Sono stati ribelli Tuareg, ma oggi hanno sostituito il Kalashnikov con la chitarra. Vengono dal Mali e sono amati alla follia da Robert Plant.
Assistere ad un loro concerto è un’esperienza folgorante. Il bassista suona tutto avvolto in un turbante che lascia scoperti solo gli occhi. La corista si muove ritmicamente, cantando e gridando con voce lamentosa e cristallina. Il cantante Ibrahim Ag Alhabib indossa un velo ampio e colorato e imbraccia una Gibson Les Paul. Se hai la fortuna di vederli, i Tinariwen, non te li dimentichi facilmente.
La loro musica, è un atto (l’ultimo solo in ordine cronologico) di rivolta: nel 1963, infatti, i Tuareg del Mali si ribellarono al potere del Nuovo Governo Indipendente che si era sostituito all’autorità Francese. La rivolta, repressa nel sangue, fu seguita da una terribile siccità che causò la fuga di migliaia di profughi, dal Mali e dal Niger verso l’Algeria e la Libia. Fu allora che le chitarre dei Tinariwen iniziarono a suonare, raccontandoci così del dolore per l’esilio. Il loro suono si eresse presto a documento di affermazione dell’esistenza Tuareg e della sua necessità di evolversi. Un’evoluzione, quella dei Tinariwen, prima di tutto musicale, (ai classici strumenti tradizionali come tamburi tindè o violino imzad vengono affiancati strumenti di derivazione occidentale, come chitarre e basso elettrico) ma anche culturale in senso più dilatato. La band, attiva dal 1979 ha infatti migliorato il tasso tecnico delle proprie esibizioni e la qualità lirica delle canzoni.
La svolta, per i nostri Tinariwen avviene circa quattro anni fa, quando decidono di partecipare al Festival au Dèsert di Essakane, vicino Timbuktu. Il loro nome ha varcato le porte del deserto, riuscendo a diffondersi anche fuori dai confini africani. Ascoltando le loro canzoni si è colpiti dalla somiglianza che queste hanno col blues, anche se non si tratta proprio delle consuete dodici battute. A parte gli ovvi richiami al blues di un altro grandissimo musicista originario del Mali come Ali Farka Tourè, i Tinariwen sembrano rievocare la musica del diavolo soprattutto nel mood, molto bluesy, appunto, e nella vocazione a costruire dei testi tesi all’espressione sociale di condivisione. Il loro motto: "Siamo ancora nomadi…ma in senso musicale" mi sembra il miglior invito all’ascolto di questi ribelli armati di chitarra. Magari in occasione di uno dei concerti che i Tinariwen terranno nel nostro paese, nel corso del mese di Luglio.
"…fratelli Tuareg abbiamo una vita sepolta ed è tutto ciò che ci unisce. Ciò che è accaduto non può essere accettato da colui che ama la sua gente. Questa verità è stata occultata e l’ignoranza ha preso il sopravvento…"
Assistere ad un loro concerto è un’esperienza folgorante. Il bassista suona tutto avvolto in un turbante che lascia scoperti solo gli occhi. La corista si muove ritmicamente, cantando e gridando con voce lamentosa e cristallina. Il cantante Ibrahim Ag Alhabib indossa un velo ampio e colorato e imbraccia una Gibson Les Paul. Se hai la fortuna di vederli, i Tinariwen, non te li dimentichi facilmente.
La loro musica, è un atto (l’ultimo solo in ordine cronologico) di rivolta: nel 1963, infatti, i Tuareg del Mali si ribellarono al potere del Nuovo Governo Indipendente che si era sostituito all’autorità Francese. La rivolta, repressa nel sangue, fu seguita da una terribile siccità che causò la fuga di migliaia di profughi, dal Mali e dal Niger verso l’Algeria e la Libia. Fu allora che le chitarre dei Tinariwen iniziarono a suonare, raccontandoci così del dolore per l’esilio. Il loro suono si eresse presto a documento di affermazione dell’esistenza Tuareg e della sua necessità di evolversi. Un’evoluzione, quella dei Tinariwen, prima di tutto musicale, (ai classici strumenti tradizionali come tamburi tindè o violino imzad vengono affiancati strumenti di derivazione occidentale, come chitarre e basso elettrico) ma anche culturale in senso più dilatato. La band, attiva dal 1979 ha infatti migliorato il tasso tecnico delle proprie esibizioni e la qualità lirica delle canzoni.
La svolta, per i nostri Tinariwen avviene circa quattro anni fa, quando decidono di partecipare al Festival au Dèsert di Essakane, vicino Timbuktu. Il loro nome ha varcato le porte del deserto, riuscendo a diffondersi anche fuori dai confini africani. Ascoltando le loro canzoni si è colpiti dalla somiglianza che queste hanno col blues, anche se non si tratta proprio delle consuete dodici battute. A parte gli ovvi richiami al blues di un altro grandissimo musicista originario del Mali come Ali Farka Tourè, i Tinariwen sembrano rievocare la musica del diavolo soprattutto nel mood, molto bluesy, appunto, e nella vocazione a costruire dei testi tesi all’espressione sociale di condivisione. Il loro motto: "Siamo ancora nomadi…ma in senso musicale" mi sembra il miglior invito all’ascolto di questi ribelli armati di chitarra. Magari in occasione di uno dei concerti che i Tinariwen terranno nel nostro paese, nel corso del mese di Luglio.
"…fratelli Tuareg abbiamo una vita sepolta ed è tutto ciò che ci unisce. Ciò che è accaduto non può essere accettato da colui che ama la sua gente. Questa verità è stata occultata e l’ignoranza ha preso il sopravvento…"
Davide Zucchi
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