a cura di Daniele Grasso, Giovanni Cinà e Chiara Caprio

OLTRE I MURI

I giovani musulmani in Italia tra fede e integrazione
Omar Abdel Aziz è un ragazzo che non ti aspetti. Vent’anni, l’aria seria e l’abbigliamento decisamente occidentale. Nulla di strano, se non che si tratta di un giovane musulmano, membro attivo dell’associazione "Giovani Musulmani". Ma i pregiudizi e le immagini a cui siamo abituati portano a credere che le differenze si notino già dall’apparenza.
"E’ normale" spiega Omar "la gente si aspetta che vedere un musulmano voglia dire vedere un vecchio uomo con la barba, che se non fai attenzione ti fa saltare in aria. E’ semplicemente lo stereotipo che i mass media fanno passare quotidianamente".
I "Giovani Musulmani" nascono nel 2001 dall’ esigenza di quattro ragazzi, provenienti da diversi paesi arabi, di creare un luogo di associazione, di scambio culturale e religioso tra musulmani. Oggi, dopo sei anni, hanno sedi a Milano, Roma, Reggio Emilia e Bologna, e presto sarà fondato anche un gruppo scout musulmano. I.G.M. di tutta Italia si riuniscono annualmente a livello nazionale per incontri, riguardanti la formazione religiosa e la comunicazione della propria esistenza sociale. "Questo per noi è un punto fondamentale: le immagini con cui siamo quotidianamente etichettati dai media creano nella società in cui cerchiamo di vivere da cittadini normali sono degli stereotipi che ci fanno male" spiega Omar "naturalmente per noi le risposte a questi attacchi mediatici sono nei versetti del Corano. Tra quelle righe non c’è traccia del binomio terroristico religione-omicidio. E tramite l’associazione abbiamo trovato un luogo in cui riscontrare questa verità".

Ovviamente tra i Giovani Musulmani ci sono anche alcune ragazze, attive e libere quanto i loro colleghi maschi. Non tutte portano il velo, e ciascuna può decidere se mantenere o meno questa tradizione. "Un’ abitudine sbagliata tipica degli occidentali è quella di confondere la religione con la tradizione" spiega Omar "nel Corano non ci sono passi in cui si dica che la donna debba indossare il Burqa: è esplicito l’ ammonimento a coprirne il corpo e le sue forme, ma non le mani e il volto. Quando vedo in televisione donne interamente coperte dal burqa mi chiedo perchè lo facciano. La risposta in realtà è nelle tradizioni del paese, e non nei dettami islamici".
La motivazione infatti sta nel nascondere della donna la sua parte più provocante, la stessa, per intenderci, che spopola sui giornali e nelle pubblicità occidentali. "Se in Arabia Saudita le donne non possono guidare e in Iran non possono uscire, a meno che non siano accompagnate da familiari stretti, è una questione di tradizione legata al Paese" chiarisce Omar "nel caso di questi due Paesi, tra l’altro, il primo non è considerabile come islamico, poichè è solo a maggioranza islamica, ed è retto da una monarchia assoluta". Una forma di governo che con i messaggi coranici non può coincidere: il profeta stesso, agli atti fondanti dell’Islam, prendeva decisioni per la comunità nella Sura, un’assemblea democratica. Ma alle orecchie occidentalizzate risulta addirittura strano accostare le parole "democrazia" e "Islam" all’ interno di una frase. "Non bisogna dimenticarsi che in molti casi le dittature nei paesi arabi sono state sostenute da governi occidentali con lo scopo di ricavarne immensi proventi economici. Gli islamici tagliagole spesso uccidono con lame occidentali" afferma Omar. Ma il fondamentalismo esiste, sarebbe inutile negarlo, tanto nei paesi islamici quanto in quelle persone che da quei paesi sono emigrate in occidente.
Come nel caso di Hina, la ragazza di Brescia uccisa dal padre perché rifiutava di mettere il velo. "E’ una realtà con cui si ha a che fare nella comunità islamica, anche se nel mondo giovanile della nostra generazione, fatta di ragazzi cresciuti qui, è difficile che rimangano retaggi così forti" spiega Omar "naturalmente questo è un argomento che trattiamo negli incontri dei Giovani Musulmani: è fondamentale per noi riuscire ad intervenire al meglio nella società italiana rimanendo però portatori dei valori della nostra fede".
Dunque, esistono differenti interpretazioni all’ interno delle stessa dottrina religiosa. "Infatti se i cattolici hanno il Papa e le comunità ebraiche un Rabbino capo, le comunità islamiche non hanno qualcuno che si faccia interprete del messaggio coranico a livello universale" prosegue Omar "ognuno dice la sua insomma. Questo da maggiore libertà di interpretazione, naturalmente con le conseguenze che ciò comporta, nel bene e nel male".

Se per uno come lui, che si dichiara cittadino italiano di religione islamica, questo aspetto rappresenta un continuo spunto riflessione, bisogna volgere lo sguardo un po’ più indietro e riflettere sulla condizione della generazione precendente. "Chi, come mio padre, arrivando in Italia più di 20 anni fa dall’ Egitto, si è ritrovato catapultato in una società in cui è normale trovare donne seminude sui cartelloni pubblicitari ad ogni angolo della strada...capisci che ci rimane!" spiega Omar "Di conseguenza spesso i padri vedono l’ imposizione, ad esempio, del velo alle figlie come un modo per proteggerle dal poter diventare carne da macello di quel mondo occidentale di cui ancora non si fidano. E’ una questione molto spinosa".
Alla quale però un’ associazione come i Giovani Musulmani cerca di dare una risposta indubbiamente positiva, ponendosi soprattutto come punto di partenza per il mantenimento e l’applicazione della fede islamica nella società in cui vivono, un’attività che ha portato anche a conversioni, come quelle dei circa venti ragazzi milanesi che sono passati dalla religione cristiana all’Islam.

Ma il pensiero corre anche alla situazione internazionale, e in particolare alla guerra nei territori palestinesi. "Naturalmente noi soffriamo ogni giorno per quello che accade in quei territori, ma bisogna fare attenzione a non cadere in facili equivoci sul conflitto" prosegue Omar "E’ pericoloso considerarlo una questione puramente religiosa, trattandosi in realtà di uno scontro tra il popolo Palestinese e quello Israeliano. Noi cerchiamo di dimostrare che non c’è odio tra le due religioni, come abbiamo fatto qualche anno fa, con un incontro con l’ U.G.E.I. (Unione Giovani Ebrei Italiani) al Castello Sforzesco. Senza morti né feriti".
Collaborazione con le associazioni ebraiche, ma non ancora con quelle cattoliche. Omar però assicura che l’unica ragione è la mancanza di occasioni. "In realtà io, frequentando l’Università Cattolica, sono quotidianamente in contatto con loro, ma in alcuni casi, come per una mia collaborazione con il giornalino universitario, mi sono sembrati troppo impostati e poco disposti ad allargare i propri orizzonti".
L’auspicio è che le prove di sintonizzazione non si esauriscano qui.

Daniele Grasso



DALL'UGEI A KIDMA

Ecco chi sono i giovani ebrei italiani
Nonostante la presenza discreta e poco visibile, esistono ben ventuno comunità ebraiche in Italia, ciascuna guidata da un rabbinato autonomo. I gruppi sono poi riuniti nell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), che ha il compito fondamentale di rappresentarli a livello nazionale, anche se, dal punto di vista religioso, non esiste un organo centrale che li indirizzi in modo unitario, ma l’interpretazione del rabbino capo è quella in cui si riconosce la comunità a lui sottoposta.
Le attività del mondo ebraico hanno anche una ramificazione giovanile, indipendente da quella degli adulti.
Gad Lazarov, vice presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia e responsabile dei rapporti con World Union Jewish Students e European Union Jewish Students, è uno di quei giovani ebrei italiani che si impegna a sviluppare e far conoscere la propria realtà, proprio attraverso la costituzione di alcuni nuclei di riferimento, come l’UGEI stessa. Dopo l’esperienza in Hashomer Hatzair e Benè Hakiva, due associazioni che s’ispirano allo scoutismo, una più laica ed una più religiosa, il passaggio ad un impegno più forte è venuto da sé. Prima con la partecipazione a Kidma (continuazione di Hashomer Hatzair per i più grandi), successivamente con l’adesione all’UGEI. "L’UGEI è un’emanazione diretta dell’Unione delle comunità, da cui riceve gran parte dei finanziamenti, ma nonostante questo gode di molta autonomia" spiega Gad "non siamo tenuti a seguire ogni direttiva, anzi, ci è capitato più volte di trovarci in contrasto, anche attraverso articoli, come quelli apparsi su Hatikva, il giornale dei Giovani Ebrei d’Italia". Naturalmente entrambe le associazioni hanno una linea ben definita.
"Sia per l’UGEI che per Kidma il richiamo allo stato di Israele è forte. Chiaramente entrambe sono per la pace, democratiche" prosegue Gad "se però l’UGEI è apolitica e apartitica, Kidma è più legata alla sinistra italiana. Questo non significa che l’UGEI non faccia politica, ma avendo una struttura elettiva cambiano i vertici e cambiano di conseguenza anche gli orientamenti. Questa rappresentatività chiaramente ti dà più autorità. UGEI è più rivolta alle istituzioni, Kidma lavora su un altro livello. Potremmo vedere l’UGEI come un governo e Kidma come un partito".

Per quanto riguarda gli scopi primari delle associazioni, entrambe perseguono una doppia finalità. Una interna, volta alla costruzione e al mantenimento di una comunità coi suoi interessi, ed una esterna che mira alla sensibilizzazione culturale. "L’attività di entrambe le associazioni è culturale-politica: organizzazione di incontri, conferenze stampa alla Camera, dibattiti, campagne di sensibilizzazione" spiega Gad "inoltre diamo la possibilità ad ogni ebreo, dal più laico al più osservante, di partecipare alle nostre iniziative, attraverso piccole attenzioni, come il non organizzare attività il sabato o distribuire cibo kosher". I temi affrontati rispecchiano la realtà che li circonda, e sono quelli più scottanti: dalla fecondazione artificiale alla crisi del Darfur, fino all’antisemitismo e all’islamofobia, passando per il rapporto tra religione e sessualità. Gli eventi che organizzano si rivolgono a tutti e vedono spesso la partecipazione di personaggi di rilievo, come i parlamentari Piero Fassino, Gianfranco Fini e Daniele Capezzone, oltre a tanti esponenti delle maggiori religioni. Ma un posto importante è occupato certamente dalla Giornata della Memoria, arricchita però da testimonianze diverse, come quelle di Rom sopravvissuti ai campi e di persone scampate ai genocidi in Ruanda, per non limitarsi alla commemorazione di una tragedia ebraica, ma cercare di proiettarsi nel futuro, in un’ottica propositiva. L’occasione porta anche a constatare che ogni volta si spera che non accada mai più, e invece le storie si ripetono."Come si è visto anche nel caso recente di quel rumeno a Roma, il rischio è sempre quello di discriminare tutta una comunità" afferma Gad.
Fondamentale è stato anche l’incontro con i Giovani Musulmani. "Questi incontri con i giovani musulmani sono molto importanti dal punto di vista del gesto, si imparano tante cose sulle usanze, si capiscono gli stili di vita. Abbiamo fatto anche un torneo di calcio interreligioso con loro" spiega Gad "Non credo però che servano ad istituire un dialogo su altri livelli. Il problema è che loro vogliono confrontarsi su un piano teologico, mentre a noi interessa il piano politico e culturale. Il fatto di essere ebreo non implica l’essere ortodossi o buoni conoscitori dei testi sacri". Tuttavia se per gli ebrei la trasmissione per nascita della fede ha contribuito a creare un’unità identitaria molto forte, lo stesso sembra non essere avvenuto nel mondo musulmano. "La comunità islamica è frammentata" aggiunge Gad "anche le moschee di Milano sono a volte in disaccordo tra loro. Per esempio chi frequenta la moschea di Segrate non riconosce chi va nella moschea di Via Padova, ed entrambi vogliono differenziarsi da chi frequenta quella di Viale Jenner. Se avessero un solo rappresentante eletto sarebbe più facile far sentire la loro voce. C’è anche da dire che la comunità ebraica vive in Italia dal 70 a.C., sono 2000 anni e più, mentre la comunità islamica ha una presenza considerevole in Italia solo da 15/20 anni".

La frammentazione del mondo islamico però, non è solo un problema milanese. Alla luce del recente accordo di Annapolis tra Olmert e Abu Mazen, per l’avvio di negoziati tra palestinesi e israeliani, la questione si fa importante. " Purtroppo anche a livello internazionale non c’è una posizione univoca nella parte islamica" afferma Gad "le diverse fazioni si scontrano tra loro, con il risultato che non si può ottenere la pace e i palestinesi sono discriminati dagli stessi arabi. In Libano i palestinesi non possono esercitare 71 mestieri". Per questo Gad auspica un cambiamento anche sul fronte musulmano. "L’unione delle comunità dovrebbe essere adottata anche dai musulmani" spiega "finchè non faranno un’opera di mediazione tra di loro e non parleranno con un’unica voce non potranno far valere le loro ragioni". Un altro fattore fondamentale è l’unione dell’esercito. Infatti con le milizie separate sarà impossibile ristabilire l’ordine e, di conseguenza, il controllo politico sul territorio. "in ogni caso Annapolis è solo un primo passo, anche se ci sono state delle aperture importanti" afferma Gad "bisognerebbe però che si riconoscesse a Israele almeno l’esistenza di fatto, se non di diritto. Se non riconoscono Israele come interlocutore, la trattativa non può andare avanti".
Con il presupposto che la conoscenza sta alla base della comprensione, l’impegno fondamentale che queste associazioni portano avanti è quello di diffondere la cultura ebraica. Non per volontà di proselitismo, ma per costruire un valido e positivo dibattito interculturale. Ma sembra vi siano alcuni ostacoli, a partire dall’insegnamento della religione nella scuola pubblica. "L’unilateralità nell’educazione religiosa è una mancanza della cultura italiana" spiega Gad "per esempio, la religione cattolica predilige il nuovo testamento al vecchio".
"Negli Stati Uniti, c’è una apertura molto maggiore, frutto anche di un’operazione culturale fatta da intellettuali, come scrittori o registi" prosegue Gad "In Italia, tolte le grandi città, l’educazione è ancora fortemente impregnata di cattolicesimo. Io sono molto favorevole all’insegnamento della religione cattolica, ma nelle scuole bisognerebbe insegnare storia delle religioni, non fare catechismo. La chiesa stessa dovrebbe fare dei gesti di riavvicinamento alle altre confessioni religiose".
Altro aspetto che confonde e dimostra una mediocre conoscenza del mondo ebraico da parte degli italiani è la difficoltà a scindere l’ebreo, colui che professa la religione ebraica, dall’israeliano, la persona che abita nello stato d’Israele. "Israeliano ed ebreo sono molto diversi per mentalità" spiega Gad "gli israeliani hanno molto di più il concetto di laicità". La costruzione delle istituzioni di Israele ha portato a riferimenti identitari diversi da quelli tradizionali, alla possibilità di creare un mondo ebraico nuovo, dove non ci si lascia opprimere, ma si combatte per se stessi, per difendere la propria fede e i propri valori. Da questo possono nascere anche esperienze impensabili, come i kibbutz. "La partecipazione è volontaria e non imposta. Ognuno si esprime sugli aspetti decisionali della vita del kibbutz" racconta Gad "si può scegliere se lavorare la terra, se lavorare in fabbrica, in cucina". Un ambiente diverso, unico nel suo genere e testimone di uno stile di vita, attraverso cui molti giovani, anche non ebrei, possono così provare questa forma di comunità e mettersi in contatto con uno degli aspetti importanti della cultura ebraica e israeliana.


Giovanni Cinà