28 marzo 2009

ALLA RICERCA DELLA RIVOLUZIONE PERDUTA - INTERVISTA A VINCENZO LATRONICO



E’ nato a Roma, ha vissuto per un po’ in Lussemburgo e ora fa la spola tra Milano e Brescia. Dopo aver tradotto diversi libri dall’inglese e dal francese ha dato alla luce il suo primo romanzo, "Ginnastica e rivoluzione", avventure di un gruppo di militanti no-global ambientate in Francia alle porte del G8 di Genova. L’autore è Vincenzo Latronico, studente di Filosofia alla Statale di Milano.

Di cosa parla il libro?
Il libro è una specie di romanzo di formazione adattato ai tempi. Solitamente, un romanzo di questo genere racconta la storia di un personaggio che si presenta al mondo "vergine". Poi attraverso una serie di errori, di scontri, crea una sua visione del mondo. E riesce a entrare nel mondo degli adulti.
A me sembra che questo modello oggi non funzioni molto. Se mi guardo intorno, nel mondo reale, non trovo nessuno che arrivi vergine, moralmente, al contatto con la realtà e abbia problemi a trovare punti di riferimento e valori. Secondo me la crescita è la riconquista di una verginità, la riconquista della tabula rasa, da cui si può ricominciare a costruire la propria strada. Nella storia, raggiunto questo punto, i personaggi non mi interessano più e li lascio andare.

Da dove hai preso spunto?
Lo spunto è nato scrivendo. E’ nata come una storia completamente diversa, che avevo cominciato alla fine del liceo. Poi la trama è passata attraverso vari stravolgimenti ed infine è diventata quella che è adesso. Ha sempre ruotato attorno al G8 di Genova, senza però mai tentare di raccontarlo. Prima usavo una scusa per non narrarlo: dicevo che spettava ai tribunali raccontarlo. Adesso i tribunali l’hanno raccontato e l’hanno fatto male. Per cui mi sono detto "sarebbe ora di scriverne".
L’idea era di usare come tramite il silenzio, perché è un argomento che al pubblico generico di oggi è molto chiaro.

Personaggio più somigliante?
Tutti quanti direbbero "ah, la voce narrante" e invece non è vero. Io mi rivedo molto nel personaggio meno realistico, SS (il suicidato dalla società. ndr).
E’ il personaggio che sta più in disparte e, a posteriori, è forse quello che ci credeva di più. Le altre figure maschili fanno una figuraccia nel libro. Lui è l’unico che in qualche modo esce con forza, con prepotenza. E’ il personaggio a cui sono più legato e, paradossalmente, quello cui la storia personale è più palesemente forzata. Proprio per questo dice qualcosa sulla realtà. Il punto non è copiare la realtà, ma dirne qualcosa.
Ho immaginato una figura refrattaria al movimento di generazione, spinto da una sua voglia di fare le cose. SS ha avuto una serie di bastonate nella vita, tutte legate all’idea di movimento.
Secondo me proprio perché è un personaggio irrealistico riesce a fare presa.
E il protagonista?
Il protagonista è antipatico! Si fa chiamare T., come se avesse un nome affascinante, ma alla fine si scopre che si chiama Tonino. E’ costruito per stare antipatico al lettore e lo è perché "se la mena!" E’ uno che ha la telecamera puntata su di sé e non vede il mondo intorno. Solo alla fine, magari, la gira..

Ora lasciamo perdere il libro e parliamo delle tue preferenze. Hai un libro, un autore, un film, una canzone preferiti?
Un autore preferito potrebbe essere Antonio Moresco. "I canti del caos" secondo me è il più grande libro scritto negli ultimi quarant’anni.
Per quanto riguarda la musica, adoro Daniel Johnston! Un film preferito? E’ troppo difficile. Però posso dire che c’è un film, di cui una scena è stata ripresa nel libro: "Animal house". Posso dire che la mia opera preferita è "Un’italiana in Algeri".

In un’intervista recente hai detto: "La politica, quando è vera (come l’amore), è concreta, nasce dalla vita". Cosa intendevi?
Io non ho mai detto una cosa del genere!

Quindi cosa hai detto?
Stavo parlando dei miei personaggi e ho detto che il loro percorso di maturazione li porta a smettere di riempirsi la bocca di grandi parole e cominciare a fare delle cose piccole e locali. Per esempio, perché il progetto del Partito Democratico non coinvolge nessuno? Perché è un progetto che nasce dall’alto, non da un’iniziativa locale, piccola, concreta, per cui la gente è portata a "sbattersi". Perché l’Onda ha avuto tanto successo? Perché in un periodo in cui la gente si sente lontana dalla politica, l’Onda è partita da una questione piccola, legata alla vita quotidiana. Le persone vedono che la scuola dei loro figli, la scuola dove lavorano, peggiora drasticamente. Ciò porta a dire "facciamo qualche cosa!". Secondo me, oggi, la voglia di fare qualche cosa nasce dalla concretezza, non da grandi ideali. La gente non si entusiasma per le idee, si entusiasma per le battaglie che sente sulla propria pelle.

E dell’amore che pensi?
Che domanda! Dell’amore non penso niente. Come disse lo scrittore Karl Kraus a proposito del Fuhrer: "Su Hitler non mi viene in testa nulla da dire".

Progetti futuri?
Fino all’uscita del laboratorio, avrei detto il dottorato. Adesso sto facendo questa cosa alla radio (la rubrica "Mai più soli" su Radio Onda d’Urto), a Brescia. Ed è possibile che mi venga commissionato un testo teatrale per il Festival Teatrale di Napoli.

Angela Crucitti

26 marzo 2009

DALL'OBIEZIONE DI COSCIENZA AL SERVIZIO CIVILE VOLONTARIO

Anche quest’anno, dal 1 ottobre, i volontari del servizio civile hanno iniziato a darsi da fare. 17.323 posti disponibili in Italia e 657 all’estero, distribuiti su 1041 progetti indicati da associazioni, confessionali e laiche, impegnate nell’assistenza, nella cooperazione e nella promozione culturale. Una paga di 433, 80 euro mensili, con un’indennità di 15 euro giornalieri per chi presta servizio all’estero. E’ stato possibile – e sarà possibile per i prossimi bandi – presentare la domanda, direttamente all’ente prescelto, per cittadini e cittadine italiani, tra i 18 e i 28 anni. In seguito a colloqui e selezioni sono state stilate le graduatorie, poi verificate dall’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, afferente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un iter burocratico che, derivante dal DDL n. 77/2002, è piuttosto semplice per un’occasione preziosa.
Ma la storia che ha portato alla legge sul servizio civile volontario non è semplice. Sin dal Cristianesimo delle origini ha iniziato a svilupparsi il concetto di rifiuto del servizio militare, ma è negli anni ’60 e ’70 che in Italia si sviluppano le maggiori disobbedienze civili.
Con il termine "obiezione di coscienza" si intende "il rifiuto di assolvere a un obbligo di legge gli effetti del cui espletamento si ritengano contrari alle proprie convinzioni ideologiche, morali o religiose". Spesso, in mancanza di apposite leggi, l’obiezione implica sanzioni civili, quando non penali. Le motivazioni che hanno sempre spinto molti ragazzi all’obiezione al servizio militare erano religiose o legate alla scelta nonviolenta. Oltre ai rischi penali i nonviolenti, erano spesso vittime di condanna sociale, visti come vili traditori della Patria. Dopo anni di arresti con l’accusa di "renitenza alla leva" e "diserzione" e di lotte che vedono uniti sullo stesso fronte cattolici e radicali, da Don Milani alla LOC (Lega degli Obiettori di Coscienza), si arriva nel 1972 alla legalizzazione dell’obiezione di coscienza, con la c.d. legge Marcora. La legge offriva la possibilità di un servizio civile sostitutivo obbligatorio, della durata di 8 mesi in più rispetto al regolare servizio militare.
La lotta prosegue per tutti gli anni ’80. E’ una sentenza del 24 maggio 1985 a riconoscere il servizio civile come "forma di difesa non armata, diversa da quella militare, ma di pari dignità".
La legge viene modificata negli anni, fino al 2005, anno in cui con la fine dell’obbligatorietà del servizio militare, viene meno la scelta del servizio civile come obiezione di coscienza. Resta come possibilità di scelta volontaria, rivolta sia agli uomini che alle donne.


Caschi Bianchi- Corpo civile di pace 2008.


Caschi Bianchi- Corpo civile di pace 2008
Con lo scoppio della guerra nella Ex Jugoslavia si accende nel cuore di molti obiettori di coscienza il desiderio urgente di intraprendere il loro servizio civile nei territori afflitti dalla guerra. Gli obblighi di leva imponevano il divieto di espatrio per gli obiettori. Ricominciano quindi le azioni di disobbedienza civile, con obiettori che si recano in Bosnia e in Croazia. Gli obiettivi sono tanto ambiziosi quanto chiari: promozione della pace e dei diritti umani, sviluppo e cooperazione tra i popoli. Tra il 1993 e il 1998 centinaia di obiettori partono per le aree di conflitto, dai Balcani all’Africa. Nel 1998 c’è il primo riconoscimento legislativo per svolgere servizio civile volontario all’estero. Nasce la Rete Caschi Bianchi, che coinvolge quattro organizzazioni: Caritas, Focsiv, Gavci e Associazione Papa Giovanni XXIII.
Negli stessi anni le Nazioni Unite, a partire dalla stesura nel 1992 da parte del Segretario Generale Boutros Ghali del documento "An Agenda for Peace", avevano iniziato a riconoscere l’importanza del ruolo dei civili, non armati e nonviolenti, nelle situazioni di conflitto e radicata violenza.
La risoluzione 49/139 del 1995 dell’ONU riconosce il ruolo dei Caschi Bianchi come corpi civili di pace. Una decisione significativa nell’approccio delle Nazioni Unite al peace keeping.
L’azione dei Caschi Bianchi si fonda su quattro azioni specifiche.
Il factfinding, cioè la ricerca di informazioni, documentazioni, compilazione di rapporti che testimonino le reali condizioni di vita delle popolazioni con cui vivono. Le azioni di lobby e pressione con realtà locali e con le istituzioni. Il sostegno legale ed economico alle vittime dei conflitti e delle violenze. I progetti di educazione e formazione. I paesi in cui quest’anno i Caschi Bianchi italiani hanno preso servizio sono: Tanzania, Bolivia, Cile, Zambia, Brasile, Venezuela, Albania, Romania, Kossovo, Israele e Territori Palestinesi, Bangladesh e Russia.



Il Progetto Go’el in Israele e nei Territori Occupati


Chi scrive, ha avuto la fortuna di essere selezionata per diventare una dei 200 Caschi Bianchi 2008. Destinazione Israele e Palestina, progetto Go’el. Il progetto, elaborato dall’Associazione Papa Giovanni XXIII con gli obiettivi di una presenza diretta, per incoraggiare e far conoscere le forme nonviolente di lotta, costruire microprogetti di cooperazione decentrata, fare controinformazione e sensibilizzazione presso l’opinione pubblica.
Il nome nasce dalla figura biblica del Go’el: "colui che si mette a fianco dell’oppresso e lo accompagna nel suo cammino di liberazione". Progetto ambizioso che consisterà nell’entrare in punta di piedi nella vita dell’Alternative Information Centre (www.alternativenews.org) di Gerusalemme e di Beit Sahour, vicinissima a Betlemme. Un’organizzazione israelo-palestinese, nata nel 2002 che promuove un’informazione alternativa per la tutela dei gruppi più svantaggiati e più esposti alla violenza del conflitto.
Il canale di comunicazione dei Caschi Bianchi, strumento per diffondere articoli, reportage, foto, documenti da tutte le aree d’azione è il sito www.antennedipace.org.
Mi trovate lì per un anno, e ricordatevi da maggio in poi di tenere d’occhio i bandi dell’Ufficio Nazionale. Potrebbe essere una buona idea!



Virginia Fiume

16 marzo 2009

15 marzo 2009

SURFISTI D'AUTUNNO. L’onda studentesca dall’Italia a Milano

RIFLUSSO ANOMALO - Ascesa e declino della contestazione a Milano

Onda anomala, maggioranza silenziosa. Macroinsiemi con cui vengono designate, con una buona dose di semplificazione, le due realtà in cui si può scindere il panorama attuale degli studenti universitari, tra impegno contestatore e silente consenso nei confronti dei provvedimenti governativi.
A Milano, soprattutto per quanto riguarda l’attivismo, la molteplicità delle parti in campo appare evidente, anche se all’inizio della protesta, quando l’ indignazione era al culmine e l’entusiasmo crescente, la pluralità ideologica passava in secondo piano rispetto alla forza di risucchio dell’Onda.
Alla Statale tutto ha avuto inizio con la convocazione degli Stati Generali d’ Ateneo, il 21 ottobre. Un’ assemblea partecipata, nata in stretto rapporto con il personale lavoratore e di ricerca, che faceva ragionevolmente sperare in un attivo coinvolgimento del nostro ateneo nella protesta nazionale.
Oltre ai discutibili ma mediaticamente rilevanti "fatti di Cadorna", gli Stati Generali hanno dato origine ad un’ Assemblea stabile, avente il compito di coordinare la mobilitazione, dal cui lavoro sono nate iniziative efficaci come le lezioni in piazza o la recente maratona di lettura e gruppi di lavoro più o meno proficui, che spaziano da progetti ambiziosi ma un po’ utopici come la compilazione di un "Libro Bianco dell’Università", al più pragmatico gruppo biblioteca.
Nonostante la buona volontà, ad oggi in tutta Italia il declino della mobilitazione è comunemente percepito. Le metafore sull’acqua, che in questo periodo si sprecano, parlano di risacca, di acquitrino e di ristagno. E’ il solito fisiologico riflusso di cui soffre ogni tipo di mobilitazione? E’ semplicemente dovuto al naturale calo di entusiasmo degli studenti, resi meno attivi da freddo, stanchezza e impegni accademici diventati improrogabili? O è causa dell’ illusorio senso di appagamento dato dal mezzo passo indietro del governo? L’impressione è che qui a Milano non sia soltanto questo; anche considerando che il capoluogo lombardo non è mai riuscito a raggiungere il livello di partecipazione e coesione che si è invece ottenuto in altre città.
Il gap numerico e organizzativo si è manifestato chiaramente in occasione dello sciopero generale del 14 novembre, con relativa trasferta collettiva nella capitale. Nonostante il bilancio complessivamente positivo dell’ evento, sorge spontaneo il confronto tra l’Onda milanese e le delegazioni delle altre città. Meno incisiva numericamente, povera di trovate fantasiose con cui animare il corteo, la rappresentanza meneghina si distingue per una certa disorganizzazione ed anarchia tra i "ranghi". Lo stesso spirito, a tratti volenteroso ma ben poco coeso, anima anche le numerose e variegate assemblee che si sono succedute in questo mese e mezzo.
Esattamente un mese dopo gli Stati Generali infatti, la periodica Assemblea del movimento presenta una situazione radicalmente cambiata. L’ aula è semivuota e gli studenti presenti, seppure uniti dalle rivendicazioni comuni e dalla tenacia che li vede ancora impegnati a un mese di distanza, si rivelano frazionati e impegnati in reciproche recriminazioni. Si susseguono discussioni sul metodo d’azione, su chi debba prendere le decisioni e in che modo ed infine fioccano le proteste sulle modalità di pagamento del treno straordinario per Roma, a cui hanno contribuito C.G.I.L., Rifondazione Comunista e S.U. Di fatto emergono le solite, ancestrali dicotomie e contraddizioni della sinistra italiana, atavicamente incapace di agire compatta in nome di un obbiettivo comune. Dalle frange più legate alla politica istituzionale, preoccupate principalmente di non perdere credibilità attraverso il ricorso a gesti avventanti, si va alle posizioni più ideologicamente estreme, che ci offrono a tratti squarci grotteschi di vita democratica in cui, dalla proposta già non molto diplomatica di "votare a pugno alzato" si arriva alla paradossale idea: "votiamo se votare", paralizzando o quantomeno rallentando le operazioni decisionali. In mezzo a queste posizioni emblematiche si articolano tutta una serie di collocazioni intermedie, influenzate dalla personale coscienza politica di ognuno, tutte organizzate in modo differente ed ognuna orgogliosamente refrattaria a qualunque passo indietro.

Un forte strappo all’interno dell’ Onda Statalina si era già verificato in occasione dell’ Assemblea Interuniversitaria indetta dai rappresentanti di S.U. il 4 novembre. Oggetto della polemica è stata la presenza del rettore Decleva, che aveva accettato di partecipare dopo aver rifiutato l’invito agli Stati Generali. Mentre da alcuni la presenza del Magnifico è stata interpretata come un passo in avanti, l’anima "incontrollabile e irrappresentabile" dell’Onda si mostra subito scettica, per poi diventare apertamente ostile quando il rettore e altri docenti decidono di abbandonare l’assemblea dopo il proprio discorso.
Una mossa decisamente poco diplomatica ma probabilmente dettata da impegni professionali viene interpretata da una parte dei presenti come la dimostrazione tangibile dell’impossibilità di un dialogo con le istituzioni, anche in nome di una causa comune. Dopo aver protestato calorosamente, gli Incontrollabili lasciano a loro volta, in modo plateale l’ Aula Magna, mentre l’assemblea procede un po’ in sordina, non senza delusione da parte degli organizzatori di Sinistra Universitaria, che dal periodo di movimentazione sta uscendo a sua volta indebolita e frazionata al suo interno.
Ad oggi l’unico gruppo che sembra conservare un po’ di verve è la frangia più pura degli Irrappresentabili. Anche a loro giudizio la contestazione ha, per usare un eufemismo, perso intensità, la ragione però viene individuata nell’eccessiva importanza che è stata data dall’Onda alla stampa e ai media, che ora hanno distolto i riflettori dalla protesta. "Le parole d’ordine di incontrollabilità e soprattutto irrappresentabilità sono purtroppo restate degli slogan, non traducendosi nella realtà", sostengono. La condizione che occorre per rilanciare la protesta, è una sorta di agibilità politica che dovrebbe concretizzarsi in un blocco della didattica di almeno qualche giorno, che permetta al maggior numero possibile di studenti di partecipare alle iniziative del movimento senza l’alternativa di scelta delle lezioni ordinarie. Tutto ciò, naturalmente, dovrà essere organizzato rigorosamente senza alcun appoggio di rappresentanze istituzionali, in nome della solita, immancabile frammentazione della minoranza contestatrice. "Non volendo delegare a nessuno la nostra vita, che coincide con la nostra lotta, non veniteci a parlare di rappresentanza ufficiale degli studenti. Tali rappresentanti sono per noi completamente illegittimi, siano essi di C.L., di A.U. o di S.U." Viene da chiedersi chi o cosa legittimi l’agire di una minoranza che dovrà per forza di cose realizzare l’agognato blocco della didattica attraverso una qualche forma prevaricatrice.

Assolutamente compatto è invece il fronte di Azione Universitaria Movimento della Libertà, che il 27 ottobre ha organizzato una riunione appositamente dedicata alle mobilitazioni in atto. Nell’aula designata campeggiano provocatori striscioni contro il ’68. La prima, ingenua osservazione è che siamo nel 2008, cosa c’entrano i ruggenti anni ‘60?
La questione è subito chiarita: lo striscione fa riferimento alla classe docente, in parte formatasi in quegli anni e considerata da A.U. la principale responsabile della pessima situazione in cui si trovano gli atenei. Demonizzare la classe docente è stata da subito la mossa del governo per svilire la protesta. Bisogna però dare atto ai giovani di Azione Universitaria che l’ avversione nei confronti dei baroni era già emersa nel gennaio 2008, quando nel loro blog definirono vecchi "tromboni anticlericali" i professori che vollero schierasi con chi non considerava opportuno l’intervento del Papa alla Sapienza, per l’inaugurazione dell’anno accademico.
Il fronte della "classe di giovani vincente" sposta l’attenzione dalla riforma, focalizzandola, oltre che sulle malefatte dei baroni, sull’ evidenza che il sistema universitario versava già in condizioni pessime ben prima dei nuovi interventi legislativi. Vengono ragionevolmente e coerentemente esposti alcuni dei principali problemi che affliggono le nostre università: dalla carenza degli alloggi per studenti alla necessità di efficaci sistemi di valutazione di merito per corsi e docenti. L’ impressione è che si miri a focalizzarsi sulla pagliuzza per non vedere la trave. Come è possibile lamentarsi della mancanza di alloggi senza chiedersi in che modo meno soldi a disposizione dovrebbero contribuire a risolvere il problema?
Resta da analizzare la posizione del terzo polo della rappresentanza studentesca in Statale. L’opinione di Obbiettivo Studenti è rimasta a lungo sottotono. Significativo però è stato l’incontro Università: da dove ripartire, dell’ 11 novembre, al quale è intervenuto anche il Rettore. Oltre alle solite constatazioni sullo stato attuale dell’università, emerge l’assoluto rifiuto a qualsiasi forma di blocco della didattica e la netta opposizione ad ogni attività che possa in qualche modo inficiare il normale svolgimento delle attività di studio e apprendimento.
Quanto ad una presa di posizione netta nei confronti della Finanziaria Tremonti, dobbiamo accontentarci di alcuni stralci di discorso che, se interpretati con buon senso, lasciano trapelare una certa preoccupazione per le sorti dell’università italiana, oltre che un po’ di perplessità nei confronti della logica governativa: "proprio quando un paese attraversa un periodo di crisi l’investimento in ricerca e istruzione è l’unica cosa sensata da fare per porre le basi di una ripresa, che prima ancora di essere economica deve essere culturale". E ancora: "Un Paese sta in piedi solo nella misura in cui è capace di investire nell’educazione dei propri giovani. Meglio andare in giro nudi che perdere la capacità di educare". In questo forse siamo d’accordo tutti, anche una parte della cosiddetta maggioranza silenziosa.
Ma le discussioni di metodo hanno sempre il sopravvento.
Laura Carli

L'ARMATA DEI PROF. - dai baronati agli assistenti, l'altra faccia della protesta
È il 1968, sui muri della Sapienza occupata si legge "Fuori i baroni rossi, bianchi, neri o a pallini". Gli anni in cui è proibito proibire e per essere realisti bisogna chiedere l’impossibile rivelano lo studente come soggetto politico, rendono chiara la sua presenza e la sua volontà di agire sul presente. Nel Sessantotto l’università, nel panorama della crescente mobilità sociale, da istituzione sostanzialmente elitaria qual era si apre alla massa. Il passaggio al nuovo status allargato è avvenuto però in modo disorganico, malgestito sia dalla politica che dagli organi accademici e dai docenti, e subito emergono contraddizioni, difficoltà e arretratezza dell’apparato universitario. Dal basso, dagli studenti, è allora partita la contestazione ai mali dell’università, in primis il sistema tentacolare dei baronati. Non tutti i professori sono baroni, c’è anche chi si schiera con gli studenti, ma la sostanza non cambia, le parti sono naturalmente e per distacco generazionale avverse.

Settembre 2008: come più volte è stato sottolineato, non senza una certa malizia, la protesta contro la finanziaria estiva del ministro Tremonti vede la partecipazione in buona misura anche del corpo docente: chi si è apertamente schierato, chi ha dato il proprio diretto contributo, chi ha visto di buon’occhio la rinnovata coscienza, da parte degli studenti, nei confronti dei problemi più seri e complessi dell’Università. Ma pur partendo dal casus belli della 133, perché questa volta anche i professori – e qualche rettore – hanno voluto farsi tanto coinvolgere? È stata davvero una tattica per strumentalizzare la protesta studentesca? Per rispondere a queste domande dovremmo prima considerarne un’altra: chi sono, oggi, i professori universitari?
L’attuale sistema docente si può identificare nella forma 3+1. Tre sono le categorie in cui si inseriscono i professori strutturati: professori ordinari (I fascia, la più alta), associati (II fascia), e ricercatori. Uno è l’insieme magmatico, residuale, essenziale e invisibile dei non strutturati. Sono, a grandi linee, quelli che chiamiamo indiscriminatamente assistenti, e comprendono dottorandi, assegnisti, docenti a contratto, cultori della materia e borsisti vari.
Quello che più preme a strutturati e non strutturati e che li può avvicinare alla protesta studentesca è la sostanziale trascuratezza con cui le politiche governative guardano all’università. Una noncuranza e una disattenzione che di fatto hanno portato gli atenei al malfunzionamento e alla congestione rispetto al panorama internazionale.
Non solo. Come poi denunciato dal rettore Decleva durante la conferenza interuniversitaria organizzata in Aula Magna da Sinistra Universitaria, con la 133 il Governo sembra aver assunto un atteggiamento arbitrariamente giustizialista nei confronti dell’Università. "Un’azione più che altro punitiva", aggiunge il professor Franzini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia del nostro ateneo, che deve gestire per il 2009 una riduzione del fondo interno per la ricerca pari a 45 milioni di euro, di cui 15 milioni verranno attinti dalla decurtazione degli stipendi. E, sempre per far fronte ai tagli, i contratti dei docenti esterni sono già stati ridotti da 85 a 60 euro l’ora.
Ancora Franzini sottolinea che oltre agli studenti, chi pagherà subito e di più le conseguenze della finanziaria saranno assegnisti, dottorandi e ricercatori. Vulcano ha voluto allora incontrare gli assistenti, i non strutturati di Lettere e Filosofia della Statale, per capirne meglio le difficoltà e attuali prospettive. Con l’inizio della mobilitazione è stato creato un coordinamento dei lavoratori non strutturati che incorpora le realtà di Statale, Bicocca e Politecnico ed è strettamente interconnesso alle altre iniziative nazionali. Due sono le linee principali del coordinamento milanese: una ideologico-analitica -il gruppo Riforma- che si occupa dell’autoanalisi, dell’autocensimento, e dell’elaborazione di proposte a livello teorico, e un’altra più pragmatica, riconducibile alle lezioni in piazza, in metrò, in periferia, tesa alla costruzione di un rapporto più concreto e sensibile fra mondo accademico e società civile (sito di riferimento: www.diversamentestrutturati.noblogs.org). I problemi più gravemente sentiti dai non strutturati girano, in sostanza, intorno alla scarsa visibilità e considerazione in cui sono tenuti il proprio ruolo e il proprio lavoro. Gap di rilevanza che si manifesta, in concreto, con la ridottissima rappresentanza negli organi accademici o con il non riconoscimento, non solo di alcuni di quei diritti accordati ai professori strutturati (ad esempio la copertura delle spese per trasferte o spostamenti) ma nemmeno di quelli degli studenti, a partire dal banale tesserino mensa. Contigua a questa situazione è poi la mancanza di finanziamenti, aggravata dalla 133, che impedisce la ricerca in proprio, limita le possibilità di studio, di aggiornamento e la circolazione dei saperi (come l’opportunità di chiamare docenti esterni). "Cosa succederebbe se non ci fossimo, o se fossimo la metà?", ci chiede sconfortata Beatrice, dottoranda in Filologia Romanza. Durata degli esami, possibilità per i professori di fare anch’essi ricerca, sono assolutamente condizionati dalla presenza di questi lavoratori non strutturati e a maggioranza precari.
A base del problema anche la mancanza, in Italia, di una lungimiranza progettuale politicamente condivisa su educazione e formazione. Come sostiene Franco Donzelli, docente di Economia a Scienze Politiche, a proposito di governance, del sistema dei reclutamenti e del diritto allo studio, "la struttura universitaria si fonda su leggi precise ed è quindi a livello legislativo che bisogna intervenire per migliorare questi aspetti dell’Università". Per concludere ci sembra significativo quanto espresso da Elena, dottoranda in Filologia Classica: "Abbiamo bisogno di un motivo per non andarcene". È una ragione poi tanto diversa da quella degli studenti?

Giuditta Grechi
L'ESERCITO DEL SURF

Non certo simile nè complementare a quello caldo del sessantanove, l’autunno del 2008 è stato a dir poco movimentato per gli studenti italiani. L’approvazione dei decreti 112 e 137 - successivamente convertiti in legge (133 e 169) - ha scatenato il "maremoto" della protesta nelle scuole. Bersaglio principale sono stati gli ingenti tagli previsti che causeranno, secondo i contestatori, una svalutazione qualitativa degli istituti di formazione e la perdita di numerosi posti di lavoro, oltre ad essere incapaci di porre alcun rimedio agli sprechi cui il governo afferma di voler rimediare.
Più di trecento manifestazioni spontanee e organizzate, e oltre duecento tra facoltà e scuole occupate, travolgono quindi il governo e i media come un flutto marino. Infatti il movimento studentesco dell’epoca berlusconiana decide proprio di chiamarsi Onda o Onda Anomala, e si racconta nel libro-manifesto L’esercito del sur: La rivolta degli studenti e le sue vere ragioni. Sfruttando l’anagramma del proprio nome, l’ Onda Studentesca ha fatto anche nascere la figura ribelle e virtuale di Anna Adamolo, Ministro Onda dell’Istruzione, che a suon di "la vostra crisi non la pagheremo noi" promulga la "volontà di tenere aperto il molteplice e il possibile contro l’arroganza di un pensiero contabile" rifiutando la logica del "sanare le difficoltà dell’oggi con le miserie di domani".
Fa presto il movimento – formato indifferentemente da studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo di scuola e università - a estendersi in tutto il territorio italiano e a coinvolgere la maggior parte degli atenei. Supportato anche dagli studenti in Erasmus nelle varie parti d’Europa, riesce velocemente a mettere in scena numerose forme di portesta: occupazioni di aule e laboratori, lezioni alternative e all’aperto, incontri, dibattiti (a volte estenuanti), assemblee fiume, tavole rotonde.
A Firenze, uno dei più accesi focolai della contestazione, la didattica viene bloccata per quasi un mese e vedono una larghissima partecipazione i due incontri, organizzati dai collettivi studenteschi, con Sabina Guzzanti e Margherita Hack.
È stato Roma però, il vero epicentro dello tzunami. A parte le grandissime manifestazioni svoltesi, memorabili sono state le occupazioni delle facoltà, trasformate anche in alloggi per i rivoltosi di tutta italia. Alcune iniziative molto particolari – gli spogliarelli in strada e le lezioni ai bambini – hanno portato il problema dei ricercatori in primo piano. Ma hanno fatto da sfondo gli sconcertanti episodi di piazza Navona, quando gruppi studenteschi di destra e di sinistra sono venuti in contatto, in circostanze non ancora chiarite del tutto, scatenando attimi di vera e propria guerriglia urbana.
Al sud i centri più movimentati sono stati quelli di Napoli e Palermo, mentre Torino e Bologna sono state le fucine per un ambizioso incontro tra studenti e lavoratori, al fine di costruire un fronte comune per la protesta.
Anche Milano si pone a pieno titolo tra le città più ribelli di quest’autunno. L’ingente movimento contestatorio parte dalla riunione degli Stati Generali d’Ateneo, tenutasi il 21 ottobre e arriva a influire sul cammino parlamentare della "riforma" quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontra, nell’ateneo statale, una delegazione degli studenti capace di convincerlo a fare pressione sul governo affinchè apra un "confronto concreto" con le parti coinvolte.
Varie sono state anche le manifestazioni nazionali con centinaia di migliaia di partecipanti: quella del 17 ottobre a Roma e Milano, del 30 in moltissime città italiane e del 14 novembre nella capitale.
In difesa dei famigerati decreti sono sorti invece diversi movimenti, portavoce di una non meglio specificata maggioranza silenziosa, la cui consistenza è stata in varie occasioni messa in dubbio.
Ad oggi però, dopo mesi trascorsi a battere sugli scogli, l’Onda pare placarsi nel mare calmo dell’immobilità. Nonostante i continui impegni delle varie forze politiche universitarie, la cresta della protesta non riesce più ad alzarsi e a far parlare di scuola il governo e i media. Già dopo il piccolo passo indietro fatto dall’esecutivo nella prima metà di novembre gli studenti hanno iniziato e dileguarsi lasciando soli i collettivi a dibattere sul metodo e sull’importanza della formazione.


Danilo Aprigliano

13 marzo 2009

BOX: QUANDO LA PROTESTA AGUZZA L'INGEGNO

ALCUNI DEGLI SLOGAN PIU' DIVERTENTI DELL'ONDA

"Fatti non foste a viver come bruti, ma pe’ studià ce voglion due mutui."
"Siamo sul baratro, ma questa riforma è un passo avanti."
"Gelmini sarta subito".
"Contro Beata Ignoranza non basta la Santa Pazienza".
"Non c’è più il futuro di una volta".
"Noi non siamo il problema, ma la soluzione (CNR Pisa)".
"Con questi tagli la ricerca la faremo su Wikipedia".
"La cultura nuoce gravemente al potere".
"Meno scuola lo dice il decreto, per fare la letterina basta l’alfabeto".
"Berlusconi, abbassa la cresta: è grazie alla ricerca se hai i capelli in testa".
"Maria Stella Gelmini dietro la lavagna/ zero in politica come la Carfagna".
"Tagliate, tagliate, che la ricerca taglia la corda! La protesta è Normale! "(Pisa)

9 marzo 2009

W. RECENSIONE



Lo scorso 21 novembre W. ha aperto il Torino Film Festival, tiepidamente. Il 17 ottobre era uscito negli Stati Uniti con incassi non (con)vincenti, rivelandosi un mezzo flop. All’inizio di ottobre Alemanno e l’organizzazione del Festival del Film di Roma affermavano che gli stessi produttori non avevano voluto che il film fosse presentato alla manifestazione, preferendo invece il quasi contemporaneo Festival di Londra. Pare anche che Berluscuni stesso sia stato irritato dal film, probabilmente a priori. Medusa e Rai inoltre non devono averci visto un investimento proficuo e nessuna delle due ha deciso di distribuirlo.
E’ invece notizia del 28 novembre che i diritti per l’Italia sono stati infine acquisiti dalla semisconosciuta Dell’Angelo, compagnia specializzata perlopiù nell’edizione dvd di film non recenti. Anche senza chiedersi dove abbia trovato il capitale necessario, la prima cosa che viene da pensare è che relegare il film in qualche (irraggiungibile?) landa della distribuzione sia stata la mossa più comoda per quietare le polemiche, anche se La7 ne ha impavidamente acquistato i diritti e ha recentemente mandato in onda il film in prima serata.
Controversie artistiche, economiche o politiche che siano, all’ultimo lavoro di Oliver Stone è stata data poca visibilità e considerazione. Questo perché qualsiasi giudizio si possegga sulla figura di George Walker Bush, stolto tiranno o paladino della libertà, è difficile trascenderla per farsi abbracciare da un film che vuole essere il ritratto di un uomo, di una persona, spiazzando e beffando entrambe le fazioni. In più l’impossibile tempismo: troppo presto per un’adeguato profilo biografico, troppo tardi per una denuncia politica (già portata al successo quattro anni fa da Fahrenheit 9/11). W. rimarrà anacronistico ancora a lungo, distante da entrambi questi generi cinematografici.
Già due volte, con JFK e Nixon, Stone ha affrescato i chiari e gli scuri del rapporto (sempre gerarchico in favore del secondo) tra presidente USA e governo, e quasi ogni suo film è stato un ritratto sovversivo ed energico di turbamenti, determinazioni e sfortune di "grandi" uomini, Alexander in primis. Adattandosi al soggetto, ecco il risultato: W. è la storia lineare di un uomo medio, prima sbandato figlio dell’aristocrazia petrolifera e poi politico non per scelta, catapultato in un mondo e in un pensare ingestibili e più grandi di lui. I suoi sogni candidi da texano d.o.c., tra sbronze, baseball e carne arrostita male si addicono al ruolo che si ritrova a ricoprire e ne fanno un impacciato e imbarazzante individuo alla presidenza degli Stati Uniti.


Definibile come l’antiDivo, W. è, al contrario del film di Sorrentino (sfavillante e ingordo di aforismi e simboli), un’apologia dell’errore e della semplicità, mite e senza giudizi, in cui il Potere non è continuamente intrecciato ai demoni interiori, ma anzi è quasi del tutto tralasciato a favore di qualcosa di più sottile ma immanente: l’incapacità e la paura riguardo al giudicare, l’affrontare, il decidere.
Il sogno mai svanito di diventare allenatore di baseball, rappresentato dal vedersi continuamente al centro di uno stadio vuoto, l’essere raggirato dal proprio stesso entourage senza però mai accorgersene e poi la corrucciata delusione di non aver trovato l’atomica di Saddam, tutto indica una fisiologica propensione al fallimento. E’ la storia dell’ inadeguata, dolce mediocrità di un uomo che ha ancora prospettive da bambino e che non è mai giunto alla fine dell’adolescenza, ancora oggi sotto il gravame di un padre agli occhi del quale voler brillare, un patriarca morbosamente rinnegato ed osannato insieme, anche mentre gli rinfaccia la sua inettitudine. Questa è la chiave: un genitore ammirato ed elegantemente riuscito nella vita, nuovo Gordon Gekko preso come dio e come eterno orizzonte, che diventa eterna inconcludenza, soprattutto quando l’omonimia (nella notorietà) è completa, ad eccezione di quella "W" che è appunto il titolo del film.
Similare a The weather man con Nicholas Cage e Toro scatenato incravattato, questa è la vicenda di un uomo che deve accettare i propri limiti. L’interpretazione di Josh Brolin, oltreché accademicamente perfetta, è in perfetto equilibrio tra il fanciullesco e il rustico, con uno sguardo prima da cane impaurito, poi da fiero (di non si sa bene cosa) cowboy. Lontano dalla ritmica senza freni della maggior parte dei suoi capolavori precedenti, Oliver Stone inquadra e mette in scena, come un mondo dai codici netti e istituzionalizzati, scevri di ironia, stanze del potere e vita del "classico americano", esattamente come notiziari, cinema e televisione ce li hanno fatti conoscere, senza sbavature o frangenti scandalosi. Il protagonista stona visibilmente (o meglio: è l’unico ad avere una musica), attorniato da attori comprimari scelti in base a un’estremo mimetismo con i loro corrispettivi reali e calati in un interpretare atono, spoglio e conciso, una sorta di manichini tra i quali Bush non può che risultare buffamente umano, ridicolamente vivo. E solo. Questo pensiero sull’ex presidente degli Stati Uniti è ovviamente distante da gran parte della realtà e dalle conseguenze che questa inettitudine ha provocato, ma poco deve importare. Simpatia, pena, tenerezza, commozione e, volendo, riflessione sono sufficienti: ecco un nuovo antieroe. E che George W. Bush, quello vero, sia anche lui un uomo è forse il messaggio che alcuni hanno voluto censurare.
«Qualcosa ho sbagliato… Ma non so bene che cosa» è una frase che vale per tutti.


Alessandro Tavola

CURARE PER NON PREVENIRE


In Italia, si sa, il corso che seguono le leggi difficilmente è quello regolare, così accade che una sentenza passata in giudicato venga bloccata appena prima dell’attuazione, senza presupposti giuridici che lo consentano. E’ quello che è capitato con l’ormai celeberrimo e discusso caso Eluana Englaro, quando ad ottobre la Corte d’appello civile di Milano ha autorizzato il padre, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata.
La maggioranza al governo, come al solito compatta, soprattutto in odierni tempi di lotta contro l’infida magistratura, sputa veleno contro la sentenza, facendo appello a una conclamata e roboante difesa della vita che si estende al limbo del coma vegetativo permanente, e che finisce per mettere in ombra questioni meno di impatto mediatico ma assolutamente drammatiche. Il rapporto Airtum 2008 rivela che nel nostro Paese le neoplasie infantili crescono del due percento l’anno, con un andamento doppio rispetto a quello europeo e addirittura cinque volte maggiore rispetto agli indici americani. L’inquietante tendenza viene subito spiegata come il risultato dei nostri avanguardistici metodi nel campo della diagnosi precoce. Come dire: non è colpa dell’Italia che forse ha problemi di inquinamento, pesticidi o alimenti malsani, semplicemente siamo i più bravi di tutti a fare le diagnosi. A questo proposito il governo decide di puntare sui nostri fattori di forza: sceglie cioè di investire nell’accesso alla diagnosi precoce, tagliando invece gli investimenti nella prevenzione. Curare insomma è meglio di prevenire. E’ questo che significa essere "paladini della Vita".

Laura Carli

5 marzo 2009

YOUTH AMNESTY INTERNATIONAL PARTY



Vulcano vorrebbe segnalare a tutti i suoi lettori un evento:

venerdì 7 marzo, ore 22:00, allo SPAZIO AURORA di Rozzano, il gruppo 037 di Amnesty International organizza una festa, con performance teatrale della Compagnia Puntozero, proiezione della mostra fotografica "Sabati di Libertà" di Giuseppe Alibrandi, e dj set.


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