28 dicembre 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.13


Ma in fondo a noi, ma soprattutto a voi, matricole della Beneamata Università Statale, cosa ve ne frega degli anni ’80? Per voi che siete nati nell’88, quando il 47° governo Goria cadeva, (la Repubblica nasce nel 1946, questo è il 61° governo, o il 62° dipende quando uscirà il giornale: 61 maggioranze parlamentari in 51 anni. La Germania dal ’49 ha eletto 9 cancellieri. E non si può dire che il popolo tedesco non abbia avuto i suoi problemini), il decennio in questione non è stato altro che pappine-cacchine-ruttini, ruttini-cacchine-pappine. Sembra la vita di Rutelli, vero?
E allora, cari post-liceali, forse vorreste sentir parlare di banchi di scuola, di cose che conoscete.
Per venire incontro a voi, o classe dirigente del futuro, è pronto un dossier sulla "Terza C". Il 13 gennaio 1987 su Italia1 parte un progetto, "I ragazzi della Terza C", un telefilm che ambiva a raccontare una generazione di studenti ritratti nell’approssimarsi della maturità.
Il successo è colossale, non paragonabile ad altre serie americane degli anni Novanta o Duemila.
A parte l’utilizzo di personaggi estremamente stereotipati (cosa rimasta nella politica italiana, vedi Casini-Prodi-Luxuria: il bello, il comunista, il transgender) ed una recitazione imbarazzante (ancora: Bertinotti, Berlusconi, Gabriella Carlucci), è interessante la leggerezza narrativa e la costruzione degli intrecci, basate su dinamiche del periodo.
La parodia è quasi sempre il carattere della vicenda, sono riproposti i film o i personaggi dell’attualità: il pavido Bruno Sacchi (Fabrizio Bracconeri, oggi guardia giurata di Forum) interpreterà Rambo, oppure Chicco Lazzaretti, pluriripetente, praticamente trentenne, partecipa alla trasmissione Superstrike, condotta da Marco Columbro, vero reuccio della TV.
Ma c’è anche la cronaca che penetra nella fabula: durante una festa in casa di Sharon Zampetti, figlia di un industriale milanese, Camillo Zampetti (Guido Nicheli, da poco scomparso), irrompe la polizia tributaria. Il successo è talmente penetrante che le grandi marche trasformano intere scene in spot veri e propri. E’ il caso dell’Algida, che impone agli attori lo slogan "cuore di panna" mentre trangugiano un cornetto. Oppure la Opel che fa dire a Chicco, di fronte alla sua Corsa: "Che auto spaziosa, e che motore!".
La seconda serie è addirittura sponsorizzata dallo snack Raider. Un concorso si basava sulla presenza dello snack all’interno della puntata. La terza stagione vede i ragazzi all’università. Alcuni attori si stufano, se ne vanno o vengono cacciati: l’università fa questi scherzi. Il prodotto crolla nell’89.
Come il comunismo ha regalato sogni: il sogno di una televisione stupidissima, non volgare, coraggiosa, che lascia il posto a quella degli anni ’90: intelligentissima, volgare e pavida. E’ giusto che alcune cose non siano uscite vive dagli anni Ottanta.
Fabrizio Aurilia

22 dicembre 2007

MUSICA DAL MONDO: IL CASO TINARIWEN

Sono stati ribelli Tuareg, ma oggi hanno sostituito il Kalashnikov con la chitarra. Vengono dal Mali e sono amati alla follia da Robert Plant.

Assistere ad un loro concerto è un’esperienza folgorante. Il bassista suona tutto avvolto in un turbante che lascia scoperti solo gli occhi. La corista si muove ritmicamente, cantando e gridando con voce lamentosa e cristallina. Il cantante Ibrahim Ag Alhabib indossa un velo ampio e colorato e imbraccia una Gibson Les Paul. Se hai la fortuna di vederli, i Tinariwen, non te li dimentichi facilmente.
La loro musica, è un atto (l’ultimo solo in ordine cronologico) di rivolta: nel 1963, infatti, i Tuareg del Mali si ribellarono al potere del Nuovo Governo Indipendente che si era sostituito all’autorità Francese. La rivolta, repressa nel sangue, fu seguita da una terribile siccità che causò la fuga di migliaia di profughi, dal Mali e dal Niger verso l’Algeria e la Libia. Fu allora che le chitarre dei Tinariwen iniziarono a suonare, raccontandoci così del dolore per l’esilio. Il loro suono si eresse presto a documento di affermazione dell’esistenza Tuareg e della sua necessità di evolversi. Un’evoluzione, quella dei Tinariwen, prima di tutto musicale, (ai classici strumenti tradizionali come tamburi tindè o violino imzad vengono affiancati strumenti di derivazione occidentale, come chitarre e basso elettrico) ma anche culturale in senso più dilatato. La band, attiva dal 1979 ha infatti migliorato il tasso tecnico delle proprie esibizioni e la qualità lirica delle canzoni.

La svolta, per i nostri Tinariwen avviene circa quattro anni fa, quando decidono di partecipare al Festival au Dèsert di Essakane, vicino Timbuktu. Il loro nome ha varcato le porte del deserto, riuscendo a diffondersi anche fuori dai confini africani. Ascoltando le loro canzoni si è colpiti dalla somiglianza che queste hanno col blues, anche se non si tratta proprio delle consuete dodici battute. A parte gli ovvi richiami al blues di un altro grandissimo musicista originario del Mali come Ali Farka Tourè, i Tinariwen sembrano rievocare la musica del diavolo soprattutto nel mood, molto bluesy, appunto, e nella vocazione a costruire dei testi tesi all’espressione sociale di condivisione. Il loro motto: "Siamo ancora nomadi…ma in senso musicale" mi sembra il miglior invito all’ascolto di questi ribelli armati di chitarra. Magari in occasione di uno dei concerti che i Tinariwen terranno nel nostro paese, nel corso del mese di Luglio.

"…fratelli Tuareg abbiamo una vita sepolta ed è tutto ciò che ci unisce. Ciò che è accaduto non può essere accettato da colui che ama la sua gente. Questa verità è stata occultata e l’ignoranza ha preso il sopravvento…"

Davide Zucchi

21 dicembre 2007

MATTATOIO DARFUR

Nel nostro Paese giungono solo flebili echi dal Sudan. Espressioni come “sterminio etnico” e “genocidio” accostati a questo stato africano, compaiono sporadicamente nei nostri telegiornali e sui quotidiani, quasi sempre con scarsa contestualizzazione. Il 26 febbraio ricorreva l’anniversario dello scoppio del conflitto in Darfur. E’ passato pressoché inosservato, un giorno come tanti, inglobato da news e gossip sulla notte degli Oscar.

LA TERRA DEI FUR
Il Darfur (in arabo “Paese dei Fur”) è una regione che si estende ad Ovest del Sudan, occupata per lo più da un vasto altopiano, tra sabbia, montagne e savana. Il cuore di questa regione rappresenta ancora l’Africa profonda, millenaria, di sole, sabbia e villaggi, non ancora raggiunta dalla frenesia del progresso.
In questa zona i conflitti hanno origini remote e, contrariamente a quanto molti pensano, in alcun modo collegate a motivi religiosi. In realtà l’intera popolazione è di credo musulmano e le ostilità sorgono da ragioni prettamente razziali. In Africa infatti gli scontri tra etnie, legati brutalmente al colore della pelle, non sono affatto rari e tra le genti di stirpe araba e la popolazione nera spesso non corre buon sangue. In Darfur questa ostilità è particolarmente accesa: i rapporti tra la popolazione nera dei Fur, stanziale ed agricola, e la minoranza araba, nomade e dedita alla pastorizia, non sono mai stati di ottimo vicinato e il governo locale ha finito per sfruttare questa rivalità già profonda e radicata, alimentata da due stili di vita e due culture completamente agli antipodi.

26 FEBBRAIO 2003
E’ la data che convenzionalmente sancisce l’inizio del conflitto. Il gruppo autoproclamato fronte di Liberazione del Darfur (FLD) rivendica pubblicamente un attacco compiuto mesi prima contro il quartier generale di Golo nel distretto di Jebel Marra. In realtà già da qualche anno si andava costituendo una schiera di ribelli, che avevano dato luogo ad una serie di attacchi a stazioni di polizia, avamposti e convogli militari. Il fronte ribelle si era costituito intorno al 21 luglio 2001, quando i gruppi Zaghawa e Fur si incontrarono nel villaggio di Abu Gamra e stipularono sul Corano un vero e proprio giuramento di collaborazione reciproca per difendersi dagli attacchi che già allora venivano perpetrati contro i loro villaggi. Dopo il 26 febbraio la risposta dell’esercito del governo di Khartoum non si è fatta attendere e col tempo la strategia si è articolata sull’azione di tre gruppi distinti: l’Intelligence militare, l’aeronautica e le milizie Janjaweed, reclutate tra i pastori nomadi di etnia Baggara, di cui il governo si era già servito in precedenza. Queste ultime furono poste al centro della nuova tattica governativa per reprimere le rivolte.
Le milizie Janjaweed volsero subito la situazione a proprio favore, agevolati dal fatto che i loro attacchi erano (e sono) sostanzialmente rivolti contro villaggi inermi, contro una popolazione, i Fur, che, ad esclusione del FLD, è composta quasi esclusivamente da agricoltori.
Gli attacchi si svolgono sempre alle prime luci dell’alba. Durante il giorno i nomadi di etnia Baggara svolgono la loro attività di pastori, necessaria al proprio sostentamento, di notte diventano i Janajaweed, i demoni a cavallo. Attaccano un villaggio appena prima dello spuntare del giorno, massacrando gli abitanti, talvolta portando via con loro ragazzi e bambini.
Malgrado il sostegno del governo (totalmente di etnia araba, nonostante sia la minoranza del Paese), i gruppi nomadi combattenti non sono ben equipaggiati come si potrebbe pensare. Spesso il loro armamento si riduce a un cavallo e un kalashnikov. E’ una guerra tra poveri. Si tratta di piccoli attacchi, per quanto efferati, e questo ci porta al reale dramma del Darfur: la questione dei profughi.



L’ABBANDONO DEI VILLAGGI
Contrariamente ad un altro luogo comune molto diffuso, quando si parla di stermino, o addirittura di genocidio per la popolazione Fur, non si pensa principalmente alle vittime dirette degli attacchi.
Il vero dramma che il Paese sta affrontando è la questione dei profughi, ancora oggi ben lontana da una soluzione.
Gli abitanti dei villaggi, come reazione ai continui attacchi, privi di mezzi per difendersi, iniziarono a migrare verso le città, dove si sentivano più protetti. Il loro numero raggiunse subito dimensioni impressionanti. Furono organizzati centri di accoglienza, totalmente inadeguati a fronteggiare la situazione, per mancanza di mezzi e per le condizioni ambientali e climatiche sfavorevoli. Condizioni sanitarie inesistenti (in un campo profughi non si può certo avere un sistema fognario), 50 gradi di temperatura, niente acqua e un’enorme concentrazione umana non potevano che portare ad una diffusione capillare di un gran numero di malattie come il colera, causa principale di mortalità per i bambini darfuriani. Nonostante l’emergenza sanitaria e le scarsissime possibilità di sopravvivenza i profughi, terrorizzati, si rifiutano categoricamente di fare ritorno ai propri villaggi, creando il problema del loro mantenimento. Costretti ad abbandonare la microeconomia rurale dei loro villaggi, nei campi di accoglienza essi dipendono interamente dalle forme di aiuto provenienti da organizzazioni come l’ONU, una soluzione che non può che essere temporanea.
In realtà il loro ritorno è ostacolato in parte anche dall’azione governativa che ha varato delle leggi sulla rioccupazione dei villaggi abbandonati, impedendo di fatto il ritorno degli abitanti originari.
Col pretesto di difendersi dai gruppi ribelli, il governo di Khartoum (una repubblica presidenziale retta però da una giunta militare) ha sostanzialmente appoggiato un sistematico genocidio, parzialmente già in corso, attuato da parte di un’etnia numericamente inferiore ma rappresentata al governo, nei confronti della maggioranza della popolazione. La minoranza araba d’altra parte, sente di agire in virtù di una superiorità razziale apertamente conclamata e proclamata ufficialmente già nel 1987. Una superiorità che campeggia addirittura sui teleschermi, veicolanti pubblicità di creme schiarenti per la pelle, specularmente a ciò che avviene sui nostri nella bella stagione con le creme abbronzanti.
Una nota particolarmente amara merita il fatto che, nell’intolleranza culturale, viene invece largamente tollerata una delle pratiche più agghiaccianti ancora diffuse in alcuni stati africani.
Il 90% delle donne del Darfur subisce ancora l’infibulazione, nonostante la leggi la vieti espressamente e preveda severe penali per chi la pratica. La mutilazione dei genitali femminili è diffusa in tutto il Paese, indipendentemente dal ceto sociale e nulla di concreto viene fatto dalla popolazione araba per estirpare questa pratica.

L’INTERVENTO INTERNAZIONALE
L’intervento dei contingenti di pace internazionali si è reso complicato fin dall’inizio, in particolare per la scarsa collaborazione del governo sudanese. Il 31 Agosto 2006 si è attuata parzialmente una svolta: nonostante l’opposizione del governo sudanese, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’invio di un contingente di ‘caschi blu per sostituire le truppe dell’Unione africana, fino a quel momento preposte a vigilanza del conflitto. In realtà l’apporto delle Nazioni Unite si è configurato in maniera più limitata rispetto ai piani originari. All’espressione “genocidio” si è preferito “crimini contro l’umanità” e il decisivo voto della Cina per l’invio del contingente è venuto a mancare a causa degli interessi petroliferi nutriti dalla nazione nella zona sudanese affacciata sul Mar Rosso. Questi fattori hanno notevolmente ridimensionato il ruolo dei Caschi Blu che devono tuttora sottostare parzialmente all’autorità del governo di Khartoum.

Secondo l' Organizzazione Mondiale della Sanità la guerra civile ha causato, da marzo 2003, la morte di circa settantamila persone e ha ridotto più di un milione e ottocentomila individui allo stato di profughi, rifugiati nei campi di accoglienza gestiti dalle organizzazioni umanitarie.
Pekka Haavisto, inviato dell'UE in Sudan, ha affermato che l'esercito sudanese sta “bombardando la popolazione civile”.
Tutto ciò basterebbe per fare del Darfur una delle grandi priorità mondiali, e difatti già nel 2003 doveva essere il grande obbiettivo internazionale. Poi è arrivato l’Iraq.

Laura Carli

Uno speciale ringraziamento al dott. Rodolfo Rossi per le foto e le preziose informazioni fornite.

11 dicembre 2007

CONVERSANDO CON ELIO FIORUCCI

Di grigio, sul tavolo d’ufficio dello stilista Elio Fiorucci, c’è solo una calcolatrice. Il resto è tutto colorato. C’è una serie di pupazzetti che lo guardano in faccia mentre lavora. C’è uno gnomo con una mano in tasca, c’è Margot senza Lupin, c’è una pecora nera di peluche. Poggiate sulle carte e vari post-it ci sono un paio di scarpe in vernice rosa col tacco azzurro e un fiocchettino.
Sotto alcune buste da lettera fa capolino l’abbonamento dell’Atm. Guardo tutti questi oggetti mentre Fiorucci è al telefono. Sta parlando degli anni 70 per una mostra sul tema, aperta fino al 30 marzo alla Triennale. Lo sento raccontare dei suoi incontri con Madonna, Keith Haring, Jean Michel Basquiat “…Quando erano ancora ragazzini”. Rievoca l’ondata rivoluzionaria che quegli anni si portarono dietro, lo dice all’interlocutore al telefono, forse un giornalista: “Chi avrebbe potuto immaginare, allora, che dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, che le ragazze russe avrebbero indossato jeans attillati Fiorucci, e che in Europa ci sarebbe stata la moneta unica. Non è occorsa una terza guerra mondiale”. S’interrompe e riprende: “Non mi chieda di politica. Non mi piacciono le cose politiche. Mi piacciono i ragazzi, le ragazze, le minigonne…”. Le sue parole al telefono viaggiano verso New York, salgono sulla Torre di Pisa a rievocare quella volta che conobbe il fotografo Oliviero Toscani, tornano a Milano all’inaugurazione del suo primo negozio, nel 1967. La telefonata si chiude. È il turno di Vulcano. Tocca a me. M’interessa l’anno 2007 e la moda degli studenti universitari.

Come ci si veste per andare a discutere una tesi di laurea?
Se vuole le parlo degli anni 70.
No grazie. Parliamo dei giorni di oggi.
Gli anni 70 hanno portato una libertà fra gli uomini fino ad allora sconosciuta. E dunque la liberazione da valori imposti dalla società.
Come suggerisce di andare vestiti, il giorno della laurea?
Non suggerisco nulla. Io sono uno spirito anarchico, la mia filosofia è quella della libertà. Ognuno si veste come gli pare. A me piacciono gli occhiali con la montatura rossa [Ne indossa un paio proprio in quel momento ndr] ma non per questo mi verrebbe da imporli agli altri. Questo è lo spirito degli anni 70.
Ma io non voglio parlare degli anni 70. Voglio parlare del 2007.
È incredibile come lo spirito degli anni 70 sia vivo ancora oggi.
Proviamo a entrare nella macchina del tempo. Cosa ci ricorderemo nel 2060 del 2007?
Degli anni 70.

Scoppio in lacrime. Fiorucci mi porge prontamente un pacchetto di fazzoletti. Il principe del marchio con gli angioletti, stupito dalla mia reazione mi dice: “Non sono cattivo”. Continuo a singhiozzare. Mosso a compassione mi fa: “E va bene, se vuole le dico come andare vestiti alla laurea”.

Me lo dica.
Io andrei vestito con un pullover. E scarpe comode. Ma come è vestita lei va bene lo stesso [jeans e camicetta bianca ndr]. Perché si può essere eleganti nella semplicità.
Il capo di maggior successo di sempre?
I jeans. Un tessuto magico. Quando smise di essere trattato come abito di lavoro.
Quando andò nel New Mexico scoprì le perline di vetro che diventarono i bijoux più gettonati dell’estate. Dalla Cina importò le ballerine: ne vendette diecimila solo in un anno. Come ha fatto a riconoscere il potenziale successo?
Io non ho mai pensato che sarebbero stati un successo. Li ho scelti perché mi piacevano.
E il marketing?
Io non mi occupo di marketing. Faccio le cose perché mi piacciono e perché mi fanno star bene.
Ma le scelte del marchio Fiorucci, le campagne pubblicitarie, non sono frutto di uno studio?
È l’amore per le cose che le fa uscire bene. La mia filosofia non prevede norme. Lei ha avuto un’educazione rigida.
Nella vita ha conosciuto tante personalità, tra cui Andy Warhol. Chi si nasconde dietro un talento?
Una persona rilassata. Serena. Mossa da passione. [Mi guarda negli occhi umidi] Non da rabbia e sofferenza.
Perché il suo tavolo è pieno di oggetti decorativi e alle pareti non c’è niente?
Ma non lo so! [Vede che sto per rimettermi a piangere]. Preferisco appoggiare piuttosto che appendere.
Lei una volta ha detto: “Gli oggetti devono essere belli e sinceri”. Che voleva dire?
Belli perché ti piacciono. Sinceri perché sono schietti.
Continuo a non capire.
Perché cerca un ragionamento dietro tutte le cose?

Chiuso il block notes, Fiorucci chiama la segretaria dicendo di prendere una borsetta: “Diamo un po’ di regalini alla ragazza”. Ma non l’aspetta. La precede e va verso un armadio dal quale comincia ad estrarre pacchettini colorati. Mettendomi in mano un portachiavi a forma di gnomo mi dice. “E lei adesso mi chiederà perché ho scelto lo gnomo? Non lo so. Faccio le cose che mi piacciono.”
Mentre scendo le scale dell’edificio che ospita gli uffici Fiorucci penso che anche io d’ora in poi farò solo cose che mi piacciono. Al primo semaforo ho lasciato l’Università per andare in Madagascar, al secondo vado in Cina a fare la ballerina, al terzo mi compro una parrucca perché mi sono sempre piaciuti i capelli blu. Sulla soglia di casa già il mio pensiero torna allo studio. L’esame di Glottologia. Devo prendere 30. Perché la media, il voto di laurea, i concorsi…Ci vuole coraggio per fare le cose che ci piacciono.

Diana Garrisi