31 luglio 2006

INTERVISTA A FABIO TREVES

Vulcano ha incontrato, presso gli studi milanesi di RockFM, Fabio Treves, storico armonicista e bluesman. Il “Puma di Lambrate” ha inoltre collaborato e suonato con molte rockstar, come Frank Zappa, Eric Clapton, Mike Bloomfield e Stevie Ray Vaughan. Tra dischi curiosi, cimeli e memorabilia, capiamo subito che l’occasione per fare quattro chiacchiere e carpire qualche segreto è davvero troppo ghiotta.


Fabio, potrà sembrarti una domanda ingenua, ma perché hai scelto di fare blues? È pur vero che il contesto musicale dove sei cresciuto ne vedeva la massiccia presenza, ma da cosa ti scaturisce una passione così forte e sincera?
A dirti la verità non so se sia stata una scelta. Penso che per suonare il blues, bisogna sentirlo. Se ascoltando un pezzo di Muddy Waters senti un brivido percorrerti la schiena, o una lacrimuccia solcarti la guancia allora lo senti. È un qualcosa che difficilmente si può imparare, penso sia molto legato ad una sfera istintuale. Per quanto riguarda me, sono cresciuto in una casa dove si è sempre ascoltata dell’ottima musica. Mio padre suonava spessissimo dischi di jazz e qualcosa di blues. Crescendo sono stato folgorato dal rock, come molti ragazzi della mia generazione, ma non ho mai perso la mia passione più grande: quella per la musica del Delta del Mississipi. Gruppi come “The Cream” o “Canned Heat” devono aver fatto da collante facendomi apprezzare anche molti altri generi musicali.


Come hai vissuto gli anni ’70 e il concentrato di eventi musical-culturali di quegli anni?
Li ho vissuti come li può vivere un ragazzo di vent’anni. Al massimo! Ricordo ad esempio di quando andai ad Amsterdam per vedere un concerto dei Pink Floyd, col mio mitico Garelli. Ci misi quattro giorni, ma, una volta arrivato, la soddisfazione fu enorme. In linea di massima, comunque, sono stati anni che mi hanno visto spettatore appassionato e interprete davvero inesperto. Suonavo già in una band di compagni di liceo (il Carducci), e perdevo regolarmente in tutti i concorsi musicali cui mi iscrivevo, perché nemmeno allora il blues era di moda. Nella mia esperienza ha giocato un ruolo davvero importante il festival Pop che si è tenuto nel 1970 presso l’isola di White. Ricordo di essere partito da Milano con una 2Cavalli e che ogni 150 chilometri io e il mio amico Eugenio Finardi, dovevamo fermarci e cambiare l’acqua. Poi, una volta giunti, fu davvero bellissimo. Sentii, tra le altre cose, l’ultimo concerto di Jimi Hendrix, vidi The Who, Santana, Joni Mitchell. Il mio ricordo è quello di un tempo dilatato, un po’ dai tanti anni trascorsi, un po’ dal fatto che l’uso di droghe era piuttosto diffuso. Addirittura, una mattina fummo svegliati da uno strano rumore. Piacevole, dolce. Sembrava il suono di un flauto. Ed era così! Erano gli Jethro Tulls che facevano sound check. Erano così fusi che provavano alle sette del mattino!


Per tornare a te, quand’è che hai capito che potevi fare della musica una professione?
Direi nel 1975. Finito il liceo e accantonata l’università e gli anni dell’impegno politico, capii che suonare era l’unica cosa che mi faceva stare bene per davvero e iniziai ad entrare nel giro. Prima del ’75 (data di fondazione della Treves Blues Band che si esibisce tutt’oggi) avevo provato ad incidere qualcosa, ma il livello era pionieristico.


C’è qualche aneddoto dietro la scelta dell’armonica come tuo strumento preferito?
L’aneddoto più sincero è sicuramente quello della mia propensione ad evitare lo studio di strumenti troppo complessi. Iniziai a suonare il sax, ma facevo molta fatica. Poi vidi l’armonica e capii che era fatta per me. Non aveva bisogno di accordature come la chitarra, né di tecniche particolarmente raffinate, come per il sax. Poi, con la pratica ne misi a fuoco i tanti pregi come, per esempio, il sound, mai scontato.


Senti Fabio, ma a più di 30 anni da quando hai iniziato, che senso dai al fatto che suoni blues?
Come ho già detto, parlando di me, trovo nel blues un valido aiuto contro lo stress, la frustrazione e i ritmi di tutti i giorni. Poi il senso lo da anche il pubblico, giovane e meno, che continua a dimostrarci tantissimo affetto, e a cui va il mio più sentito ringraziamento.

a cura di Davide Zucchi

INTERVISTA A GIOVANNI ALLEVI

Il compositore e pianista Giovanni Allevi nasce il 9 Aprile 1969 ad Ascoli Piceno. Frequenta il Conservatorio G. Verdi a Milano dove si diploma con il massimo dei voti ed in seguito si iscrive alla Facolta di Filosofia dove si laurea cum laude. Il suo primo disco “13 fingers“ viene pubblicato nel 1997. Il secondo album, intitolato “Compositions“ (2003), nasce durante la collaborazione con il Collettivo Soleluna(del quale fanno parte Jovanotti e il bassista Saturnino). Il meritato successo arriva nel 2005 con il soldout al prestigioso “Blue Note“ di New York e la successiva pubblicazione di “No Concept“, disco accolto con recensioni positive dalla stampa musicale.
Nello stesso anno Allevi viene insignito del premio Bosendorfer e del premio Recanati. Il brano “Come sei veramente“, estratto da “No Concept“ viene utilizzato dal regista Spike Lee come colonna sonora dello spot girato per la BMW.
Nel 2006 Allevi torna ad esibirsi al “Blue Note “ di New York.


Perché suoni?
Non lo so, è una cosa fisica, viene dalla pancia. E’ un impulso irresistibile.

Quando muovevi i primi passi nel mondo della musica hai mai pensato al successo’?
No, e non ci penso nemmeno adesso. A me interessa solo la musica, il suo linguaggio e le misteriose relazioni tra i suoi elementi. Comunque ho anche riflettuto sul successo: non ha niente a che fare con la popolarità, ma è riuscire ad emozionare profondamente anche una sola persona.

Quanto è importante il maestro per l’artista? Chi sono i tuoi maestri?
Non credo nell’insegnamento. Credo che il maestro sia solo un mezzo che l’artista utilizza per iniziare ad esprimersi. Nella mia esperienza personale, spesso i maestri hanno cercato di proiettare su di me tutte le loro insicurezze e frustrazioni.
La più grande maestra per un artista è la vita di tutti i giorni, quella fatta dalle persone comuni, con i loro problemi concreti. Il più utile libro di composizione è il mondo che ci circonda!

Odi mai il pianoforte?
Mai. E’ un amore folle!!

Cosa guardi quando cammini per Ascoli Piceno?
Cerco di non guardare quelle persone che, protette dalla vita in provincia, mi comunicano un grande senso di sicurezza di se e di benessere, ricordandomi invece la precarietà esistenziale che ho scelto io. A Milano invece siamo tutti un po’ così, giovani in padella!

Se incontrassi un uomo che non ha mai ascoltato musica in vita sua, cosa gli suoneresti?
Niente, lo farei suonare! Lo farei improvvisare sui tasti neri del pianoforte, gli farei ascoltare la sua musica.

Hai affermato che “L’opera d’arte si completa nel fruitore, nel pubblico”. Da dove nasce questa tua concezione di arte?
Dal ricordo di quando ero piccino. All’età di sei anni ascoltavo la Turandot di Puccini per intero tutti i giorni, a gambe incrociate sul divano. Nella mente costruivo enormi mondi fantastici, storie delle quali ero eroe protagonista…insomma, molto più di quanto Puccini potesse immaginare.

“No Concept” è stato composto a Harlem. Quanto il luogo, l’ambiente, la dimensione sociale influenzano la composizione dei tuoi brani?
I luoghi influenzano la mia voglia di esprimermi, ma la musica è chiusa nella mia testa e non si fa contaminare dall’esterno. No Concept è un disco europeo, gli echi di Jazz e di Gospel sono appena sfiorati.

La tua attenzione per la melodia, il tuo distacco dall’avanguardia del secolo scorso sono (anche o soprattutto) il risultato di una scelta comunicativa?
Davanti alla Musica non ho scelta: un frammento inizia a suonarmi in testa e mi chiede di essere sviluppato “come vuole lui”. Ne può scaturire un brano fortemente comunicativo o qualcosa di incomprensibile. Credo fortemente nel Realismo in Musica, per cui il linguaggio musicale è un’entità a se stante, con un proprio statuto ontologico, che va rispettato nella sua logica interna. Come compositore, di fronte alla Musica, non posso scegliere di essere più o meno melodico o comunicativo, ma posso e devo lavorare duramente perché essa si esprima secondo le sue esigenze.

A cura di Enrico Gaffuri e Diana Garrisi

4 luglio 2006

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI OTTANTA N°3

La prova che la prestigiosa testata per la quale ho l’onore di scrivere non vuole cavalcare l’onda del revival anni 80 che permea questi ultimi mesi se non ultimi anni, è che l’impostazione complessiva del giornale è studiata per scavare la realtà, spiegarla e far discutere, proporre problemi; non bypassarli superficialmente, come invece è chiaro dalle righe di questa rubrica. Il tentativo di questo spazio è non lasciare traccia come Paolo Barabani che nell’81 spopola con "Hop hop somarello". Ma d’altronde l’odierna attualità ci invia messaggi che “riceviamo e volentieri pubblichiamo”: analogie col decennio in questione che nel mondo del calcio sono palesi.

Nell’80 scoppia il più grande scandalo nel calcio (fino ad oggi): Milan e Lazio finiscono in B per il Totonero e viene squalificato Paolo Rossi il più rappresentativo calciatore italiano. Oggi Milan e Lazio rischiano fortemente la B, se non ci andranno (soprattutto il povero Milan) sarà solo per merito di Borrelli il Cattivone. Buffòn ha dichiarato che a Torino si annoiava molto, indi per cui ha scommesso milioni di euro su internet, per noia, e potrebbe fare una brutta fine. Passerà sere-nere, altro che Sere-dova.

La Juventus nell’81 ruba uno scudetto alla Romantica Roma anni ‘80; nel 2006 i derubati sono tutti ma tant’é. Forse vista la mole del bottino quest’anno pagherà. E’curioso che nell’83 lo scudetto lo conquisti proprio quella Roma: come succederà nel 2007 poiché la serie A sarà composta da 2 squadre,Inter e Roma, le sole pulite: e l’Inter arriverà seconda (perché terza non può).

C’è da sperare che il Milan retroceda ancora come gli accadde nell’83, senza pagare stavolta, ma sul campo per manifesta inferiorità.

Certo poco prima dei Mondiali dell’82 l’Italia pareggiava 1 a 1 con la Svizzera e poi vinceva i Campionati. Anche quest’anno abbiamo fatto 1 a 1 con gli imprevedibili elvetici… e qui mi fermo. Vorrei che questo pezzo fosse ricordato come oggetto apotropaico.

Fabrizio Aurilia