21 dicembre 2007

MATTATOIO DARFUR

Nel nostro Paese giungono solo flebili echi dal Sudan. Espressioni come “sterminio etnico” e “genocidio” accostati a questo stato africano, compaiono sporadicamente nei nostri telegiornali e sui quotidiani, quasi sempre con scarsa contestualizzazione. Il 26 febbraio ricorreva l’anniversario dello scoppio del conflitto in Darfur. E’ passato pressoché inosservato, un giorno come tanti, inglobato da news e gossip sulla notte degli Oscar.

LA TERRA DEI FUR
Il Darfur (in arabo “Paese dei Fur”) è una regione che si estende ad Ovest del Sudan, occupata per lo più da un vasto altopiano, tra sabbia, montagne e savana. Il cuore di questa regione rappresenta ancora l’Africa profonda, millenaria, di sole, sabbia e villaggi, non ancora raggiunta dalla frenesia del progresso.
In questa zona i conflitti hanno origini remote e, contrariamente a quanto molti pensano, in alcun modo collegate a motivi religiosi. In realtà l’intera popolazione è di credo musulmano e le ostilità sorgono da ragioni prettamente razziali. In Africa infatti gli scontri tra etnie, legati brutalmente al colore della pelle, non sono affatto rari e tra le genti di stirpe araba e la popolazione nera spesso non corre buon sangue. In Darfur questa ostilità è particolarmente accesa: i rapporti tra la popolazione nera dei Fur, stanziale ed agricola, e la minoranza araba, nomade e dedita alla pastorizia, non sono mai stati di ottimo vicinato e il governo locale ha finito per sfruttare questa rivalità già profonda e radicata, alimentata da due stili di vita e due culture completamente agli antipodi.

26 FEBBRAIO 2003
E’ la data che convenzionalmente sancisce l’inizio del conflitto. Il gruppo autoproclamato fronte di Liberazione del Darfur (FLD) rivendica pubblicamente un attacco compiuto mesi prima contro il quartier generale di Golo nel distretto di Jebel Marra. In realtà già da qualche anno si andava costituendo una schiera di ribelli, che avevano dato luogo ad una serie di attacchi a stazioni di polizia, avamposti e convogli militari. Il fronte ribelle si era costituito intorno al 21 luglio 2001, quando i gruppi Zaghawa e Fur si incontrarono nel villaggio di Abu Gamra e stipularono sul Corano un vero e proprio giuramento di collaborazione reciproca per difendersi dagli attacchi che già allora venivano perpetrati contro i loro villaggi. Dopo il 26 febbraio la risposta dell’esercito del governo di Khartoum non si è fatta attendere e col tempo la strategia si è articolata sull’azione di tre gruppi distinti: l’Intelligence militare, l’aeronautica e le milizie Janjaweed, reclutate tra i pastori nomadi di etnia Baggara, di cui il governo si era già servito in precedenza. Queste ultime furono poste al centro della nuova tattica governativa per reprimere le rivolte.
Le milizie Janjaweed volsero subito la situazione a proprio favore, agevolati dal fatto che i loro attacchi erano (e sono) sostanzialmente rivolti contro villaggi inermi, contro una popolazione, i Fur, che, ad esclusione del FLD, è composta quasi esclusivamente da agricoltori.
Gli attacchi si svolgono sempre alle prime luci dell’alba. Durante il giorno i nomadi di etnia Baggara svolgono la loro attività di pastori, necessaria al proprio sostentamento, di notte diventano i Janajaweed, i demoni a cavallo. Attaccano un villaggio appena prima dello spuntare del giorno, massacrando gli abitanti, talvolta portando via con loro ragazzi e bambini.
Malgrado il sostegno del governo (totalmente di etnia araba, nonostante sia la minoranza del Paese), i gruppi nomadi combattenti non sono ben equipaggiati come si potrebbe pensare. Spesso il loro armamento si riduce a un cavallo e un kalashnikov. E’ una guerra tra poveri. Si tratta di piccoli attacchi, per quanto efferati, e questo ci porta al reale dramma del Darfur: la questione dei profughi.



L’ABBANDONO DEI VILLAGGI
Contrariamente ad un altro luogo comune molto diffuso, quando si parla di stermino, o addirittura di genocidio per la popolazione Fur, non si pensa principalmente alle vittime dirette degli attacchi.
Il vero dramma che il Paese sta affrontando è la questione dei profughi, ancora oggi ben lontana da una soluzione.
Gli abitanti dei villaggi, come reazione ai continui attacchi, privi di mezzi per difendersi, iniziarono a migrare verso le città, dove si sentivano più protetti. Il loro numero raggiunse subito dimensioni impressionanti. Furono organizzati centri di accoglienza, totalmente inadeguati a fronteggiare la situazione, per mancanza di mezzi e per le condizioni ambientali e climatiche sfavorevoli. Condizioni sanitarie inesistenti (in un campo profughi non si può certo avere un sistema fognario), 50 gradi di temperatura, niente acqua e un’enorme concentrazione umana non potevano che portare ad una diffusione capillare di un gran numero di malattie come il colera, causa principale di mortalità per i bambini darfuriani. Nonostante l’emergenza sanitaria e le scarsissime possibilità di sopravvivenza i profughi, terrorizzati, si rifiutano categoricamente di fare ritorno ai propri villaggi, creando il problema del loro mantenimento. Costretti ad abbandonare la microeconomia rurale dei loro villaggi, nei campi di accoglienza essi dipendono interamente dalle forme di aiuto provenienti da organizzazioni come l’ONU, una soluzione che non può che essere temporanea.
In realtà il loro ritorno è ostacolato in parte anche dall’azione governativa che ha varato delle leggi sulla rioccupazione dei villaggi abbandonati, impedendo di fatto il ritorno degli abitanti originari.
Col pretesto di difendersi dai gruppi ribelli, il governo di Khartoum (una repubblica presidenziale retta però da una giunta militare) ha sostanzialmente appoggiato un sistematico genocidio, parzialmente già in corso, attuato da parte di un’etnia numericamente inferiore ma rappresentata al governo, nei confronti della maggioranza della popolazione. La minoranza araba d’altra parte, sente di agire in virtù di una superiorità razziale apertamente conclamata e proclamata ufficialmente già nel 1987. Una superiorità che campeggia addirittura sui teleschermi, veicolanti pubblicità di creme schiarenti per la pelle, specularmente a ciò che avviene sui nostri nella bella stagione con le creme abbronzanti.
Una nota particolarmente amara merita il fatto che, nell’intolleranza culturale, viene invece largamente tollerata una delle pratiche più agghiaccianti ancora diffuse in alcuni stati africani.
Il 90% delle donne del Darfur subisce ancora l’infibulazione, nonostante la leggi la vieti espressamente e preveda severe penali per chi la pratica. La mutilazione dei genitali femminili è diffusa in tutto il Paese, indipendentemente dal ceto sociale e nulla di concreto viene fatto dalla popolazione araba per estirpare questa pratica.

L’INTERVENTO INTERNAZIONALE
L’intervento dei contingenti di pace internazionali si è reso complicato fin dall’inizio, in particolare per la scarsa collaborazione del governo sudanese. Il 31 Agosto 2006 si è attuata parzialmente una svolta: nonostante l’opposizione del governo sudanese, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’invio di un contingente di ‘caschi blu per sostituire le truppe dell’Unione africana, fino a quel momento preposte a vigilanza del conflitto. In realtà l’apporto delle Nazioni Unite si è configurato in maniera più limitata rispetto ai piani originari. All’espressione “genocidio” si è preferito “crimini contro l’umanità” e il decisivo voto della Cina per l’invio del contingente è venuto a mancare a causa degli interessi petroliferi nutriti dalla nazione nella zona sudanese affacciata sul Mar Rosso. Questi fattori hanno notevolmente ridimensionato il ruolo dei Caschi Blu che devono tuttora sottostare parzialmente all’autorità del governo di Khartoum.

Secondo l' Organizzazione Mondiale della Sanità la guerra civile ha causato, da marzo 2003, la morte di circa settantamila persone e ha ridotto più di un milione e ottocentomila individui allo stato di profughi, rifugiati nei campi di accoglienza gestiti dalle organizzazioni umanitarie.
Pekka Haavisto, inviato dell'UE in Sudan, ha affermato che l'esercito sudanese sta “bombardando la popolazione civile”.
Tutto ciò basterebbe per fare del Darfur una delle grandi priorità mondiali, e difatti già nel 2003 doveva essere il grande obbiettivo internazionale. Poi è arrivato l’Iraq.

Laura Carli

Uno speciale ringraziamento al dott. Rodolfo Rossi per le foto e le preziose informazioni fornite.

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