26 giugno 2009

CHE NE SARA' DI NOI - Seconda Parte

Dall'archivio delle tesi i titoli più originali

Nell’ultimo numero vi abbiamo lasciati con la promessa di un resoconto sulla nostra spulciata all’Archivio delle Tesi di laurea, ebbene, eccoci. Vista la mole di titoli abbiamo deciso di consultare gli elaborati prodotti, nella Facoltà di Lettere e Filosofia, l’ottavo anno di ogni decade, dal 1928 al 1998. I primi anni presi in esame non si distinguono per l'originalità dei titoli: è dagli anni ‘60 che cominciano le tesi più particolari, con argomenti al passo con il periodo in cui sono state scritte. Dante, gli autori del ‘700 italiano e il territorio e la storia locali (Brescia e provincia fanno proseliti) cedono il passo alle nuove tematiche, dalle pari opportunità alle indagini sociologiche, alle nascenti realtà filosofiche, letterarie e scientifiche. Sono infatti del biennio 1968-69 tesi come: La narrativa folk afro americana; Femminismo e antifemminismo: il dilemma intellettuale e sociale di Mme De Stael; Falsa coscienza e società.
La poliedricità di un presente in costante mutamento diventa così sempre più soggetto accademico, e se a questo aggiungiungiamo esperienze e interessi personali, ne esce una variegata gamma di titoli, più o meno rispettabili, che sono finiti nella nostra Classifica delle tesi più originali, di cui, sotto, in ordine decrescente, la top ten:

1. La mitopoiesi ufologica – Stefania Genovese (FIL 1988-89)
2. Stati di coscienza alterata indotti da droghe psichedeliche (1978-79)
3. Contributo a uno studio di stregoneria mediante l’uso di metodologie informatiche (1987-88)
4. L’ambivalente rapporto cittadino-Polizia di Stato (1987-88)
5. Risonanze dell’esperienza scout in età adulta: un’esperienza autobiografica – Carlo Iato (1988-89)
6. La Vespa: storia e contenuti simbolici di una comunicazione agli adolescenti- Manuela Bisio (FIL 1988-89)
7. La lingua delle pagine gialle di Firenze e Milano – Teresa Antonietta Palmieri – (LETT 1988-89)
8. Prima e dopo la patente: vissuti e rappresentazioni dell’auto negli adolescenti a Milano – Andrea Sansovini – (FIL 1988-89)
9. Una ricerca geografica sulla musica di consumo a Milano - Filippo salteri (LETT 1988-89)
10. Il sé e gli atteggiamenti nella psicologia del consumatore visti attraverso l’esempio dell’auto monovolume – Silvia Balbi (FIL 1998-99)

Questa classifica non vuole naturalmente dare un giudizio sul valore scientifico delle tesi in sé, ma ci sembrava simpatico proporvi questi titoli, e invitarvi magari, se non avete ancora pensato al tema della vostra, di tesi, a provare con qualcosa di originale, sondare un po’ i tempi e non farvi fossilizzare da manuali e antologie.

E a quanto pare la necessità di tenere dietro al tempo ha poi prodotto, alla Sapienza di Roma, un curioso risultato: la liberalizzazione del formato della tesi. Alla Facoltà di Scienze della Comunicazione, su iniziativa del Professor Morcellini, ora Preside di Facoltà, le tesi di laurea hanno infatti dismesso la veste canonica della dimensione A4 con copertina rigida e colori istituzionali per realizzare le pulsioni creative dei propri autori.
Il prodotto accademico diventa sempre più simile a un prodotto editoriale vero e proprio, e si serve senza troppe remore di una grafica accattivante, che integra a un paratesto originale immagini e foto, si serve di materiale cartaceo diverso e di tutti i formati a disposizione.
Forma e contenuto, ormai di accertata indissociabilità nelle differenti realizzazioni della comunicazione, trovano così consonanza e corrispondenza nel lavoro di studenti che proprio di questo si occupano, di comunicazione. Sarebbe forse un po’più azzardato aspettarci che la tesi di un matematico abbia la sagoma di un pi greco o di un infinito. E credo sempre per la medesima ragione, per cui una forma asciutta in questo caso può aiutare alla chiarezza della comprensione del contenuto. Lo scopo rimane sempre lo stesso, quello della divulgazione, e la trovata di Morcellini può forse favorire l’uscita delle tesi dall’ovile accademico, coerentemente alle direzioni di innovazione e creatività proprie del suo campo di studi. Le ritrosie non sono certo mancate: la paura è soprattutto quella che la pubblicazione universitaria diventi a pieno titolo un’operazione di marketing. A supporto di questa reticenza c’è tra l’altro l’idea, apparentemente assai pubblicitaria, di accompagnare la tesi effettiva con una brochure, destinata a famiglia e amici del laureato, che ne presenti e riassuma il contenuto. Potremmo, chissà, trovarci di fronte a un nuovo oggetto di collezionismo, accanto ai sottobicchieri dei pubs e ai portacenere dei ristoranti, ma non escluderei dietro al pieghevole una visione realistica del momento della laurea per il pubblico che vi assiste, che è più che altro un momento di supporto all’amico o al parente, e ha ben poco della condivisione di contenuti.

Detto ciò rimane sempre valido l’invito a tirar fuori dal cappello qualche bella tesi che faccia almeno a gara per entrare nella nostra Classifica.

Giuditta Grechi

25 giugno 2009

CHE NE SARA' DI NOI – Prima Parte

Il percorso (accidentato) delle tesi universitarie

Campeggiano in bella mostra sullo scaffale più in vi­sta della sala, stanno nascoste in un cassetto in fondo all’armadio, o piano piano, migrano dalla sala al cas­setto. O, ancora, prendono un po’ di polvere nell’uf­ficio del nostro relatore e qualche volta riescono per­fino a farsi stampare da una vera casa editrice e a spiccare il volo verso altri scaffali. Ma che fine fa fare l’Università alle nostre tesi di laurea?

Per quanto riguarda le tesi quadriennali (vecchio or­dinamento) e magistrali, queste vengono conservate in appositi magazzini a cura dell’Archivio tesi della Divisione Coordinamento Biblioteche dell’Università, e sono consultabili presso gli uffici dell’archivio, in via Festa del Perdono (vedi box). Nei magazzini gli elabo­rati sono custoditi in formato cartaceo, per le pub­blicazioni prodotte fino al 1989, e in microfiche, per quelle prodotte fino ad oggi. Per disposizione degli organi accademici non vengono invece conservate le tesi triennali, la cui presenza è attestata esclusi­vamente dai verbali delle discussioni di laurea. La decisione degli organi accademici non sorprende se si pensa alla quantità di pubblicazioni che ha portato la Riforma Universitaria del ’99, entrata in vigore nel 2001/2002: i soli laureati della Facoltà di Lettere e Filosofia, che nel 2002 erano poco più di 1300, sono passati ad essere, nel 2007, quasi 2680. Un incremen­to di più del doppio che, come abbiamo direttamente constatato, ha creato non poche difficoltà: dalla ca­renza di aule adeguate a contenere con dignità tutti gli studenti, agli appelli sovraffollati che arrivano a far durare gli esami anche due settimane, senza di­menticare le diverse biblioteche e aule studio, impra­ticabili negli orari di punta.

Tralasciando la complessa riqualificazione degli esami in termini quantitativi –per cui la sensazione diffusa è che laurearsi ora equivalga più o meno a raccogliere i bollini del supermercato- e rimanendo nell’ambito degli elaborati finali, è indubbia la loro svalutazione, sia da parte degli studenti che dei do­centi. In 50-60 pagine, comprensive di un paratesto spesso non indifferente, il valore scientifico della tesi di primo livello, per quanto meritevole possa essere, scade nettamente rispetto al passato, finen­do per diventare quasi una perdita di tempo. Un in­toppo per chi ha intenzione di proseguire con una laurea specialistica e un testo in più da correggere per i professori.

Emblematico in questo senso il caso di Napoli, dove alcune tesi della Facoltà di Economia Aziendale dell’Università degli Studi Parthenope, destinate allo smaltimento, sono finite lo scorso febbraio in un cassonetto, ironia della sorte, proprio davanti la sede di discussione delle lauree stesse. Che la colpa del misfatto sia dell’inefficienza della ditta appalta­trice, come ha sostenuto l’Università, non ci impe­disce di pensare all’abbandono delle tesi nel mare magnum dei rifiuti napoletani come ad un inconscio segnale dell’ “ottima” considerazione di cui godono i frutti del lavoro universitario.

Uffici Archivio Tesi della Divisione Coordinamento delle Biblioteche

Via Festa del Perdono 7, entrata dal lato sinistro del Cortile d’onore

Orari: lun-ven 9.00-12.00, 14.00-16.00

Tesi di laurea:

Sola consultazione

Autorizzazioni:

- autorizzazione scritta dell’autore della tesi (a cura dell’Archivio Tesi);

- autorizzazione scritta del Preside della Facoltà presso la quale la tesi è stata discussa (a cura del richiedente e su modulo da ritirare presso l’Archivio Tesi);

- autorizzazione scritta del relatore qualora il richiedente stia compilando la propria tesi (a cura del richiedente).

Tesi di dottorato:

Sola consultazione

Ulteriori informazioni:

http://www.unimi.it/ateneo/19622.htm

Di contro, elidendo generalizzazioni eccessivamente negative, alcune università (ad esempio a Padova) da qualche anno hanno sviluppato progetti indirizzati verso la valorizzazione dell’impegno intellettuale de­gli studenti, come ad esempio la messa on line delle tesi stesse. A livello nazionale, il CNR e l’Inforav (Isti­tuto per lo sviluppo e la gestione avanzata dell’in­formazione), in collaborazione con il MIUR, hanno sviluppato, dal 2005, un sistema documentale per la pubblicazione via web delle migliori tesi di laurea e dottorato delle Università che partecipano all’inizia­tiva (Politecnici di Torino e Bari, La Sapienza, LUISS e LUSMA di Roma, la Scuola di Dottorato del Politecnico di Milano, le Università degli Studi di Tuscia, Cagliari e Torino). Stando alla dichiarazione di intenti, il pro­getto PubbliTesi -consultabile sull’omonimo sito- si propone di “contribuire ad evidenziare il patrimonio di idee, creatività e ricerca, contenuto nelle migliori Tesi, ed a collegarlo con il tessuto sociale e produtti­vo del Paese, anche in relazione agli attuali scenari di competitività globale”.

Aspirazione meritevole, quantomeno per la conce­zione dell’università come luogo aperto alla società e non come compartimento stagno. Per quanto con­cerne il nostro Ateneo, il progetto di digitalizzazione delle tesi è ancora in studio di fattibilità: l’onere eco­nomico non è indifferente.

Nel frattempo, incuriositi dalla possibilità che esi­sta un dopo oltre l’Università, abbiamo sbirciato nell’elenco dell’archivio delle tesi alla ricerca di qualche titolo originale. Il risultato, dai risvolti an­che molto divertenti, verrà pubblicato sul prossimo numero di Vulcano.

Giuditta Grechi e Roberto Moscardi

23 giugno 2009

"LA RABBIA" di Pasolini e Guareschi

Ma lei non sa cos’è un uomo medio? E’ un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Questo faceva dire Pasolini a Orson Welles in "La ricotta", per molti la sua opera più riuscita. Ciò nonostante l’anno seguente, il 1963, il regista accettò di girare un film con quell’umorista che dell’uomo medio e dei suoi pensieri più mediocri era incarnazione e simbolo: Giovannino Guareschi. Il film si intitolava "La Rabbia", e prevedeva all’inizio il solo intervento di Pasolini. Subito dopo però, forse per par condicio o forse per calcolo commerciale,
il produttore Gastone Ferretti decise di affiancare al poeta di Casarsa il creatore di Peppone e Don Camillo.
Il film divenne quindi un distico, costringendo Pasolini a tagliare una ventina di minuti già predisposti. Per questo motivo Giuseppe Bertolucci, fratello del regista Bernardo, ha realizzato ben quarantacinque anni dopo quel frammento mancante, seguendo con zelo la sceneggiatura. Eliminata poi la parte di Guareschi ha ricostruito in modo filologicamente ineccepibile l’originale mai girato.
L’opera ricostruita, presentata alla Mostra del Cinema di Venezia, ha suscitato non poche recriminazioni: l’esclusione della parte di Guareschi è parsa ad alcuni, infatti, il solito atto di snobismo di certi intellettuali di sinistra.
Senza addentrarsi in tediose polemiche, bisogna precisare che all’epoca la pellicola fu un flop: ritirata dalla distribuzione dopo pochi giorni, fu considerata subito eccessivamente straniante per lo spettatore, sballottato dall’idealismo progressista e sognatore di Pasolini al reazionario qualunquismo di Guareschi, con eccessi faziosi per entrambi. Tutti e due gli autori infatti, compongono la loro parte con frammenti di cinegiornali dell’epoca, commentando immagini simili in modo antitetico.
Pasolini affida a Renato Guttuso le sue parole, commentate dallo struggente Adagio di Albinoni e dalla lettura da parte di Bassani di alcune sue poesie. Si parla, in brevi sequenze, dei problemi di allora e di sempre: il razzismo, la libertà, la dittatura, il consumismo.
Gente di colore, è nella speranza che la gente non ha colore,(…) gente di colore, è nella vittoria che l’unico colore è il colore dell’uomo. Siamo in tempo di decolonizzazione, e Pasolini si schiera come sempre dalla parte degli ultimi, mentre le immagini descrivono la fresca indipendenza dell’Algeria.
Il regista dà un taglio ancora più polemico quando mostra le ridicole fanfare dell’incoronazione della regina Elisabetta, con il consueto corollario di piccole ipocrisie borghesi. L’oscurità della coscienza non richiede dio bensì le sue statue, e mentre vediamo la folla radunata al funerale di Pio XII, la voce fuori campo si chiede se mai avremo un papa figlio del terzo mondo.
Il culmine dell’opera è la poesia dedicata alla bellezza, ultimo resto del passato e prima anticipazione del futuro. Bellezza sublimata in Marilyn Monroe: tu sorellina più piccola, quella bellezza l’avevi addosso umilmente, e la tua anima di figlia di piccola gente, non ha mai saputo di averla, perché altrimenti non sarebbe stata bellezza. E’ solo nella bellezza pura, semplice, la possibile risposta alla rabbia: è possibile che Marilyn, la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?.
Qui finisce, in un’atmosfera onirica e affascinante, l’opera restaurata, mentre per lo spettatore del ’63 era invece il turno di essere catapultato nell’ opposto mondo ideologico di Guareschi, da Pasolini definito addirittura prelogico. Amore di chiarezza o faziosità politica? Claudio Lolli descriveva la borghesia come sempre lì fissa a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto. Si può essere d’accordo o no, ma sicuramente lo sguardo di Guareschi non va molto più lontano.
Nel suo caso la rabbia per la contemporaneità non pare rivolta verso un futuro migliore, ma piuttosto verso la più gretta restaurazione. Il processo di Norimberga è considerato una vendetta illegittima, viene disprezzato Kennedy, si rimpiangono gli imperi coloniali, e allo schifo per gli omosessuali si alterna quello per le donne che vanno in giro scollacciate. La regina Elisabetta che balla con un principe africano viene commentata con disgusto dicendo "Una regina d’Inghilterra, una duchessa di Kent, ballare con un negro!"; mentre una ragazza bianca che dona un fiore a un nero suscita l’illuminato commento: "Guardate ragazze bianche che implorano dai negri un sorriso!".
Viene da chiedersi se chi ha deprecato l’esclusione a Venezia di questo delirio da vecchio commerciante abbia realmente guardato l’opera originale.
Eppure è proprio oggi che l’opera va vista e fatta vedere nella sua interezza.
All’epoca, prima che il tempo potesse ergersi a giudice, le tesi potevano apparire il semplice frutto di punti di vista contrapposti. Da un lato il comunista, forse un po’ troppo sognatore; dall’altro il conservatore, a volte un tantino esagerato.
Ma è oggi che qualsiasi spettatore, anche il più narcotizzato dalle televisioni, non può non cogliere il sapore di controriforma che trasuda dall’opera di Guareschi, specialmente se contrapposto alla scottante attualità della parte di Pasolini.
Ma è davvero colpa dell’umorista romagnolo se la sua parte ha subito così tanto l’usura del tempo? Non credo. Le sue argomentazioni sono le stesse che il pensiero reazionario di allora (oggi lo si chiamerebbe teocon) proponeva su larga scala. E’ proprio quel modo di intendere il mondo, proiettato anacronisticamente verso il passato, che porta ad un pensiero che nasce già vecchio. Chi difende una tesi con il solo argomento della tradizione, della consuetudine, si trova inevitabilmente ad essere presto un relitto, a volte grottesco.
Piace pensare che fra cinquant’anni, le registrazioni di certi dibattiti dei giorni nostri su omosessualità e immigrazione, faranno versare qualche lacrima di rabbia impotente allo spettatore. Le stesse che versa oggi chi guarda lo spezzone di Guareschi.

Filippo Bernasconi

NON SONO UNA SIGNORA/4 ART.19

Ci sono questioni che stanno al buon cuore ed al buonsenso della gente, prima ancora che ai diritti costituzionali. Italiani brava gente, parole che riecheggiano con feroce ironia nell’inseguire le notizie che quotidianamente ci mostrano che buon cuore e buonsenso li abbiamo persi, in quanto popolo, da tempo.
In momenti come questi può tornare utile ricercare nel diritto quei principi di convivenza sociale che affermammo con convinzione, un tempo, e considerarli una guida che ci possa sostenere, oggi. L’Italia ha ancora una carta scritta che raccoglie questi principi. E questa bella e giovane Costituzione ne afferma uno di cui appare necessario ricordare il contenuto:

art. 19: Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

In questo articolo innanzitutto viene proclamato un diritto. Un diritto, dunque una cosa diversa rispetto ad una libertà. Se la seconda, infatti, concerne la nostra sfera privata – ed è compito dello Stato lasciare lo spazio di autonomia necessario alla sua esplicazione – il diritto investe in pieno l’ambito sociale e genera, in capo alle istituzioni, un corrispondente dovere di attivarsi perché l’esercizio dello stesso sia pienamente garantito.
L’intervento di uno Stato laico in materia di aiuti alle confessioni religiose é un tema spinoso e complesso, ma la religione come fatto personale e sociale esiste, e certamente non può essere causa di discriminazione. Occorre sottolineare che, nel nostro Paese, esiste un diaframma fra l’articolo 8 della Costituzione («tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge») ed il reale trattamento delle differenti confessioni.
Secondo la legge tutti possono pregare in pubblico ed in privato le loro divinità. Tutti possono fondare scuole religiose paritarie. Tutti possono costruirsi luoghi di culto e di preghiera. Spiacerà a molti analfabeti del diritto, ma non esistono presunti principi di reciprocità o emergenze sicurezza che tengano, in questo campo.
Insomma, non si sente proprio il bisogno di argomentazioni superficiali che discrimino lo straniero solo perché "non può dirsi cristiano". Piuttosto, è necessario, come le nostre radici religiose insegnano, cercare di amare "l’altro" come se stessi. O quantomeno, secondo quanto la
Costituzione insegna, aiutarlo a costruirsi una moschea dove pregare, in tranquillità.
Marco Bettoni

21 giugno 2009

REPORTAGE: IL SOGNO (INFRANTO) DEI BALCANI


SARAJEVO OGGI

"Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita."
Paolo Rumiz

La strada per raggiungere Sarajevo, ancora un po’ bagnata per la pioggia degli ultimi giorni, ci scivola sotto, e sembra un fiume illuminato dai raggi della luna piena. Ci godiamo le colline scure, e le distese di nulla che circondano la E171, la strada statale a due corsie e tanti buchi che ci sta portando da Belgrado a Sarajevo.
Poi, di colpo, eccola. Così, dal nulla, in fondo ad una curva che porta sul fondo della valle formata dal fiume Miljacka, appare la città. Il cartello su cui è scritto in nero Сарајево ci sfugge, ma siamo sicuri di essere nel posto giusto. Un enorme palazzone giallo, semi distrutto, ci dà il benvenuto nella "città del riposo". Una quindicina di anni fa, le foto di questo edificio moresco invadevano le pagine dei giornali. Ora ne rimangono porte chiuse con assi di legno e due lapidi: la Biblioteca nazionale e Universitaria di Sarajevo è stata uno dei luoghi simbolici che l’esercito serbo ("i terroristi" per citare la lapide sul portone principale) ha messo a ferro e fuoco durante l’assedio della città, iniziato nel 1992.

E’ giovedì sera, e la città che abbiamo davanti non è certo quella che ti aspetti. Abituati a riceverne immagini fatiscenti, di edifici in fiamme e di morte, ci stupiamo -forse ingenuamente- vedendo la grande quantità di giovani, ragazzi esattamente come noi, che bevono e ballano in locali non molto diversi da quelli nostrani. Sembra, ad un primo sguardo, che tutti qui cerchino di lasciarsi il passato alle spalle, come se si fossero appena risvegliati da quel sogno di convivenza interetnica che sembrava promettere Sarajevo e che si è trasformato in incubo all’inizio degli anni ’90. Così, sotto lo spesso velo del buio notturno, Sarajevo nasconde le sue cicatrici. Già durante il lungo assedio (1992-1995, il più lungo della storia bellica moderna) alcuni reporter sottolineavano come la città provasse a rimanere viva. Nonostante si trovassero senza elettricità, gas e acqua potabile, gli abitanti di Sarajevo continuavano a frequentare i propri luoghi di lavoro, a pubblicare giornali, e trovarono le forze per scavare un tunnel di 800 metri, che univa la città all’aereoporto (zona neutrale sotto il controllo dell’ Onu) da cui arrivavano gli aiuti umanitari.
Questo tunnel, che proprio come nel film Underground di Emir Kusturica parte dal soggiorno di una casa privata, fu molto probabilmente la vera salvezza della città.

Il giorno seguente, ci accoglie un cielo azzurro a chiazze di nuvole bianche. Si respira un’ottima aria, e il verde delle colline che circondano la vallata al cui centro si trova la capitale Bosniaca rendono il tutto quasi surreale, mostrandoci abitazioni sventrate appoggiate su un paesaggio naturale che ricorda la Svizzera. Lo osserviamo dallo "Sniper Alley", il vialone principale di Sarajevo, che unisce la parte industriale con la parte vecchia della città. Il triste soprannome gli fu appioppato nel 1992: circondata da alti palazzi e principale arteria di passaggio, fu durante l’ assedio un formicaio di cecchini. Si racconta che capitasse spesso di sentire l’urlo "Pazi – Snajper!"(Attenzione – cecchino!) a chi, nascondendosi dietro blocchi di cemento o correndo all’ impazzata, cercava di raggiungere l’ altra parte della città. Su questa strada, la cui storia è spesso diventata il livello da superare di un qualche videogioco di guerra, sono state colpite (secondo dati ufficiali del 1995) 1030 persone, e 225 sono rimaste uccise. Se lo Snjper Alley era infarcito di cecchini serbi (si annidavano tra i tetti delle case, delle chiese e delle moschee, ma anche tra le baracche), buona parte della zona est della città era cosparsa da anti-cecchini bosniaci. Spesso ragazzi senza divisa o caratteri distintivi particolari, assoldati per stanare i tiratori serbi facendo il loro stesso mestiere. Da questa posizione, nella parte est dello Snajper Alley, si vedono in lontananza gli alti palazzoni di Grbavica, quartiere che, per la maggioranza serba della sua composizione etnica, fu bersaglio durante la guerra. Dal ‘95 fu assegnato all’ etnia croato-musulana, con conseguente depopolazione serba, e nei piani alti degli edifici si vedono ancora gli squarci dei bazooka. Oggi, da quella zona, c’è una splendida vista a nord, verso la collina di Kosevo, su cui troneggia l’antenna radio-televisiva della città. Ai suoi piedi una distesa di migliaia di puntini bianchi: il più grande cimitero musulmano della città.
Immergendosi verso la parte vecchia della città, passando davanti alla cattedrale di San Vincenzo, si giunge in un tempio ebraico. Girato l’angolo ed entrati nella piazza principale, la grande Moschea di Gazi Husrev Bey (restaurata dopo la guerra grazie a fondi donati dal governo Saudita) completa la lista degli edifici sacri delle quattro principali religioni monoteiste presenti nell’arco di tre isolati.

Di fronte alla mosche si estende la Barscarsija, la città Ottomana, in cui spiccano i minareti tra i tetti bassi delle case. Un brulichio di locali e di turisti si avventurano tra le sue strette viuzze, che si aprono sulla pizza principale. In questa zona che profuma d’oriente si mescolano alla perfezione le due anime della città. Una è quella storica e locale, dimostrazione empirica di possibile convivenza tra culture e religioni diverse, quella dipinta da Kusturica in cui un pope ortodosso si ubriaca insieme agli altri invitati ad un banchetto di nozze musulmano. L’altra, è quella di una città nata dopo la guerra, con la presenza della Comunità Internazionale che si concretizza nelle centinaia di turisti che affollano la Ferhadija, la via dello shopping.
Centro del quartiere è la piazza con la famosa fontana Sebilj, simbolo della città. Questa, come pare tutte le fontane che si trovino davanti alle moschee, fa parte di in una rete idrica parallela a quella cittadina, che garantì la continua erogazione di acqua anche durante il periodo di guerra. Da qui, alzando la testa, si vedono tutte le montagne che circondano Sarajevo, su alcune delle quali ci sono ancora gli impianti di risalita costruiti nel 1984, in occasione delle Olimpiadi invernali. Dopo solo qualche metro ci ritroviamo sperduti nel bazar,con il passo scandito dal rumore dei martelletti dei vari artigiani che, mostrandoli con fierezza, battono il ferro degli dzezva e delle tazzine per servire il caffè turco.

Per raggiungere la parte a sud della città passiamo sul ponte dove nell’aprile 1995 le truppe serbe spararono sulla folla che manifestava contro la guerra, uccidendo Suada Dilbrovic, studentessa croata che viene considerata, da parte bosniaca, la prima vittima della guerra. La parte della città al di là del Miljacka porta molto più del centro i segni della guerra. Certo, qui si vedono meno lapidi sui muri e spuntano dal cemento meno "rose di Sarajevo" in memoria dei caduti, ma risultano altrettanto eloquenti i fori che ricoprono i muri delle case, tagliando in due le facciate, e i palazzi, quasi come monumenti lasciati ancora in macerie. Sul muro di una casa che dà sul fiume la scritta in rosso "Ne zaboravit ei Srebrenica"("Non dimenticate Srebrenica") cattura la nostra attenzione.
Riattraversato il fiume, luccicante ai raggi del sole che si avvia verso il tramonto, torniamo verso il centro della città, passando sul Ponte Latino, che fu teatro dell’ assassinio di Francesco Ferdinando per mano di Gavrilo Princip, il 28 giungo 1914. Passiamo sul ponte in cui la storia del ‘900 ebbe inizio, all’interno di una città in cui nel secolo scorso "sembrava che l’orologio della storia non potesse fare a meno di andare a scandirvi i suoi colpi". Nel 1995, almeno all’atto pratico e dopo migliaia di morti, il cerchio si è chiuso, il serpente si morde la coda e tutto torna al principio. Forse la Storia doveva far espiare a Sarajevo la colpa di essere stata il simbolo di quell’omicidio, rendendola martire dell’ incapacità di noi europei di imparare dai nostri errori.

Daniele Grasso

La Guerra Balcanica in Bosnia:
18.11.1990:
prime elezioni libere in Bosnia-Erzegovina.
29.2.1992: referendum per l’indipendenza della Bosnia, contestato dalla componente serba della popolazione che non vi partecipa.
2.3.1992: risultati favorevoli alla separazione dalla Jugoslavia provocano i primi scontri a Sarajevo tra musulmani e serbi. La presenza etnica composita (serbi, croati e musulmani) e la mescolanza sul territorio delle diverse componenti provoca cruenti scontri militari in diverse aree, tra cui quella di Bihac e di Sarajevo.
In Bosnia sono così presenti tre entità statuali:
-repubblica di Bosnia, con presidente Aiija lzetbegovic (riconosciuta in sede Ue e Onu)
-una repubblica serba di Bosnia, con presidente Radovan Karadzic(le cui forze armate sono al comando del generale Ratko Mladic)
-una repubblica croata dell’Herzeg-Bosna, con presidente Mate Boban, espressione dei separatismo della componente croata
Gennaio ‘93: inizia l’assedio e il bombardamento di Sarajevo da parte dei serbi bosniaci.
18 Marzo1994: l’Onu ottiene un accordo tra serbi e musulmani di Bosnia che porterà alla fine dell’assedio di Saraievo (lo stesso Milošević il 13.4.1994 rilancia le trattative, su sollecitazione della Russia)
4.9.1995: scade l’ultimatum della Nato ai serbo-bosniaci per il ritiro delle armi pesanti dalle collina attorno a Sarajevo (dal 11.10.1995 la tregua sarà effettiva).
21.11.1995: Dayton (Ohio) i presidenti di Bosnia, Croazia e Serbia si accordano per la pace (il trattato di pace sarà firmato a Parigi il 14.12.1995).

20 giugno 2009

DE SINISTRA

Sono ufficialmente tornati di moda i libri sulla crisi della Sinistra: dopo "Sinistrati" di Edmondo Berselli e "Eutanasia della Sinistra" di Riccardo Barenghi, le case editrici italiane hanno reso noto che, nell’arco di soli due mesi, sono giunti ben centododici pamphlet sullo spinoso argomento in questione.

"Vulcano" ha deciso di presentare ai propri lettori tre volumi di recentissima pubblicazione.

1)"Gli inciuci, i pizzini e lo stallo dei riformisti", scritto a quattro mani da Massimo D’Alema e da Nicola Latorre ed edito da Mondadori, si preannuncia come il caso letterario dell’anno. Il saggio dei due noti politici del P.D. contiene alcune perle da non perdere: si parte con una prefazione di Silvio Berlusconi, intitolata "Finalmente ho trovato una Sinistra socialdemocratica, moderna, europea e, soprattutto, che non è più di Sinistra!", per giungere all’ultimo capitolo, nel quale vengono pubblicate le trascrizioni delle telefonate bollenti tra Fini e D’Alema e tra Latorre e Bocchino. Il libro è stato elogiato da Angelo Panebianco sul "Corriere della sera", è stato oggetto di una puntata speciale di "Porta a Porta" ed è entrato immediatamente nella sterminata biblioteca di un noto bibliofilo: Marcello Dell’Utri.
2) "La papaya, i cocchi e le mutande di Valeria Marini: le frontiere della nuova Sinistra" è l’ultima fatica letteraria di Vladimir Luxuria, data alle stampe da Mondadori. La vincitrice dell’ultima edizione de "L’Isola dei Famosi" è convinta che il nuovo leader del fronte progressista italiano si possa trovare allestendo un reality show nella Foresta Amazzonica: il vincitore dovrà dichiararsi bisessuale, sarà obbligato a mangiare un chilo di cocchi avariati e dovrà essere presente a cinquanta puntate di "Quelli che il calcio". Si vocifera già sui concorrenti: sembrano sicure le partecipazioni di Fausto Bertinotti, Alfonso Pecoraro Scanio, Piero Fassino e di uno Yeti della Val Brembana, unico iscritto al Partito Socialista.
3) "Si può fare, ma anche no. Si può osare, ma perché?! Si può scrivere, ma anche…sì! Bob Kennedy, il pensiero democratico, gli scheletri nell’armadio di Massimo D’Alema, le emergenze umanitarie in Africa e i bucatini all’Amatriciana" è il nuovo saggio di Walter Veltroni, pubblicato da Mondadori. Emblematica la prima frase del libro: "Sono stato iscritto al P.C.I., ma non ero comunista. Se non ve n’eravate ancora accorti, non sono nemmeno di Sinistra!".


Luca Quaglia

Il freedrink artecò: il Salone del Mobile


Per un giovane designer o architetto la Settimana del Design è un appuntamento da non perdere, che si lascia attendere per tutto l’anno. Ma che cos’è per chi invece non è “del settore”?
I marciapiedi si affollato di studenti, professionisti e quant’altro, tutti a caccia di nuove emozioni, nuovi stimoli e anche, perché no, di un party con buona musica e magari un buffet di inaugurazione. È un sabato sera lungo 8 giorni, tra mostre, divertimento, cultura del contemporaneo e freedrinks. È la settimana del Design, un momento unico per la città di Milano che si anima con mille eventi, mostre e installazioni. Invade l’intera città dialogando con essa e con chi la vive, abitante o turista, e parla non solo la lingua del design ma anche dell’arte e della cultura in modo trasversale.
Nasce attorno al Salone Internazionale del Mobile di Milano (http://www.cosmit.it/), probabilmente l’evento principale del settore dell’arredamento e del design a livello internazionale.
Con le varie edizioni susseguitesi ogni anno, la Fiera di Milano, sede ufficiale del “Salone”, ad un certo punto non bastata più a contenere questo evento in poche migliaia di metri quadri, e si è spalmato su tutta la città, tanto da trasformarsi in un evento nell’evento.
Il “Salone”, quest’anno giunto alla sua 48° edizione, richiama a sé tutte le più importanti aziende di arredamento dal mobile classico a quello di design. “Il Salone” è, oltre ad un evento commerciale, un luogo di sperimentazione e avanguardia dove tutte le grandi firme mostrano la loro ricerca.

Da alcuni anni una propria attrattiva se l’è aggiudicata il SaloneSatellite, vale a dire la parte della fiera dedicato ai giovani progettisti, che, a differenza di tutti gli altri padiglioni, è ad ingresso gratuito e dove la ricerca di nuovi linguaggi, forme, materiali e tecnologie giunge al suo culmine diventando una vetrina per tutti i giovani espositori e, soprattutto, mostra ciò che potrebbe essere l’“oggetto” del domani. Se invece si vuole “gustare di nuovo” il passato, l’appuntamento è al Palazzo Reale di Milano (22 Aprile – 21 Giugno) con uno dei più importanti eventi collaterali al “Salone”, che, in collaborazione con il Comune di Milano, ha organizzato la mostra intitolata ''Magnificenza e Progetto – cinquecento anni di grandi mobili italiani a confronto”, ove si può scorgere un interessante confronto tra passato e presente per capire meglio la contemporaneità.
Un altro importante connubio tra arte e pratica quotidiana al di fuori del canonico “Salone” è nel luogo in cui si instaura il vero dialogo con la città, il cosiddetto FuoriSalone (http://www.fuorisalone.it/) , sempre più sparso e variegato nelle fibre della “milanobynight”. Nelle varie zone della città, piccoli e grandi studi di design, aziende del settore e non, riviste specializzate, gallerie d’arte, istituzioni e perfino locali notturni si impadroniscono della città e del suo tessuto urbano, raccontando, ognuno a modo suo e con i propri mezzi, il design nelle sue mille sfaccettature. La Triennale di Milano, punto fermo durante tutto l’anno per qualsiasi appassionato di design, durante questa particolare settimana fa un po’da padrona di casa. Il 22 Aprile inaugura la Settimana del Design con oltre 15 tra mostre e istallazioni presso la sua sede principale e 9 nella sede della Triennale Bovisa, sede distaccata normalmente dedicata all’Arte Contemporanea.
Se vogliamo vivere e visitare un designer più libero, una realtà più spontanea e meno istituzionalizzata, bisogna dirigersi verso Zona Tortona, ex area industriale dietro alla stazione di Porta Genova ora diventata uno dei poli creativi più innovativi della città, che è senza dubbio la zona più ricca di eventi. Infatti vi possiamo trovare dai piccoli showroom, spesso temporanei, di giovani studi di progettazione, fino ai più famosi spazi espositivi come Superstudio Più, che quest’anno per la prima volta si mette al servizio dei giovani talenti e dei paesi emergenti ("Discovering: other worlds other ideas", 22/27 Aprile 2009), Superstudio 13, sede di diversi studi fotografici in affitto giornaliero, che in occasione della settimana del design cambia destinazione d’uso e non ultimo l’Hotel Nhow, progettato del Interior Designer Matteo Thum e già di per se un opera da ammirare, che ospita diverse installazione tra l’arte e il design.
Inoltre, grazie alla collaborazione tra la rivista “Interni Magazine” e l’Università degli Studi di Milano, i cortili dello storico ateneo milanese saranno per una settimana una delle location più suggestive del FuoriSalone, un luogo di dialogo fra passato e presente. Passeggiando per via Festa del Perdono, infatti, si nota che le esposizioni contemporanee si fondono con l’architettura del passato producendo un’atmosfera unica.
La grande festa di inaugurazione del 22 Aprile (ore 22:00) dà il via all’evento “Interni Design Energies” che ha come tema l’uso dell’energia e la ricerca di soluzioni alternative per un suo nuovo e più consapevole utilizzo.

Questa è solo una parte delle iniziative promosse in questa settimana, ma sia che vi facciate trasportare dalla folla o dal caso, sia che, Guida del Fuori Salone alla mano, sceglierete con cura cosa andare a visitare, scoprirete che la Settimana del Design, oltre che un evento commerciale e di sperimentazione tecnica, si presenta come una grande occasione per incontrarsi e confrontarsi su nuove realtà. Che succeda ad un grande opening party, in un piccolo showroom temporaneo o in uno dei loggiati dell’Università Statale, vivrete la quotidianità contemporanea dell’arte funzionale in maniera più o meno consapevole.

Elena Galbiati Designer
Denis Trivellato

19 giugno 2009

Scienze umanistiche della (dis)comunicazione: quando il sito non collabora

 

“E per qualsiasi ulteriore informazione, andate pure sul sito di facoltà” ha annunciato al microfono la professores­sa Ilaria Bonomi, coordinatrice di Scienze Umanistica della Comunicazione, il giorno della presentazione del corso.

“E per ogni aggiornamento, cercate su internet” hanno ripetuto diversi professori durante le loro lezioni, scriven­do alla lavagna l’indirizzo http://ariel.ctu.unimi.it/corsi/ cdlSuc/home  come punto di riferimento.

 

Peccato che quel tanto decantato sito sia un labirinto di inutilità.

Trovare le informazioni è un’impresa: sono raggruppate all’interno della categoria “Info” (una serie di documenti da scaricare a proposito degli argomenti più vari, elencati secondo un ordine più casuale che cronologico) oppure non sono nemmeno presenti. Per qualsiasi novità a proposito di appelli e iscrizioni ci si limita a rimandare genericamente al sito del dipartimento di lettere e filosofia tramite un link. Sulla bacheca campeggiano gli incipit delle diverse notizie, ma non c’è alcuna possibilità di proseguire nella lettura. Effettuare il log in serve soltanto a veder compa­rire il proprio nome in un riquadro sulla sinistra dell’home page e tra le diverse opzioni offerte c’è una pagina Ariel la cui utilità è universalmente sconosciuta. E poi, come commenta Giulia, studentessa dal raffinato gusto esteti­co: “quel verdino chiaro è davvero bruttissimo!”.

Questi sono solo alcuni dei problemi che rendono il sito di scienze umanistiche uno dei peggio organizzati dell’uni­versità. L’ultimo esempio in ordine di tempo riguarda le info per il test di posizionamento della lingua inglese. Le notizie su data e luogo dovevano essere date sul sito ai primi di gennaio. Sono comparse a nemmeno dieci giorni dal test, dopo che i vari studenti erano già venuti a cono­scenza di ogni dettaglio grazie al passaparola.

In una società in cui è fondamentale stare al passo coi tempi e in una facoltà dedicata alla comunicazione, l’at­tenzione all’informazione e la tempestività del servizio dovrebbero essere una garanzia, non un optional. Ma sem­bra che questo i curatori del sito continuino a ignorarlo.

A meno che tutta questa disorganizzazione sia una scelta mirata per spingere gli studenti a mettere in pratica le proprie conoscenze acquisite e ricercare metodologie co­municative alternative per informarsi senza l’aiuto della pagina web apposita. In tal caso tutti gli SMS, i post su Fa­cebook e le conversazioni istantanee via msn acquisireb­bero una diversa importanza: sarebbero i benefici effetti di un disegno superiore abilmente costruito e lievemente sadico. Ma questa è soltanto un’interpretazione, e come tale richiede il beneficio del dubbio. Però può essere pre­sa come stimolo: fino a quando la situazione resterà la seguente, nulla potrà impedire di sperimentare scelte in­dubbiamente più rapide e sicure del sito internet. Come ad esempio, i segnali di fumo.

Elisa Costa

16 giugno 2009

INTERVISTA A BASILIO RIZZO Milano: le mani sulla città

Se il prestigio e la fama di un uomo si misurassero dalla qualità delle sue azioni il nome di Basilio Rizzo, Presidente del gruppo consigliare Uniti con Dario Fo per Milano, sarebbe molto noto a livello nazionale. Ma nel bel paese le cose vanno diversamente e si ha l’anomalia per cui nomi d’imprenditori e affaristi, di calciatori, veline e marionette varie della tv compaiono su tutti i giornali, mentre quelli di chi lavora per migliorare il proprio paese rimangono spesso in ombra o illuminati di tanto in tanto da qualche lucina. Eletto per la prima volta in Consiglio Comunale a Milano nel 1983, Rizzo viene confermato in tutte le elezioni successive. Da allora concilia l’impegno di insegnante con le quotidiane battaglie che negli anni lo hanno visto protagonista contro gli intrighi della mala politica a Milano.
Lei ha visto mutare il volto di questa città nel corso di oltre 20 anni: come giudica il clima che si respira attualmente a Palazzo Marino?
Rispetto agli anni ‘80 è mutata l’istituzione: con la riforma Bassanini è diminuita l’importanza del Consiglio Comunale. Ciò di cui però non si può incolpare Bassanini è la degenerazione determinata dai sindaci che hanno progressivamente eroso qualsiasi livello di controllo e di rapporto con il Consiglio, operando una scientifica demolizione del suo ruolo. Vediamo il caso delle presenze: il sindaco di Milano nel 2008 ha partecipato ad appena due sedute. La scelta di Bassanini di stabilire che gli assessori non potessero essere anche consiglieri ha un risvolto negativo. Oggi l’assessore dipende, nella nomina e nella permanenza al suo incarico, direttamente dal sindaco. Ecco perché gli assessori non hanno nessun interesse a seguire i lavori del Consiglio. Questa separazione rischia di produrre solo danni, e ciò è testimoniato dal fatto che attualmente a Palazzo Marino vige un rapporto non più da consiglio democratico ma da signoria, da podestà.

In occasione di una Conferenza sulla mafia al Nord lei denunciò la costituzione, da parte del sindaco Moratti, di "un gruppo di lavoro, una seconda istituzione non ufficiale" che avrebbe accesso ad importanti documenti, laddove tale accesso verrebbe spesso osteggiato per l’opposizione. Ci chiarisce questo punto?
Che il sindaco si doti di persone di sua fiducia con le quali intende confrontarsi sarebbe accettabile, oltre che perfettamente legale, se solo ciò avesse come contrappeso un Consiglio Comunale libero. Mi riferisco all’opposizione ma anche alla maggioranza: i suoi esponenti ormai sono diventati degli "animali da voto", l’importante è che alzino la mano. Meno parlano, meglio è. Io denuncio il fatto che il sindaco, per tutte le questioni più rilevanti, si doti di esperti che hanno accesso ad informazioni che spesso sono precluse allo stesso Consiglio. Se io chiedo di visionare una delibera, prima di averla fra le mani deve trascorrere un mese. Queste "persone di fiducia" hanno accesso alle carte quando e come vogliono. Inoltre, questi gruppi spesso non vengono formalizzati, e al Consiglio tocca scoprire autonomamente la loro esistenza. In occasione della conferenza parlai anche di Stefano Parisi. Parisi fu introdotto nel ‘97 in Consiglio dal sindaco Albertini in qualità di direttore generale. In questa veste gestì un’operazione importante, durante la fase 1 delle privatizzazioni, consegnando il cablaggio della città a Fastweb. Lasciato Palazzo Marino Stefano Parisi divenne amministratore delegato di Fastweb, cioè della stessa società alla quale il Comune di Milano aveva consegnato tutto il sistema della comunicazione su fibra. Potrei andare avanti negli esempi ma il punto è uno: siamo di fronte a persone mai elette che pure hanno nelle loro mani un potere enorme.
MISEF è il nome di un’Azienda che la giunta Moratti vuole costituire per privatizzare i servizi funebri milanesi. A suo giudizio quali conseguenze, una tale decisione, determinerebbe sui cittadini e sulle loro tasche?
Il problema in questa questione è l’idea che per risparmiare in un determinato settore la soluzione sia tagliare le spese relative al personale. L’errore sta nel non capire che ormai il Comune di Milano è diventato la più grande azienda della città, il che vuol dire che porta cibo e benessere a migliaia di famiglie. Ogni posto di lavoro che viene sottratto al Comune e passa alle cooperative significa il venir meno della sicurezza nell’esistenza per molte persone. La giunta si è posta il problema di dimostrare che effettivamente il bilancio migliorava tagliando il personale. Come? È bastato truccare le cifre, cioè dimostrare che col personale interno si spendeva più che col personale esterno. L’esternalizzazione dei servizi, inoltre, rischia di determinare la sopravvivenza di alcuni fornitori a scapito di altri che verranno tagliati fuori secondo un sistema di clientele.

Cos’è il caso ZINCAR?
Zincar -cioè Zero Impact No Carbon- è il nome di una società, partecipata dal Comune con quota di maggioranza, costituita per investire in energie rinnovabili. In origine un bellissimo progetto. Il "caso" scoppiò qualche mese fa: ci accorgemmo che dai conti dell’azienda emergeva un buco di bilancio pari a circa due milioni di euro. Il Consiglio decise di procedere alla liquidazione sulla quale, sorprendentemente, non tutti furono inizialmente d’accordo. Dopo le notizie apparse sui giornali su sprechi e incarichi affidati ad "amici di amici", la procura iniziò ad indagare. Si arrivò finalmente alla votazione in Consiglio, spinti anche dalla magistratura la quale, altrimenti, avrebbe nominato un commissario liquidatore. La notizia più sconvolgente risale al 30 dicembre 2008: è stata costituita una nuova società controllata dalla MM per curare la gestione di lavori riguardanti la metropolitana a Napoli. Vincenzo Giudice, presidente della Zincar, viene scelto per guidare questa società. Io credo che promuovere proprio lui ad un nuovo incarico senza attendere il chiarimento sulla Zincar abbia un sapore di provocazione, quasi a lanciare il messaggio che la politica non può essere giudicata. L’altra ipotesi è che quando una persona depositaria di informazioni promette il suo silenzio, siccome questo silenzio lo deve promettere per sempre, qualcosa in cambio gli si dovrà pur dare…

Expo 2015. Varie sono le questioni dibattute che impediscono il decollo della macchina organizzativa: tra le tante, il nodo dei compensi ai membri del cda della Soge (società che gestirà cantieri e appalti) e la figura di Diana Bracco. Come giudica il modo in cui tali questioni vengono gestite? Lei ha dichiarato che Milano si sarebbe aggiudicata i voti dei vari paesi "a colpi di promesse". Ci spiega questa affermazione?
Riguardo ai compensi la Corte dei Conti ha provveduto a ricordare alla Moratti che la legge dispone che i rappresentanti dei comuni all’interno di determinate aziende non possono avere uno stipendio più alto di quello del sindaco. Paolo Glisenti, per il quale si propone un esorbitante compenso, nella Soge è rappresentante del Comune. Come tale rientra nella fattispecie prevista dalla legge e deve rispettare le regole. Seconda questione: Diana Bracco è Presidente degli industriali di Assolombarda e allo stesso tempo presiede la Soge. Si è abituati a considerare il presidente di Assolombarda come un’istituzione, ma questo deriva dalla diversa considerazione che in Italia si ha di imprenditori e lavoratori, le due parti del conflitto sindacale, a vantaggio dei primi. Assolombarda è un sindacato, il sindacato"dei padroni". L’idea che si dia la presidenza della società che deve gestire l’Expo ad una sola "parte"è inconcepibile. Terza questione: sono apparse sui giornali dichiarazioni scandalizzate sul fatto che Smirne, concorrente di Milano per l’Expo, promettesse mari e monti per aggiudicarsi la vittoria, senza poi riflettere sul "comportamento" di Milano.
Il difetto d’origine dell’Expo sta nelle modalità di votazione: un’isola dei Caraibi di 11 mila di abitanti, ad esempio, conta quanto la Cina. Se al Presidente dell’isola dei Caraibi faccio delle promesse, ne ottengo i voti. Noi non abbiamo vinto l’Expo per la qualità dei progetti ma abbiamo, più semplicemente, conquistato i voti degli elettori. Come? Promettendo borse di studio, master e quant’altro, che presto o tardi i figli dei vari notabili verranno qua a reclamare. Inoltre, si dice che questa sarà una "grande opportunità" per la città. Voglio ricordare che l’organizzazione di questo evento si basa sull’uso di denaro pubblico ed io ritengo che a goderne saranno prevalentemente mani private. In questo periodo di forte instabilità economica, come si può pensare che chi ha grossi capitali a disposizione, e la mafia ne ha sempre, non approfitti della favorevole situazione? Perchè allora invece di discutere di stipendi, non ci si preoccupa di scegliere un’autorità, terza rispetto alla Soge, che faccia da garante sui lavori e sulle spese dell’Expo?

Dovere di cronaca impone una nota. Recentemente, si è appreso che dopo 8 mesi di tira e molla, il sindaco Moratti ha dovuto rinunciare al suo braccio destro Glisenti.
Lei non ha mai avuto paura di dire la verità: negli anni ’90 fu lei ad anticipare a colpi di denunce l’inchiesta Mani Pulite. Quegli eventi resero chiaro a tutti che il "puzzo del compromesso" aveva irrimediabilmente intaccato l’immagine di rispettabilità della Milano da bere. Ripensando a quegli anni come giudica il futuro di questa città?
Viviamo in uno strano paese in cui chi fa il suo dovere diventa un eroe per questo. Io ai tempi non feci nulla di eccezionale. Semplicemente studiavo le carte e traevo conclusioni. Il punto è che ero libero: il fatto di venire da una formazione politica piccola mi garantiva grande autonomia di giudizio. Quelli erano anni che chiamammo di consociativismo, dove esistevano la maggioranza e l’opposizione ma sugli affari non c’era maggioranza ne opposizione. Temo che stia tornando, se pur in forma diversa, una prassi nella quale la reciproca legittimazione porta al fatto che su alcune questioni l’opposizione fa "l’opposizione di sua maestà", cioè non fa l’opposizione. Credo però nelle possibilità di miglioramento: ricordo che quando arrivai in Consiglio negli anni ‘80 il craxismo avanzante sembrava una forza inarrestabile; poi le cose cambiarono.

Quindi ha un sentore positivo?
Sì. Ho fiducia nei giovani. Penso alla passione degli studenti mobilitatisi contro la riforma Gelmini. Penso, e lo dico ad una che immagino voglia fare la giornalista, alla stampa coraggiosa che negli anni ’90 supportò il lavoro della giusti zia: il cambiamento dipende molto anche da voi. Personalmente, anche se non è una gran consolazione quando vedi che il mondo intorno a te va alla rovescia, mi resta ancora la soddisfazione di fare cose giuste. Essere felice delle mie azioni mi spinge ad andare avanti senza timore.

a cura di Morgana Chittari

EDITORIALE MAGGIO 2009

Meno tre. “Papi” è a meno tre. A maggio il premier perde tre punti nel consenso dei suoi. Ora anche i sondaggi fiutano l’aria sempre più acre. Il modello-immagine del capo del governo sta crollando. E non per merito dell’opposizione, che, come ogni opposizione, dovrebbe pensare a ricostruirsi, perché tanto sono sempre i governi che, da soli, si logorano. Ma perché “Papi” ha voluto trasformarsi da immagine a persona: e gli sta andando male. Ciò che dava forza al regime culturale creato dall’inquilino di palazzo Chigi, è stata la “giusta distanza divina”, nel senso hollywoodiano del termine, che “Papi” sapeva instaurare tra sé e il popolo: quella distanza per cui l’Italia era il palcoscenico e l’elettorato il suo pubblico. Solo negli ultimi mesi “Papi” è sceso in campo davvero: ha eliminato il mezzo, l’immagine, il filtro che lo rendeva lontano e vicinissimo, uno e molteplice, immortale e sfuggevole. E’ sceso tra la gente d’Abruzzo, tra i vicoli di Napoli, ha imposto scorrettezze istituzionali pre-risorgimentali, ha ballato con le minorenni, ha fatto del suo divorzio un reato di lesa maestà, implorando privacy. Marco Belpoliti in un illuminante libro intitolato “Il corpo del capo”, dedicato alla figura di “Papi”, ha scritto: “Noi siamo la superficie riflettente in cui Silvio Berlusconi si guarda: la sua vera immagine è il mondo”. Per la prima volta “Papi” ha visto se stesso in ciò che ha creato: e ha capito di non essere immortale.

Fabrizio Aurilia

15 giugno 2009

NEGOZI INVISIBILI: quando i cantieri occultano gli esercizi commerciali

È dal 2004 che il tabaccaio di via Pasubio, a Milano, vede il mondo a quadretti. Il suo negozio si affaccia sul cantiere di Piazza XXV Aprile, un’area circondata da imponenti reticolati in acciaio che delimitano lo spazio destinato alla costruzione di un parcheggio sotterraneo. Pino Catapano, titolare del bar tabaccheria "Caffè 25", ogni mattina per raggiungere il posto di lavoro si muove con agilità dentro una fitta rete di recinzioni. E con gli anni ha imparato a non perdersi dentro questo labirinto. Troppi ce ne vogliono per impedire al cliente più affezionato di cambiare strada e andare a comprare le sigarette laddove per muoversi non sia necessaria un’attrezzatura da trekking. «Se un cliente deve attraversare un percorso a ostacoli, tra terreno dismesso, strettoie e buche, cambia strada – dichiara Catapano – Fino a poco tempo fa la recinzione del cantiere era proprio a ridosso dell’ingresso della tabaccheria, non solo difficile da raggiungere, ma spesso anche da vedere, a causa di grandi impalcature che ne coprivano l’insegna». Di recente l’assessore ai Lavori Pubblici Bruno Simini ha provveduto a far sì che venissero arretrate le cesate del cantiere per allargare i marciapiedi e migliorare la viabilità della zona. Forse troppo tardi per risollevare Catapano dalla situazione di debiti in cui versa da quando fu aperto un cantiere che, ostruendo una larga fetta di strada e impedendo il normale via vai di persone, ha causato ingenti perdite economiche alla sua attività. Cantiere la cui fine era prevista per lo scorso Natale e che invece vedrà terminare i lavori non prima di due anni. Un ritardo che potrebbe costare a Catapano la chiusura dell’esercizio per fallimento.

Ma spesso per un esercente che chiude bottega c’è qualche impresa che con i cantieri ci si arricchisce, quando cioè i lavori fermi garantiscono un guadagno grazie a introiti pubblicitari. Come riporta il Corriere della Sera i cantieri per i box con pubblicità sono in tutto 13. Il giro d’affari complessivo è intorno ai 3 milioni di euro. Solo in Piazza XXV Aprile, oltre due anni di ritardo, la pubblicità vale un milione di euro all’anno. In Piazza Meda 225 mila euro. Il consigliere dei Verdi Enrico Fedrighini intervistato da Gianni Santucci ha affermato: «C’è un buco nero sul quale prima o poi bisognerà far chiarezza: negli scorsi anni la rendita da pubblicità ha spesso azzerato i rischi d’impresa e aumentato i guadagni di chi costruiva i box».

Vulcano ha deciso di dare visibilità sulle sue pagine a quei negozi che l’hanno persa sulle strade. Abbiamo intervistato alcuni esercenti di Milano che rischiano di ‘sprofondare’ dentro gli scavi in corso nei cantieri e ci siamo fatti raccontare cosa succede quando, nell’era della visibilità e dell’apparenza si scompare agli occhi dei passanti già distratti perché, per motivi contingenti (tipo impalcatura che copre insegna del negozio), non si può apparire. Altro che carta fedeltà!

Pino Catapano
Bar tabaccheria "Caffè 25", Via Pasubio
«Altri 2 anni di cantiere non li reggo. Mi sono dovuto vendere la casa, ma purtroppo non basta per pagare i debiti. Ho finito per rivolgermi agli strozzini».

Valentina Raso
Telefonia "Cellular shop", Via Melchiorre Gioia 137
«Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati con un recinto costruito davanti all’ingresso del nostro negozio. Nel giro di poche settimane c’è stato un calo di vendite del 40%. Non ci dicono quando termineranno i lavori, c’è chi dice due anni, c’è chi dice tre».

Luciano Troiano
Edicola, via Comasina
«Io rinuncio, ho messo in vendita il negozio. L’affitto non si paga più. Con la chiusura della strada per i lavori di costruzione del prolungamento della metro 3 è finito il passaggio delle auto dal quale proveniva la maggior parte della clientela».

Aziz Nevin
Panificio "San Giorgio", via Comasina
«L’incasso si è dimezzato. Difficile far fronte alle spese per mantenere l’attività. Spesso è persino difficile svolgere il lavoro quotidiano: a volte l’acqua manca o arriva sporca a causa dei lavori in corso».

a cura di Diana Garrisi
e Corrado Fumagalli

13 giugno 2009

PER GRAZIA RICEVUTA

“Ha vinto il partito della vita ed ha perso il partito della morte!” Afferma trionfante Gasparri dopo l’approvazione, in senato, della legge sul testamento biologico. Circa la puerile faciloneria e al cattivo gusto dell’affermazione è inutile esprimersi, il contenuto del decreto di legge però è cosa che ci interessa, ed è sostanzialmente il seguente. Divieto di disporre circa alimentazione e idratazione forzata, mentre la validità della “dichiarazione anticipata di trattamento” è da considerarsi a discrezione dei medici, figura professionale che, ultimamente, si trova ad affrontare laceranti dubbi etici: tener conto o meno della volontà di un paziente? Denunciare o no i malati clandestini?
Per il governo la decisione, in entrambi casi, è scontata. Michele Ainis, docente di diritto pubblico a Roma Tre, sostiene che il provvedimento, oltre ad essere contrario alla logica, offende almeno tre diritti costituzionali e pare scritto sotto dettatura delle gerarchie cattoliche. La Chiesa stessa non crede alle proprie orecchie: il titolo del quotidiano Avvenire, Troppa grazia, è più che eloquente. Ma è stato davvero per compiacere le sfere ecclesiastiche che si è approvato un decreto così miope e impopolare? Forse, più che un disegno ordito dalla pur storica alleanza destra-chiesa cattolica, ci troviamo semplicemente di fronte ad un prodotto frutto della pochezza intellettuale, del provincialismo e dell’arretratezza culturale di una classe politica abituata a ragionare sull’onda dell’emotività e della propaganda facile. Siamo un paese arretrato e pensare di avere un governo al passo coi tempi… che dire? Troppa grazia.

Laura Carli

12 giugno 2009

ATEOBUS

"Probabilmente Dio non esiste, smettila di preoccuparti e goditi la vita", questo messaggio circola sulla fiancata di alcuni bus londinesi, suscitando polemiche e donazioni (155.000 sterline per lanciare la campagna anche altrove).
Anche in Spagna un’analoga iniziativa non è passata inosservata. Un gruppo di evangelici ha risposto infatti con un appello diametralmente opposto: "Dio esiste: goditi la vita in Cristo".
La disputa, bisogna ammetterlo, è un tantino surreale.
Non poteva mancare l’Italia in un così gustoso certamen: "La cattiva notizia è che Dio non esiste / quella buona è che non ne hai bisogno" è infatti la versione italiana dello slogan ad opera dell’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti). Il messaggio doveva apparire sugli autobus genovesi, ma è stato per ora bloccato dalla locale società di trasporti.
Va subito notato come la soppressione del "probabilmente" abbia forse reso il messaggio più efficace, rendendolo però poco adeguato alla prudenza e al fallibilismo del pensiero razionale (con cui l’ateo non può non fare i conti). L’eccessiva perentorietà ha alienato infatti il consenso di molti puristi del libero pensiero, che non sentivano tanta assolutezza dai tempi del catechismo.
L’iniziativa, comunque la si giudichi, ha fatto sorgere in tutti almeno per un attimo, una domanda: "A cosa serve? Da quando esiste il proselitismo ateo?".

Il segretario Uaar Raffaele Carcano a Red Tv ha risposto a questa domanda sostenendo che non si tratta di un messaggio rivolto ai credenti, ma ai mezzi di informazione e alla classe politica, rei di ignorare una componente consistente della nostra società: i non credenti.
Meritano un discorso a parte le reazioni suscitate dall’iniziativa, che in alcuni casi hanno rimpolpato lo stupidario già ricco cui siamo abituati.
Da un lato il capogruppo dell’Udc in Piemonte, tale Deodato Scanderebech, minaccia di incatenarsi davanti al Duomo di Torino se l’iniziativa venisse portata avanti anche nella sua città (reazione grottescamente sproporzionata). Notevole anche il commento di un intellettuale cattolico generalmente posato come Messori, che accusa gli atei di arroganza, visto che il 90% dell’umanità crede in Dio e difficilmente può sbagliarsi sulla sua esistenza (argomento con il quale, fino a qualche anno fa, si poteva tranquillamente sostenere che la terra fosse piatta). Segnalo poi la scelta di Monsignor Fisichella di bollare dispregiativamente gli ideatori della campagna come "intellettuali". "I libri non so’ roba da cristiani: fiji, pe’ carità, nun li leggete", diceva un prete in un sonetto del Belli. Il monsignore sembra dargli ragione.
Nemmeno sul fronte ateo si scherza: c’è chi inneggia addirittura ad una massiccia raccolta di fondi per lanciare il messaggio su tutto il territorio nazionale (lamentandosi poi per gli sprechi della Chiesa); mentre Paolo Villaggio ha ricordato la scritta a caratteri cubitali "Dio ti vede" fatta innalzare sessant’anni fa a Genova dal cardinale Sini. Secondo l’attore questa avrebbe indotto al suicidio il suo amico Franchino, notoriamente autoerotomane (LaRepubblicaGenova, 24 gennaio).
Sono stati molti poi, i commenti inaspettatamente fuori dagli schemi: vivacemente contrarie le reazioni su Micromega, sorprendentemente favorevoli quelle di Libero.
Sul sito della prestigiosa rivista Pierfranco Pellizzetti accusa l’Uaar, "minoranza peregrina", di aver dato il via ad una "sagra della sciocchezza": per il giornalista infatti così facendo si valorizzerebbero posizioni (quelle dei credenti) del tutto prive di valore per un ateo. Sorprende ancora di più l’articolo di Luigi Santambrogio su Libero (14 gennaio), testata generalmente sempre ben allineata al gusto dei suoi benpensanti lettori. Gli atei vengono infatti elogiati per la loro precisione nel colpire il nocciolo del problema. Molto meglio, dice Santambrogio, di "certi baciapile" sempre pronti "a menare il can per l’aia".
Forse è proprio nelle reazioni suscitate che l’iniziativa, altrimenti destinata alle curiosità goliardiche di qualche giornale locale, può darci qualche spunto di riflessione. Molti, tra gli organizzatori, temevano che lo slogan sarebbe stato ignorato sia dai credenti sia dagli atei, finendo nel dimenticatoio insieme alla spam mistica di Scientology o dei Testimoni di Geova.
L’iniziativa sarebbe stata ridicolizzata se, senza metterne in dubbio la liceità, il messaggio fosse stato lasciato solo con la sua inefficacia. Nessuno infatti pensa che una Fede possa venir scossa da una così velleitaria campagna pubblicitaria.
Molti invece, forse per un eccesso di zelo nei confronti del Vaticano, hanno scelto di parlare di offesa, di provocazione o di molesta stupidaggine. Alcuni hanno fatto appello all’obiezione di coscienza da parte degli autisti degli autobus (rendendola ormai un tormentone per tutte le battaglie, come per Pannella gli scioperi della fame). Ma quando si dà la patente di offesa alla semplice enunciazione di un particolare punto di vista, il rischio è che l’esposizione di un qualsiasi pensiero diventi, per qualcuno, "offensivo". E il risultato sarebbe una sospensione del dibattito, del tutto incompatibile con le nostre istituzioni democratiche.
Si potrebbe dire, rispondendo in un colpo a chi vuole dare per scontata la non esistenza di Dio e a chi ritiene offensivo il discuterne, che "La cattiva notizia è che non si sa se Dio esista o meno / quella buona è che c’è chi non ha ancora smesso di chiederselo".

Filippo Bernasconi