9 marzo 2009

W. RECENSIONE



Lo scorso 21 novembre W. ha aperto il Torino Film Festival, tiepidamente. Il 17 ottobre era uscito negli Stati Uniti con incassi non (con)vincenti, rivelandosi un mezzo flop. All’inizio di ottobre Alemanno e l’organizzazione del Festival del Film di Roma affermavano che gli stessi produttori non avevano voluto che il film fosse presentato alla manifestazione, preferendo invece il quasi contemporaneo Festival di Londra. Pare anche che Berluscuni stesso sia stato irritato dal film, probabilmente a priori. Medusa e Rai inoltre non devono averci visto un investimento proficuo e nessuna delle due ha deciso di distribuirlo.
E’ invece notizia del 28 novembre che i diritti per l’Italia sono stati infine acquisiti dalla semisconosciuta Dell’Angelo, compagnia specializzata perlopiù nell’edizione dvd di film non recenti. Anche senza chiedersi dove abbia trovato il capitale necessario, la prima cosa che viene da pensare è che relegare il film in qualche (irraggiungibile?) landa della distribuzione sia stata la mossa più comoda per quietare le polemiche, anche se La7 ne ha impavidamente acquistato i diritti e ha recentemente mandato in onda il film in prima serata.
Controversie artistiche, economiche o politiche che siano, all’ultimo lavoro di Oliver Stone è stata data poca visibilità e considerazione. Questo perché qualsiasi giudizio si possegga sulla figura di George Walker Bush, stolto tiranno o paladino della libertà, è difficile trascenderla per farsi abbracciare da un film che vuole essere il ritratto di un uomo, di una persona, spiazzando e beffando entrambe le fazioni. In più l’impossibile tempismo: troppo presto per un’adeguato profilo biografico, troppo tardi per una denuncia politica (già portata al successo quattro anni fa da Fahrenheit 9/11). W. rimarrà anacronistico ancora a lungo, distante da entrambi questi generi cinematografici.
Già due volte, con JFK e Nixon, Stone ha affrescato i chiari e gli scuri del rapporto (sempre gerarchico in favore del secondo) tra presidente USA e governo, e quasi ogni suo film è stato un ritratto sovversivo ed energico di turbamenti, determinazioni e sfortune di "grandi" uomini, Alexander in primis. Adattandosi al soggetto, ecco il risultato: W. è la storia lineare di un uomo medio, prima sbandato figlio dell’aristocrazia petrolifera e poi politico non per scelta, catapultato in un mondo e in un pensare ingestibili e più grandi di lui. I suoi sogni candidi da texano d.o.c., tra sbronze, baseball e carne arrostita male si addicono al ruolo che si ritrova a ricoprire e ne fanno un impacciato e imbarazzante individuo alla presidenza degli Stati Uniti.


Definibile come l’antiDivo, W. è, al contrario del film di Sorrentino (sfavillante e ingordo di aforismi e simboli), un’apologia dell’errore e della semplicità, mite e senza giudizi, in cui il Potere non è continuamente intrecciato ai demoni interiori, ma anzi è quasi del tutto tralasciato a favore di qualcosa di più sottile ma immanente: l’incapacità e la paura riguardo al giudicare, l’affrontare, il decidere.
Il sogno mai svanito di diventare allenatore di baseball, rappresentato dal vedersi continuamente al centro di uno stadio vuoto, l’essere raggirato dal proprio stesso entourage senza però mai accorgersene e poi la corrucciata delusione di non aver trovato l’atomica di Saddam, tutto indica una fisiologica propensione al fallimento. E’ la storia dell’ inadeguata, dolce mediocrità di un uomo che ha ancora prospettive da bambino e che non è mai giunto alla fine dell’adolescenza, ancora oggi sotto il gravame di un padre agli occhi del quale voler brillare, un patriarca morbosamente rinnegato ed osannato insieme, anche mentre gli rinfaccia la sua inettitudine. Questa è la chiave: un genitore ammirato ed elegantemente riuscito nella vita, nuovo Gordon Gekko preso come dio e come eterno orizzonte, che diventa eterna inconcludenza, soprattutto quando l’omonimia (nella notorietà) è completa, ad eccezione di quella "W" che è appunto il titolo del film.
Similare a The weather man con Nicholas Cage e Toro scatenato incravattato, questa è la vicenda di un uomo che deve accettare i propri limiti. L’interpretazione di Josh Brolin, oltreché accademicamente perfetta, è in perfetto equilibrio tra il fanciullesco e il rustico, con uno sguardo prima da cane impaurito, poi da fiero (di non si sa bene cosa) cowboy. Lontano dalla ritmica senza freni della maggior parte dei suoi capolavori precedenti, Oliver Stone inquadra e mette in scena, come un mondo dai codici netti e istituzionalizzati, scevri di ironia, stanze del potere e vita del "classico americano", esattamente come notiziari, cinema e televisione ce li hanno fatti conoscere, senza sbavature o frangenti scandalosi. Il protagonista stona visibilmente (o meglio: è l’unico ad avere una musica), attorniato da attori comprimari scelti in base a un’estremo mimetismo con i loro corrispettivi reali e calati in un interpretare atono, spoglio e conciso, una sorta di manichini tra i quali Bush non può che risultare buffamente umano, ridicolamente vivo. E solo. Questo pensiero sull’ex presidente degli Stati Uniti è ovviamente distante da gran parte della realtà e dalle conseguenze che questa inettitudine ha provocato, ma poco deve importare. Simpatia, pena, tenerezza, commozione e, volendo, riflessione sono sufficienti: ecco un nuovo antieroe. E che George W. Bush, quello vero, sia anche lui un uomo è forse il messaggio che alcuni hanno voluto censurare.
«Qualcosa ho sbagliato… Ma non so bene che cosa» è una frase che vale per tutti.


Alessandro Tavola

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