29 marzo 2010

Saccenti e abbandonati

È normale: tutti, o quasi, preferiamo chi ci strizza l'occhio a chi ci rimprovera. Il populismo, si sa, paga fin dall'epoca delle democrazie (o simil tali) più antiche e oggi, grazie a vari e prodigiosi strumenti, può far persino diventare dei santi. Certamente la grigia e aureolare saccenteria di certi professoroni non può neanche sognarsi di competere. Lo hanno capito benissimo i politici di sinistra. Tanto è vero che il loro stereotipo più diffuso è quello dello snob spocchioso che sale in cattedra ad insegnare a tutti la morale e il buon governo. Gli elettori non capiscono; ed eleggono altri.

E pensare che fu proprio la sinistra a nascere populista. Nel senso di vicina al popolo, certo, ma anche, e soprattutto, al suo stomaco. Spaventava proprio la sua capacità di muovere masse rozze e ignoranti.

Oggi le cose stanno esattamente agli antipodi; ma la sinistra continua a dirsi di popolo. E infatti, proprio per questo, si arrocca nel suo castelluccio di pedante presunzione i cui muri ormai si sgretolano come pane andato a male.

Ma se, a questo punto, per qualcuno potrebbe essere fin troppo facile sottolineare la pericolosità della dittatura della maggioranza (citando magari De Tocqueville e Stuart Mill), ancora più facile sarebbe, o potrebbe essere almeno, chiedersi, riflettendo sui più basilari meccanismi della democrazia: si può veramente pretendere dagli elettori (non dai sudditi) che votino per delle autoreferenziali élites intellettuali e provino reverenza per degli atteggiamenti così professorali?

Quando la presunzione si atteggia, e sembra vera e propria boria, allora si ha l'impressione che diventi una patologia. E, purtroppo, di natura epidemica.

Danilo Aprigliano

26 marzo 2010

Archeologi di sè stessi. I disagi di una facoltà

Vi siete mai chiesti come mai non conoscete nemmeno uno studente che frequenta il corso di laurea in Archeologia? No, non siete degli asociali, semplicemente nell'anno accademico 2008/2009 sono solo venti gli studenti che hanno deciso di iscriversi a questo corso. Per fortuna quest'anno il numero è salito sopra i trenta: se questa soglia non fosse stato superata per due anni consecutivi, secondo una delibera della facoltà di Lettere e Filosofia, il corso di laurea sarebbe stato soppresso.

Ma come mai gli studenti decidono di andare altrove e  di non frequentare il corso a Milano, il più grande bacino di risorse umane del nord-ovest?

Per rispondere dobbiamo tornare indietro nel tempo: precisamente all’avvento della riforma universitaria del “3+2”. Prima, per divenire archeologo, si conseguiva la laurea in Lettere e Filosofia con una tesi in archeologia. Il nuovo sistema diede la possibilità di specializzare gli studi creando nuovi corsi di laurea. Ma mentre il resto d'Italia sceglieva di dotarsi di una facoltà “Scienze dei beni archeologici”, Milano decise di inserire questa disciplina tra le lauree specialistiche del dipartimento di “Scienze dei beni culturali”. La conseguenza fu l’obbligo per un aspirante archeologo di sostenere esami completamente estranei al proprio ambito di studi.

Più fortuna non si trova, successivamente, iscrivendosi alla “specialistica” in Archeologia. Dei molti esami tecnico-scientifici oggi essenziali per la formazione di un archeologo, lo studente può sceglierne solo uno da 6 CFU, trovandosi decisamente penalizzato nel proprio percorso formativo.

Qualora, nonostante tutto, uno studente decidesse di iscriversi  alla “Statale”, non sarebbe agevolato nemmeno dalla struttura dell’università. Infatti i fondi della facoltà vengono assegnati ai vari dipartimenti col metodo degli “afferenti”, una quota pro capite ripartita in base al numero delle persone impiegate. Il corso di Archeologia rientra nel dipartimento di Scienze dell'Antichità e purtroppo il personale non arriva alla decina di elementi. Ad Archeologia quindi sono preferiti altri corsi con più personale, creando una netta sproporzione fra i bisogni economici ed i fondi a disposizione. Ad esempio, se la biblioteca di Archeologia volesse acquisire una nuova pubblicazione, dovrebbe sostenere un costo vicino ai 400 € a volume, una cifra che inciderebbe molto sul bilancio del corso. Per questo motivo non la si può dotare di testi editi recentemente.

Un altro problema per lo studente sono gli scavi, fondamentali per l’esperienza “sul campo”. Se la nostra università può vantare qui un’eccellenza è per l'impegno dei singoli docenti e non per le strutture di cui si è dotata nel tempo. Ad ogni modo la Statale riserva agli scavi un fondo speciale istituito dal Magnifico rettore, ed è quindi da smentire la voce secondo cui gli studenti dovrebbero pagarseli da soli: “E’ una voce che si rincorre da anni, da quando io ero uno studente.” - afferma il professor De Marinis, professore ordinario di Preistoria e Protostoria - . “Se sono scavi finanziati dall’università gli studenti non pagano nulla. Gli eventuali costi dipendono dagli spostamenti per raggiungere il luogo dello scavo e la possibilità, per il comune vicino, di mettere a disposizione alloggi per gli studenti.”

Per avere una visione completa sulla mancanza di attrattiva di Milano da parte degli studenti, si deve considerare che in città non sono presenti musei archeologici o laboratori di restauro importanti a livello nazionale. Inevitabilmente gli studenti si indirizzeranno verso le offerte formative di Bologna, Padova o Roma, ben dotate da questo punto di vista.

Archeologia dovrebbe avere un proprio dipartimento come Padova o Bologna e, quindi, ricevere un quantitativo di fondi decisamente maggiore che, se impiegati bene, favorirebbe l’acquisto di nuovi testi, un ampliamento delle strutture e dei corsi di studio. Si potrebbero così azionare gli insegnamenti che fanno dell'archeologo un vero e proprio coordinatore dello scavo archeologico, vale a dire le discipline di carattere tecnico-scientifico che, oggi, l'Università degli Studi di Milano nega ai propri studenti.

Quando e se l'Ateneo deciderà di impiegare le proprie risorse per un reale e totale cambiamento di approccio al “caso archeologia” ed ai bisogni degli studenti, allora potrà iniziare a competere con le altre università. Ma in un periodo di crisi economica per il nostro ateneo, i docenti potranno avere ciò che chiedono?

Massimo Brugnone e Davide Contu

24 marzo 2010

Sahara occidentale. L’ultimo muro

Il nuovo decennio si apre e oggi, grazie alla tecnologia sempre all’avanguardia e i nuovi media, siamo in grado di comunicare e ricavare informazioni da ogni angolo del pianeta con un semplice un click.

sahara_occidentaleEventi e notizie sono alla portata di (quasi) tutti ormai e possiamo vantare una conoscenza da manuale per quanto riguarda i fatti del giorno, i gossip e le mode del momento. Ma siamo proprio sicuri di essere sempre informati su ciò che di rilevante accade nel mondo?

No, purtroppo. Il caso del Sahara Occidentale ne è una prova tangibile.

Forse non tutti sanno infatti che, tra il Marocco e la Mauritania, si estende la più grande area non indipendente del mondo, la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. La popolazione da circa trent’anni convive con la presenza di un muro, costruito dallo stesso Marocco a causa della guerriglia che si protrae dal 1975. In questo modo però il territorio è completamente isolato dal resto dell’Africa nord occidentale.

Ma procediamo con ordine: il Sahara Occidentale, un tempo territorio spagnolo, venne successivamente occupato dal Marocco, dopo un accordo con la Spagna; l’incursione straniera, passata alla storia con il nome di Marcia Verde, venne descritta dai media come un insediamento pacifico, dimenticando di citare gli scontri violenti e i bombardamenti avvenuti.

Questo territorio così ricco di fosfati e di image004pesce è stato a lungo conteso tra la popolazione nativa e i Marocchini fino al 1991, anno in cui venne interrotta la guerriglia tra le due nazioni con la promessa di istituire un referendum che determinasse la libertà del Sahara Occidentale o la sua definitiva occupazione da parte del Marocco. In questi anni molti Sahrawi fuggirono a causa della guerra e, per evitare che tornassero indietro, il Marocco costruì un muro che parte dall’Algeria e arriva fino all’Oceano Atlantico, alto 4 metri e lungo ben 2700 km. Questo muro non ha nulla a che vedere con le titaniche costruzioni che attirano tanto i turisti, ma ha un’unica funzione: interamente minato, ricoperto di filo spinato e perennemente sorvegliato da 160.000 soldati, tiene gli abitanti del Sahara Occidentale reclusi nella propria patria. Questi vengono trattati come cittadini di ordine inferiore, ai limiti della condizione di schiavitù. Le torture e le sevizie, inflitte dal Governo Marocchino tramite la propria polizia, sono all’ordine del giorno non solo nei confronti degli attivisti, ma soprattutto verso la popolazione civile inerme, tanto che uomini, donne e bambini sono quotidianamente sottoposti a continui stupri, fisici ed emotivi. Nonostante nel 1979 il re del Marocco Hassan II firmò la carta dei diritti dell’uomo, questa popolazione occupata è stata letteralmente imprigionata e privata di ogni forma di giustizia e dignità.

Ma parliamo ora di cifre: questo scenario ripugnante di violenza e soprusi costa ogni anno quarantasei milioni di dollari, che servono a finanziare soldati dell’ONU che controllano i territori liberati stanziati in otto caserme, ma che di fatto non fanno nulla. La missione chiamata MINURSO (United Nations Mission for The Referendum in Western Sahara) che doveva permettere la votazione del referendum in modo pacifico nel 1992, non è stata mai portata a termine. Il Marocco, infatti, non hai mai accettato che il referendum, come era stato stabilito, seguisse le liste del censimento del 1974, cioè prima dell’occupazione, pretendendo invece si seguissero quelle del 1991, dove il rapporto tra Marocchini e Sahrawi era di a 7 a 1.

Gli sprechi, quindi, sono enormi se pensiamo  ai costi per mantenere delle truppe in un territorio così ostile come il deserto; e tutto ciò viene pagato anche dalla Comunità Europea, quindi da noi stessi. Non solo siamo davanti a una situazione assolutamente intollerabile, ma inconsapevolmente continuiamo a permetterla, dal momento che l’opinione pubblica ne viene tenuta all’oscuro.

I pochi che sono a conoscenza di questa tragica situazione stanno facendo sentire la loro voce, scrivendo articoli e facendo firmare petizioni per dire finalmente basta a tutto questo, come il famoso reporter Stefano Salvi, grazie al quale possiamo vedere sul suo sito web con i nostri occhi le sconcertanti immagini del “muro della vergogna” e di ciò che accade in quelle terre. ( www.stefanosalvi.it )

E’ inaccettabile poi che nell’era della comunicazione e dell’informazione, i Governi del mondo, indipendentemente dal proprio livello di libertà di stampa, ignorino volontariamente le grida d’aiuto che provengono dal Sahara Occidentale, e, colpevolmente, tacciano.

Luisa Morra

21 marzo 2010

IN MORTE DI JEAN FERRAT, VOCE DELLA FRANCIA UNIVERSALE


Jean Ferrat, pseudonimo con cui era conosciuto al pubblico il cantautore francese Jean Tenenbaum, si è spento sabato 13 marzo scorso all’età di 79 anni. L’emozione che ha percorso la Francia alla diffuzione della notizia è stata forte, testimoniata dalla grande partecipazione popolare alle esequie tenutesi nel villaggio di Antraigues-sur-Volane, in Ardeche, dalla diretta televisiva accordata all’evento e dall’unanime cordoglio espresso dal mondo delle arti e della musica, come da quello della politica. La cerimonia si è svolta in forma civile, essenziale e composta, secondo i desideri dello stesso Ferrat, che nella canzone Mon amour sauvage (Amore mio selvaggio) aveva rivendicato in versi il proprio ateismo: “Proclama forte il tuo ateismo / E campione dell’Umanesimo / La venuta dell’uomo re”.

Nato nel 1930 nella regione parigina, figlio di un ebreo immigrato dal Caucaso, Ferrat vive nell’infanzia il dramma della deportazione e della morte del padre nel campo di sterminio di Auschwitz. Lui stesso scampa alla deportazione grazie all’aiuto di una famiglia di militanti comunisti.
Affacciatosi al panorama musicale sin dagli anni ’50, comincia il suo percorso artistico musicando le poesie di Louis Aragon, ricevendo l’apprezzamento dello stesso poeta, che dichiarerà di avere l’impressione di sentire le proprie composizioni rivivere e assumere una dimensione nuova. L’omaggio costante alla poesia accompagnerà tutta la traiettoria artistica di Ferrat, portandolo a cantare oltre che i versi di Aragon, quelli di poeti francesi e stranieri quali Lorca e Prévert.
Ed è d’altra parte questo primo impegno nel congiungere la canzone con la poesia a dare il senso di tutto il complesso di una poetica impegnata e semplice, colta e popolare, capace di congiungere in un’unica vibrazione emotiva impegno civile, amore e desiderio di cambiare, memoria e ricerca.
Tra i primi testi di sua composizione si trova Nuit et Bruillard (Notte e Nebbia), dedicata alle persecuzioni naziste che tanto duramente avevano marcato i primi anni di vita dell’artista. Tra i versi di questa canzone, con la sua crudezza e la sua carica polemica, prende forma una poetica intansigente, un linguaggio militante che non verrà mai meno. E’ in quel linguaggio, nella chiarezza delle opinioni e delle scelte civili e morali, che si esprime uno dei motivi fondamentali del percorso di Ferrat, lo stesso che ispirerà tante delle sue più di duecento canzoni. Tra queste, Ma France (La mia Francia) assume quasi la funzione di manifesto: “Quella che paga sempre i vostri crimini ed errori / Riempiendo la Storia e le sue fosse comuni / Quella che canto per sempre Quella dei lavoratori: / La mia Francia”.

Compagno di strada fino all’ultimo del Partito Comunista Francese (nelle settimane precendenti la morte si era speso per la campagna elettorale del Front de Gauche, coalizione guidata dal PCF, nelle elezioni regionali), Ferrat non vi aderirà mai formalmente, mantenendo costantemente un profilo critico, talvolta sferzante, non senza venire influenzato dalle contraddizioni e dalle trasformazioni della linea del partito negli ultimi decenni.
All’ impegno sociale e politico, l’opera di Ferrat ha saputo intrecciare tematiche differenti. L’attenzione per il microcosmo di ambizioni e stenti della gente semplice, dagli emigranti di La montagne, che racconta l’esodo dalle campagne alle città dei contadini di Francia (“Lasciano uno a uno il paese / Per andare a guadagnarsi da vivere / Lontano dalla terra in cui sono nati…”), agli amori nei sobborghi industriali di Parigi di Ma môme (La mia bimba): “In una banilieue sovrappopolata / Abitiamo in un ammobiliato … Ma la mia ragazza ha venticinque anni / E sono convinto che la Santa Vergine / Delle chiese / Non abbia più amore negli occhi / E che non sorrida con più grazia…”.
Sull’esempio di Aragon, l’amore entra nella poetica di Ferrat non come un elemento separato dalla passione civile e politica, ma a costituire un insieme che si completa e si giustifica nella compenetrazione tra desiderio dell’assoluto e volontà di cambiamento. Le passioni intime danno dignità all’uomo, la lotta civile gli restituisce la speranza.

Chi scrive ha trovato in Ferrat uno dei primi nessi con la Francia che negli anni ha imparato ad amare, la Francia universale della lotta per la vita e della ricerca individuale e collettiva della libertà e della dignità. Nel salutarne la memoria, è nostro desiderio dedicargli alcuni versi di Aragon da lui stesso musicati, ispirati alla figura del poeta e romanziere Francis Carco: “Dì cos’hai fatto dei giorni andati / Della tua giovinezza e di te stesso / Delle tue mani piene di poesia / Che tremavano all’inizio della notte ?”

Alessio Arena

19 marzo 2010

Spostarsi a Milano. Sopra o sotto?

Mentre aspettiamo l’Expo 2015 Milano Vulcano Febbraio16 si trasforma cambiando velocemente aspetto. Per qualche anno bisognerà avere pazienza e sopportare i cantieri aperti che ostacolano la mobilità e il traffico cittadini. Tra i vari lavori, a creare più disagio sono sicuramente quelli per la linea della metro 5. Tutta la zona nord che comprende Viale Zara, Viale Marche, Viale Fulvio Testi e Viale Sarca è da evitare negli orari di punta. Anzi, è da evitare più o meno sempre.

Chiuso Viale Zara, tutte le auto si riversano in altre piccole vie che non reggono il traffico, e il nervosismo cresce tra le code. La metro aprirà nel 2012. Ancora due anni di incazzature. Mesi prima dell’apertura dei cantieri sono stati distribuiti volantini a tutti i residenti della zona, tracciando i cambiamenti dei flussi di entrata ed uscita dalla città in modo da evitare ingorghi e possibili incidenti. Fortunatamente non sono stati registrati incidenti, ma per il traffico non c’è soluzione. Puntualmente la zona 9 di Milano si riempie di auto, a tal punto che conviene lasciarla lì e riprenderla il mattino dopo, proseguendo a piedi.

Sembra che il comune abbia capito solo negli ultimi due anni le potenzialità e la comodità di una città ben servita dalle linee metropolitane. Infatti sono previste altre 2 linee, incredibile ma vero. Come avrà notato l’attento lettore, abbiamo 3 linee e si sta preparando la linea 5. Il salto di numero non è dovuto ad un errore, ma al fatto che esiste già un progetto per la linea 4 (S.Cristoforo Fs- Aeroporto Lainate). E anche uno per la linea 6 (Bisceglie – Viale Tibaldi). I tempi di realizzazione sono relativi, siamo di fronte più ad un’utopia che alla realtà.

Forse conviene prendere altri mezzi: negli ultimi tempi il comune ha promosso il bike sharing con il supporto dell’ ATM. Ci hanno illuso parlandoci di nuove piste ciclabili, e il risultato è scadente. Ci sono dei percorsi che sono ancora più rischiosi che starsene fermi in mezzo alla strada. Un esempio è la pista ciclabile Loreto-Monte Rosa, dove, tra interruzioni, lavori in corso e parcheggi selvaggi, è impossibile pedalare al sicuro. E’ da cambiare, prima di tutto, nuovo-gestore-trasporti-milano_articleimagela mentalità dei milanesi: abbiamo una città costruita completamente in pianura, la bicicletta deve essere il mezzo del futuro, ma per adesso si pensa solo a costruire macchine più grosse e inutili. Muoversi a Milano resta in questo modo difficile, soprattutto per gli universitari che non hanno la propria sede in Festa del Perdono, facilmente raggiungibile da due linee della metro. Un esempio lampante sono i ragazzi di Via Noto (traversa di Via Ripamonti), costretti ad inseguire ogni giorno il mitico tram 24, del quale tutti potrebbero raccontare un aneddoto avvenuto nelle ore di massimo affollamento durante il periodo di lezione. La beffa finale per loro è il fatto che il progetto della Linea 6 prevederà una fermata proprio in Via Noto!

Per eludere il traffico bisognerebbe volare. E qualcuno ha trovato una soluzione molto simile: un ingegnere e un geologo, Massimo Grecchi e Goffredo Muggiati, stanno dando vita ad un progetto che ha dell’assurdo. E’ una funivia lunga diciotto chilometri che percorre la città da Linate alla Fiera a Rho, con tanto di piloni (alti una novantina di metri) e giardini pensili per abbellire le stazioni (130 metri di altezza). Costo totale del progetto? Novecento milioni di euro! Forse è solo una voce sparsa per l’etere, eppure il sito esiste e sembra serio, con tanto di percorso e fermate : http://www.altaviamilano.it/ Resta solo da immaginare le reazioni dei milanesi, soprattutto di quelli che aprendo le finestre vedrebbero passare una funivia sopra la testa. Non ci resta che prendere sci e scarponi e fermarsi alle “collinette di S.Siro” sperando in una bella nevicata. Almeno si spera che lì non ci sia traffico.

 

Daniele Colombi

17 marzo 2010

Insulti omofobi in Statale

gayLa mattina di giovedì 10 marzo uno studente universitario di 19 anni è stato prima insultato e poi minacciato da un ragazzo. La vittima, Giacomo, è stata aggredita mentre appendeva in bacheca alcuni volantini del cineforum organizzato dal gruppo GayStatale. “Voi froci siete la feccia dell’umanità”; “Per voi malati qui non c’è posto” e ancora: “Vieni fuori che ti ammazzo di botte” , così si è sentito minacciare. Il fatto si è svolto nella sede di Biologia, in via Celoria (Città Studi), mentre altri studenti assistevano allibiti alla scena.

I ragazzi di GayStatale non sono nuovi ad episodi del genere. Nato da poco più di un anno nell’Università degli Studi di Milano, il gruppo studentesco è molto attivo nel promuovere attività culturali, come appunto cineforum, ma anche conferenze ed iniziative di vario genere, per sensibilizzare gli studenti ai problemi degli omosessuali nell’Italia di oggi e favorire un positivo confronto.

Ma nonostante sia nato da poco, ha già subito altri episodi di odio. Nella scorsa primavera gli studenti del gruppo avevano notato che i loro manifesti in università venivano sistematicamente strappati. Colti sul fatto, gli autori, alcuni ragazzi della lista universitaria di Comunione Liberazione, hanno pure insultato i ragazzi di GayStatale.

Simili episodi iniziano a muovere l’interesse delle istituzioni: se ne è subito parlato in Senato accademico e nel Comitato pari opportunità dell’ateneo. Nette le posizioni di condanna, dai rappresentanti degli organi e dal rettore Decleva, mentre si iniziano a condurre delle indagini per scoprire l’identità dell’aggressore, recuperando i vari testimoni dell’accaduto, e per decidere delle sanzioni.

Particolare interesse è stato dimostra to dal Comitato pari opportunità, che pensa di dedicare all’omofobia una delle conferenze che si terranno nel prossimo semestre al tema delle discriminazioni.

Enrico Guerini

16 marzo 2010

Coccodrillo n.4 - Commemorazioni improbabili: Augusto Minzolini


E' stato sottratto all'affetto dei suoi cari Augusto Minzolini, direttore del tg1. La scomparsa, per tutti improvvisa, lascia orfano quel giornalismo libero da ogni tipo di influenza esterna, specie quella della verità.

La fine è giunta nella tarda mattinata. L'indomito giornalista stava registrando il suo ultimo editoriale, dal titolo “Meglio un morto in casa che un magistrato alla porta”, quando è stato colto da un malore. - Non credevo che le toghe rosse portassero pure sfiga - , si è lamentato di fronte ai soccorritori.

Difficile non commuoversi ricordando il lavoro solerte cronista, sempre attento a non lasciare lo spettatore privo di una nota di colore. Chi non ricorda, nella rubrica Fantastoria, il servizio sulla povera gattina Laika, abbandonata dai comunisti nello spazio prima delle vacanze estive; oppure l’intervista a Nando, taxista romano, in grado di recitare "Meno male che Silvio c'è" ruttando.

Importante però, per non dimenticare Augusto, menzionare anche le sue inchieste più scottanti, come quella su "Di Pietro untore", in cui si denuncia come l'ex magistrato non abbia ancora fatto la varicella e sia soggetto ad herpes. Insieme a Feltri firmò anche il dossier "Ai comunisti non gli tira", in cui proponeva di colorare il Viagra di rosso, per Minzolini il colore dell'impotenza.

Ne parla con le lacrime agli occhi la maestra Luigina, che ne accompagnò l’istruzione all’istituto Servi del Signore (quando si dice “il destino nel nome”). - Già da piccolo era capace di sorprendere tutti nelle interrogazioni di storia -, ricorda commossa - sembra ieri quando individuò le cause della guerra di Troia “nell’indebita ingerenza di pettegolezzi scandalistici nell’informazione politica greca” - .

Ironia della sorte, sarebbe uscito fra pochi giorni con le edizioni Giochi Preziosi il Minzonopoly, un Monopoly dove al posto di "Parco della Vittoria" e "Viale dei Giardini" si può giocare con "Corso Craxi" e "Vicolo Licio Gelli", e i pedaggi vengono pagati in tangenti attraverso conti svizzeri.

Unanime il cordoglio del mondo politico, secondo Silvio Berlusconi - Era veramente impareggiabile, pensate che guardando il tg1 anch'io mi ero convinto di non essere mai andato a puttane! -.

Mentre Il Giornale di Feltri, come sempre un pò sopra le righe, titola “Morire così, che cazzo di sfiga”.

Unica voce fuori dal coro quella di Giordano, direttore di Studio Aperto – Finalmente ci siamo liberati di questo imitatore -, chiosa stizzito il giornalista.

Forse però il modo migliore per ricordarlo è con le parole del suo editoriale d'addio ai telespettatori del tg1

Non piangete per me, amici da casa,

la morte non è altro che un apostrofo nero

tra le parole “Conflitto d'interessi”

Filippo Bernasconi

14 marzo 2010

“Se prenderemo il negus gliene farem di belle”

L’Italia si avvicina all’America: gli avvenimenti di Rosarno ricordano, senza bisogno nessuno di sforzi immaginativi, quel gustosissimo gioco dell’Alabama di qualche decennio fa: la caccia al negro. E non è certamente difficile raffigurarsi gli italiani del futuro piuttosto prossimo avventurarsi in simili ludibri. Diretti, magari, e coordinati da qualche colto ed elegante conduttore di Canale cinque.
Forse non saranno così raffinati da organizzarsi in associazioni modello Ku Klux Klan, ma certamente abbastanza ironici da raggrupparsi in ronde colorate e girare per le città e i paesi armati di fucile o rivoltella e deliziare tutti con rocambolesche e succosissime sparatorie; condite, come in un mitico spaghetti-western, da virtuosismi armaioli. E magari, calcando le orme di un Clint Eastwood Leoniano, riusciranno pure a far fuori decine di negri alla volta e, se si dovesse intromettere, anche il maresciallo dei carabinieri intervenuto per fermarli; mascherato, per l’occasione, da sceriffo comunista.
Ovviamente la guida morale della nazione non potrà che essere il sommo esempio di saggezza, rigore, senso della giustizia quale è l’ormai nazional-popolare Bruno Vespa, il quale, da magnificentissimi studi Rai, condurrà, come un bravo pastore le sue pecore, le pie e buone anime degli italiani sulla via del bene: sempre protetti dalle sante figure di riferimento del nuovo pantheon morale: Craxi, Borghezio, Mangano, Formigoni.

Danilo Aprigliano

13 marzo 2010

Milano ai margini. Biondillo e le sue tangenziali

“Ma non vorrei, però, che apparissi come un turista dell’orrore.  Non sono alla ricerca del pittoresco, del “tanto peggio tanto meglio”, non sto morbosamente cercando il degrado, estetizzandolo. Io voglio vedere, voglio capire. Sono un topografo, un rilevatore del territorio. Il fascino che provo girando a passo d’uomo lì dove dovrei invece muovermi in macchina (per evitare di osservare, decrittare) è come quello di un ragazzino che scopre il trucco del prestigiatore. Ci muoviamo dietro le quinte della scena urbana, qui, nella sala macchine cittadina. Dalla platea lo spettacolo sembra esente da fatica, sudore, rumore, ma dietro al palo c’è l’opera 9788860884503ginfaticabile dei senza gloria che tirano i cavi, spostano scenografie, lavorano incessantemente affinché la rappresentazione fili liscia come l’olio. Cammino nel retrobottega di Milano, osservo la trama dei nodi da sotto il tappeto. Perché possa esistere la Milano dei turisti, degli artisti, delle banche, della moda, del centro, deve esistere questa Milano ai margini.”

Gianni Biondillo ; Michele Monina, Tangenziali, Guanda Editore, Milano, 2010 pagina 129.

Chi segue il percorso bibliografico di Gianni Biondillo, dopo Metropoli per Principianti (Guanda Editore, Milano, 2008), aspettava con impazienza un ritorno sul tema della città. E Tangenziali, da poco nelle librerie, è esattamente il tipo di pubblicazione che va a sfamare il nostro bisogno di veder messo in pratica quanto ci è stato insegnato sulla città nell’opera precedente. Ora che non siamo più principianti possiamo finalmente divorare una lettura che passi dalla spiegazione teorica dei motivi per cui le grandi città italiane siano, in particolare nelle loro periferie, un ricco campione di incongruenze architettoniche e miniere di stereotipi per i “ricercatori” del degrado, a un viaggio diretto in queste marginalità.

Biondillo sceglie di parlarci delle periferie di Milano visitandole direttamente, rigorosamente a piedi, lungo tutto il percorso delle tre tangenziali che la circondano. Dieci tappe insieme a Michele Monina (autore di “God less America”) che a sua volta scrive 10 resoconti di viaggio come Biondillo. Uno degli elementi di interesse del libro sta proprio nel confrontare il diverso modo di guardare alla realtà della stessa periferia che può avere uno scrittore milanese (orgogliosamente milanese) come Biondillo con l’immagine che ne ha uno scrittore che viene invece da fuori come Monina. E’ sorprendente come due persone possano guardare lo stesso paesaggio e trarne riflessioni e spunti così radicalmente diversi.

Biondillo non vuole dimostrare nulla, non vuole esporre una tesi radical chic sui famigerati “non luoghi”, non vuole arrivare a conclusioni amare sulla decomposizione sociale di queste periferie abbandonate a se stesse. Questo è solo un viaggio, un viaggio fatto per davvero a piedi tra strade deserte, parchi sotto la tangenziale, sulle orme nascoste lasciate ogni mattino all’alba da immigrati clandestini che la notte si nascondo chissà dove e che al mattino affluiscono in città nei cantieri dove lavorano al nero per costruire quei palazzi che renderanno ricca la città dell’Expo. E’ un viaggio in quartieri sorti dal nulla per mano dei palazzinari come Ligresti, in cui ci viene raccontata con passione la storia di questa città (perché Milano non è solo la cerchia dei Navigli, è anche San Donato, è anche il Quartiere degli Olmi, è anche San Maurizio al Lambro). Qui la gente ci vive, lontano dallo scintillio delle vie della moda, lontano dalla Milano degli avvocati e dei designer. Sono quartieri nati in molti casi per essere dei modelli di vivibilità (come San 20090211-biondillo Donato, voluto da Enrico Mattei) e poi abbandonati a se stessi. Come dimenticare, ora, le pagine di Metropoli per Principianti in cui ci veniva spiegato l’errore commesso dalla politica (non dagli architetti, come lo stesso Biondillo) di lasciare senza servizi, centri di incontro, scuole, asili, parchi, cinema interi paesi condannandoli a divenire sterminati dormitori? Lo studio e la scoperta di questi aspetti marginali della grande città è l’oggetto della “psicogeografia”, una disciplina di recenti origini anglosassoni costantemente citata dai due autori. Lasciamo volentieri a loro il compito di mediare tra noi e gli psicogeografi inglesi (Ballard su tutti), ci consegniamo volentieri all’esperienza di Biondillo e ci lasciamo prendere per mano in questo viaggio “per la tangente”. Come riportato nella citazione, Milano esiste anche perché esistono questi quartieri (che qualcuno cerca di nascondere sotto al tappeto, ma qui essi rimangono, e chi li vuole scoprire lo può fare in qualunque momento), conoscerne la storia e il loro sviluppo significa capire Milano. Una città da girare a piedi, guardando le sue case: nelle case si nasconde sempre la storia, si nascondono sempre le ferite, le suture, le rughe. Se vogliamo venire a capo di questa città malandata, è bene cominciare a conoscerla per davvero, uscendo dalla cerchia dei Navigli dentro la quale si sono barricate le istituzioni cittadine.

Angelo Turco

12 marzo 2010

Reclami da segnalare? Arriva il Garante degli studenti

Il consiglio di Facoltà di Scienze Politiche ha apporvato l'istituzione di un Garante degli studenti. Questa figura, molto diffusa all'estero in varie declinazioni, costituirà un punto di riferimento "in casi di disservizi in merito a problemi didattici, di organizzazione, di scarsa informazione e in caso di comportamenti inadeguati di uffici o singole persone". Una sorta di "ufficio reclami" che si preoccuperà di dare ascolto ai disagi degli studenti e di far sì che i loro esposti vadano a buon fine. Al momento il progetto è sperimentale, tra un anno si deciderà se rendere questo ufficio permanente in base alle segnalazioni pervenute in questo arco di tempo.
Abbiamo intervistato Angelica Vasile, principale promotrice del progetto, rappresentante degli studenti in Consiglio di Facoltà per Sinistra Universiatria ed eletta al Comitato Pari Opportunità della Statale (http://www.unimi.it/ateneo/26311.htm).


Perchè secondo te si sente la necessità di tale figura? Quali sono le funzioni che non possono essere coperte, per esempio, dal Preside di Facoltà?
Perchè io l'ho sentita. Come la maggior parte dei progetti, l'idea nasce da un'esperienza personale. Mi è capitato di imbattermi in situazioni di violazione dei diritti dello studente e ho sentito la necessità di parlare con qualcuno che mi consigliasse come agire, nel rispetto natuaralmente dell'anonimato. Questo è un aspetto molto importante. L'anonimato della parte lesa deve essere assolutamente garantito, per tutelare la parte lesa da ogni eventuale ritorsione.
Deve essere una figura che prima di tutto ascolti, e in secondo luogo agisca affinchè il reclamo vada a buon fine. Una funzione di ascolto, indagine e verifica.
E' notoriamente risaputo che in tutti gli ambienti in cui esistono squlibri di potere, come nei rapporti di lavoro o di studio, esiste la possibilità che si verifichino degli abusi.
Per quanto riguarda il Preside di Facoltà, ha già tantissimi compiti. Sicuramente non sarebbe così efficace come una figura preposta a questo preciso compito.

Puoi citare alcuni esempi di atenei esteri o nazionali in cui è già presente questa figura?
Dall'indagine che abbiamo condotto è emerso che si tratta di una figura presente in svariate forme in molti Atenei nazionali e esteri. In alcunii paesi europei per esempio è chiamato Harassment Office, come nelle Università di Oxford e Cambridge, e spesso non è un’unica persona bensì un ufficio concepito come supervisore delle attività. Negli Stati Uniti (ad esempio University of Missouri-St.Louis) e in alcuni paesi europei come Olanda, Germania e Svezia è denominato Ombudsman, mentre ad Harvard ed in altri Atenei americani viene definito Assistant of Dean e garantisce la regolarità della procedura dei reclami degli studenti.
Lo spunto maggiore per il nostro progetto però l'abbiamo tratto da realtà più vicine, in particolare abbiamo fatto riferimento al Regolamento della Facoltà di Ingegneria Industriale (Politecnico di Milano) per quanto riguarda l’istituzione della figura; mentre per la nomina, ci siamo ispirati al Regolamento della Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca.

Come è ricaduta la scelta sul dr. Pierluigi Lamberti Zanardi?
Il professore soddisfa i due requisiti che abbiamo giudicato fondamentali: da una parte la conoscenza della realtà universitaria: chi meglio di un docente può avere famigliarità con l'ambiente accademico? D'altra parte, essendo in pensione, è super partes, fuori da qualsiasi logica di potere. Su questo punto abbiamo insistito molto, chiedendo espressamente che la scelta non ricadesse su un docente in carica. Poi c'è un terzo aspetto: il Dr. Zanardi si offerto di svolgere questa attività a titolo gratuito.

E' stato difficile ottenere l'approvazione del progetto?
Decisamente si. C'è stato un lavoro approfondito di ricerca e di analisi per capire come la figura fosse prevista e regolamentata negli altri atenei, e poi il lavoro di ricerca dei consensi. Quest'ultimo è stato paradossalmente più facile con i docenti piuttosto che con le altre liste studentesche che, secondo me, hanno rappresentato i loro interessi politici e non quelli degli studenti. Alcuni docenti invece ci hanno addirittura aiutato nel lavoro di ricerca. Hanno capito l'importanza della figura, della cui esistenza presso altri atenei erano già informati.

E' prevista un'evoluzione, in futuro, di questa figura?
Si. Consisterebbe nell'affiancare alla figura del Garante un ufficio che si occupi esclusivamente di molestie sessuali, in particolare che il "Codice di condotta contro le molestie sessuali nei luoghi di studio e di lavoro", pomosso dal Cpo ed entato da poco in vigore, sia rispettato.

Secondo te le altre facoltà trarranno ispirazione da questo vostro progetto? Lo consederi "esportabile" anche fuori da Scienze Politiche?
Si. La facoltà di Lettere e filosofia si sta già muovendo in questa direzione. I rappresentati hanno già istituito uno sportello di reclami accessibile on line, che è già un primo passo in direzione di una maggior tutela dei diritti degli studenti. So che anche l'interfacoltà di Mediazione linguistica si sta muovendo in tal senso. Quindi si, il progetto è assolutamente "esportabile". Anzi, con il Cpo sto lavoarndo per redigere un documento che preveda l'istituzione della figura del Garante per tutte le facoltà.


Il Prof. Lamberti Zanardi riceve il giovedì, dalle 16.30 alle 17.30, previo appuntamento via e-mail (pierluigi.lamberti@unimi.it)

a cura di Laura Carli

10 marzo 2010

CARO CANDIDATO - Parte quinta: Savino Pezzotta

Indecisi sul voto? Vulcano ha intervistato per voi i candidati presidente per la Regione Lombardia, sui temi università, lavoro, giovani. Ecco le risposte di Savino Pezzotta, candidato per l'Unione di Centro.

Iniziamo parlando di ISTRUZIONE. La Regione Lombardia finanzia sia la scuola pubblica che la scuola privata. Secondo il rapporto “Dote Scuola 2008-2009” su un finanziamento statale di circa 75 milioni di euro, 25 milioni vengono erogati alle scuole pubbliche (circa un milione di studenti) e 50 milioni alle scuole private (circa cento mila studenti). L’impressione è che tale legge, nata per creare una libertà di scelta dell’istruzione, finisca per rendere le scuole private ancora più elitarie. Quale è la sua opinione in merito? I finanziamenti continueranno ad essere erogati nel modo corrente?
Anche se ci sono stati degli squilibri, la libertà di scelta va preservata. Io punterei all’accreditamento della scuola privata così come è avvenuto per la sanità pubblica, in modo che entri nel sistema pubblico.

In Lombardia ci sono circa 13 Università, 7 delle quali sono a Milano. Pensa di “usufruire” del sapere accademico, dei suoi brevetti e dei suoi cervelli per guidare la Lombardia nel futuro?
Certamente. La Lombardia è ricchissima di queste sinergie. Vanno sicuramente valorizzate perché costituiscono una dei principali ingredienti per uscire dalla crisi.

Viene spesso rimproverato all’università di essere un microcosmo chiuso, distante dal mondo del lavoro e slegata alla realtà cittadina. Quali strategie intende elaborare per favorire l’integrazione degli studenti nella vita della città?
Sì, per sostenere il lavoro e l’impresa, l’Unione di Centro crede fermamente sia essenziale legarli al mondo della formazione e più in generale della cultura. Bisogna chiudere con il pericoloso pregiudizio che la cultura e lo studio siano uno svago o una perdita di tempo rispetto al lavoro. Senza cultura un Paese non ha un’identità. Senza formazione un Paese non ha futuro. La cultura e la formazione nella nostra regione devono tornare a essere percepite come vera occasione per i nostri giovani di inserirsi in un mercato del lavoro che in Lombardia è realmente globalizzato. Per chi già lavora è un mezzo essenziale per mantenere standard qualitativi in costante crescita in ogni settore. In linea con l’anima lombarda più autentica, noi crediamo che la cultura, la formazione e l’università’ rappresentino gli essenziali presupposti per assicurare ai cittadini una adeguata qualità della vita e un decisivo supporto allo sviluppo socio-economico.
In Lombardia ci sono moltissime case vuote, sfitte o abbandonate da anni. A Milano, in una zona periferica come quella di Maciacchini una stanza singola costa in media 500 euro al mese, solitamente in nero. A Berlino, in Alexander Platz, una stanza singola costa circa 230 euro al mese con contratto. Cosa intende fare in merito a tale problema?
Credo che il tema fondamentale è la ripresa di una politica per la casa d’affitto. Per i giovai bisogna dare la possibilità di alloggi con affitto calmierato e più in generale bisogna ridare certezza agli investimenti in edilizia abitativa, sia dei piccoli risparmiatori che dei grandi investitori, per consentire a larghe fasce di utenza di accedere alla casa arginando così anche il fenomeno dello sfitto. Dobbiamo agire con incentivi fiscali di livello nazionale (cedolare secca) e locale (ICI), inserirsi creativamente nel Piano Casa Nazionale basato sui fondi immobiliari, mirando soprattutto alla riqualificazione e trasformazione dei quartieri popolari, coordinando le proprietà ALER e dei comuni con le risorse e i finanziamenti dei privati.

Stage, tirocini, contratti a progetto. Oggi un giovane, laureato o meno, si deve permettere di poter lavorare gratis per un tempo indeterminato prima di poter avere una busta paga. Cosa ne pensa di questa situazione? E’ inevitabile? Lei ha mai lavorato senza ricevere denaro?
La Regione Lombardia potrebbe decidere di non appaltare i propri servizi a quelle aziende che usano questi escamotage, cosa ne pensa?
Gratuitamente quasi mai, ma pagato poco sì. Ed è per questo che ho iniziato a fare il sindacalista.
Io non sono contro la flessibilità, ma contro la precarietà. Pertanto credo che serva statuto dei lavori che li tuteli. E la Regione può fare molto in questo senso, per questo credo che sia un buon punto di partenza questa proposta.

Molti degli studenti che frequentano le università lombarde sono pendolari. Il problema dello smog a Milano è oggi sulle prime pagine di tutti i giornali. Una soluzione auspicata è il potenziamento dei MEZZI PUBBLICI. Come intende agire per migliorare il trasporto lombardo?
Il tema dei trasporti pubblici locali, che obbliga i pendolari più sfortunati a passare tre o quattro ore al giorno in balia dei disservizi di alcuni settori del trasporto come le ferrovie o imbottigliati nel traffico veicolare, rappresenta certamente un grave deficit che una regione come la nostra non può più permettersi. E’ soprattutto il trasporto ferroviario a destare maggiori preoccupazioni. Ultimamente sono state annunciate 249 corse in più in Lombardia: 56 saranno a cura delle Nord, 193 a carico di Trenitalia. Va detto che durante la scorsa legislatura il rapporto tra Regione e Trenitalia è stato molto complicato.Noi pensiamo che per il futuro la Regione debba poter pretendere un servizio migliore da Trenitalia e fornire servizi migliorati attraverso Le Nord. Ci fa piacere sapere che i treni superveloci per Roma continuino a stabilire tempi da record, ma temiamo che questo sia troppo poco e una troppo magra consolazione per i pendolari lombardi afflitti costantemente da grandi disagi. Va introdotta, come in Francia, la moratoria sulla costruzione di nuove autostrade, per utilizzare i soldi pubblici sul trasporto pubblico locale e sul sistema ferroviario regionale (ambiente e lavoratori pendolari).

Molti studenti si trasferiscono in Lombardia da tutte le regioni d’Italia e molti sono i ragazzi stranieri nel nostro Paese per ragioni di studio. Come pensa di agire sulle POLITICHE GIOVANILI e di integrazione?
Per l’integrazione e la sicurezza abbiamo le idee molto chiare. Ritengo ad esempio che l’immigrazione sia diventata un fenomeno strutturale e per questo vada affrontato con nuovi strumenti. In questo orizzonte, che esclude ogni approccio xenofobo e razzista, è opportuna l’istituzione nel nuovo governo della Lombardia dell’Assessorato alla Cittadinanza e Immigrazione. Un nuovo e moderno strumento digovernance finora assente che si occupi, d’intesa con il Governo, esclusivamente e con più serietà del fenomeno migratorio nella nostra regione. È infatti necessario trovare soluzioni concrete che coniughino il rispetto delle regole con l’integrazione per evitare forme di ghettizzazione o l’insediamento di quartieri potenzialmente esplosivi, già fortemente presenti nelle aree metropolitane e in quelle a maggior densità di immigrati. Le dico chiaramente che la proposta dell’Unione di Centro, tra multiculturalismo e assimilazione, è quella dell’interculturalità che si basa sul rispetto di quattro impegni: il rispetto delle leggi, il rispetto dell’identità nazionale e della Costituzione, la conoscenza della lingua italiana e l’incontro rispettoso delle culture e delle persone. Per questo sono anche favorevole al voto per gli stranieri alla amministrative.

Chiude dopo 13 anni di attività sociale ANTIMAFIA l’Associazione SoS Racket. Qual è la sua proposta di contrasto in merito al pizzo, al racket, al comportamento mafioso nella regione Lombardia?
È un problema reale quello del pizzo come lo è quello della corruzione nella politica. Io credo serva uno scatto morale da parte delle istituzioni e dei cittadini. Bisogna rafforzare i controlli anche se il problema è anche di carattere culturale. In tal senso penso a progetti che coinvolgano le associazioni di categoria in modo più stringente per non lasciare solo chi subisce l’onta di questo reato odioso.

In Lombardia, la SANITA' costa meno in confronto alle altre regioni. Ma se alla spesa sociale aggiungiamo il ticket e il costo a volte proibitivo dei farmaci, la spesa diviene in linea con il resto dell’Italia. Solo che in Lombardia ci sono molte cliniche private che attingono al denaro pubblico. Quale è la sua politica sulla sanità? Cambierà qualcosa?
In tema di sanità per il mio programma elettorale ho scelto lo slogan “più territorio e meno partiti”. Credo che questa frase racchiuda in sintesi i mali di cui soffre oggi la sanità lombarda, che, va detto, ha molti aspetti di eccellenza, ma anche alcune falle importanti. Noi crediamo che proprio qui sia necessario introdurre il principio della limitazione dell’ingerenza eccessiva del potere centralizzatore della Giunta a danno dei territori e delle loro rappresentanze. L’Unione di Centro denuncia il progressivo e sistematico allontanamento delle politiche regionali dalla capacità e volontà di ascoltare i territori, i cittadini e in modo particolare la mancanza di volontà di saldare i bisogni dei territori con le strutture sociosanitarie in cui questi sorgono e insistono. L’affermarsi del centralismo regionale ha determinato un sistema che sempre più ha teso ad ottimizzare i costi a prescindere dai bisogni dei malati e dalle reali prestazioni di cui hanno bisogno. Prima l’economia e poi i malati. Questo è il quadro che sta emergendo e che deve essere corretto, anche attraverso un riequilibrio tra pubblico e privato. Se un cittadino ha la sfortuna di aver bisogno di esami non ritenuti essenziali o remunerativi dagli amministratori posti negli ospedali dalla Giunta, i malcapitati devono affrontare code lunghissime, tempi biblici…Ci stiamo allontanando dai bisogni reali dei nostri cittadini. Nella Regione Lombardia occorre superare le invadenze partitocratiche. Occorrono più sanità sul territorio, più servizi per gli anziani, più assistenza di base e a domicilio, meno ospedalizzazione, maggiore integrazione tra il sociale e il sanitario. Occorre riorientare il sistema ponendo al centro il malato, i suoi bisogni di cura ma anche di relazioni umane, di fiducia nel medico e nelle risorse professionali e tecnologiche di tutto il personale e della struttura.

Secondo i dati regionali, la Lombardia spende il 4,6 per cento dell’intero bilancio sanitario per la cura della salute mentale. In Europa, la stessa spesa si attesta in media intorno al 8-9 per cento. Nel caso fosse eletto, si adeguerebbe allo standard europeo o crede che la spesa attuale sia consona alle necessità degli utenti delle strutture sanitarie lombarde?
Credo che si possa spendere di più sui progetti di cura per la salute mentale. Io ho voluto anche inserire nel mio programma il problema delle carceri. Sono temi dimenticati che non occupano i dibattiti elettorali, ma non si può far finta di niente. Noi crediamo anche che attraverso la formazione e il sostegno alle associazioni del volontariato che operano in questo settore, sia possibile affrontare in modo indiretto ma efficace questi problemi.

Se fosse eletto Governatore della Lombardia quali saranno le sue prime tre azioni nei confronti dei Giovani, dell’Università e del Lavoro?
Per l’Università noi proponiamo che la Regione si interessi subito e direttamente della creazione di network internazionali tra le Università Lombarde e i principali enti di ricerca, del potenziamento dell’attrattività delle migliori risorse internazionali.
Per noi il lavoro - sia esso dipendente, autonomo, imprenditoriale o intellettuale - è il tratto essenziale che connota ogni uomo. Per questo è al primo punto nel nostro programma.
Noi crediamo che la Lombardia abbia la forza e le capacità di essere esempio per la Nazione.
E’ possibile una nuova stagione di sviluppo sostenibile, di innovazione di prodotto, di tecnologie avanzate e di arricchimento del capitale sociale, nell’esercizio di una reale territorialità politica.
Occorre cercare innanzitutto di promuovere e di ridare un lavoro gratificante a chi l’ha perso, di offrire un’opportunità al giovane in cerca della prima occupazione come pre-condizione per costruire una società più giusta e un’assicurazione per il suo futuro. La sfida del nuovo sviluppo sta quindi nel creare anche a livello regionale le condizione affinché ogni persona abbia la possibilità di agire secondo quanto essa ritenga un progresso per la propria libertà e le proprie possibilità. La complessità e la gravità dell’attuale situazione economica, se non governati, possono alimentare sconforto, tensioni sociali ma soprattutto la perdita di un elemento centrale del capitale sociale: la fiducia. E questo riguarda anche i giovani. Tocca alla politica aprire responsabilmente la strada alla speranza e puntare su un impegno adeguato per trasformare il periodo di "crisi" in una rinnovata progettualità e convivenza sociale. Io propongo un tavolo permanente di concertazione al quale siede Regione Lombardia, gli enti locali e i corpi intermedi per governare in modo strutturale la crisi, senza distribuire sporadici aiuti.

Ed ora, qualche domanda più personale…

Lei ha mai violato la legge?
Ho preso qualche multa legata al codice della strada.

Quanto Le costa l’abbonamento dei mezzi pubblici?
Solitamente i miei spostamenti più frequenti avvengono in aereo sulla tratta Milano – Roma.
E un pacchetto di profilattici?
Non saprei, vista l’età.
Cosa faceva prima di entrare in politica?
Ho fatto l’operaio per tanti anni e poi il sindacalista nella Cisl.

In quali scuole ha ricevuto la sua educazione?
Sono stato un lavoratore minorile, dopo le elementari a 12 anni già lavoravo in fabbrica e ho conseguito la licenza media presentandomi autonomamente e superando l’esame a 25 anni..

Quanto si spenderà a grandi linee per la sua campagna elettorale?
Entro i limiti stabiliti dalla legge.

a cura di Denis Trivellato

9 marzo 2010

Una risata non li seppellirà tutti. Paolo Rossi in Statale



“Una risata non li seppellirà tutti, ma un po' di poesia può farli sentire delle merde!”

“In Italia di Rossi ce n'è, eccome se ce ne n'è!” (forse non così tanti come si pensa), qualcuno talvolta passa anche per l'università, e può capitare che venga invitato addirittura a tenere una lezione, soprattutto se è famoso e vanta una carriera lunga e controversa come quella del comico e attore Paolo Rossi. Ma partiamo dalla fine.

Vulcano ha avuto la fortuna di intervistarlo dopo il suo intervento in occasione della rassegna Lezioni d'Artista organizzata dalla Sinistra Universitaria in collaborazione con la Fondazione Gaber. Un incontro in cui l'attore milanese ha avuto modo di restituirci la fotografia di un compianto maestro, il Signor G, e di un mestiere, quello del teatrante, che non è semplicemente un lavoro ma è soprattutto un attitudine, un modo di intendere la vita.

Ha dichiarato recentemente che secondo una sua stima personale "Un italiano su due è stronzo, e che questo sarebbe il motivo, secondo lei, per il quale le cose nel nostro paese non vanno tanto bene". Ritratta? Ne è ancora convinto?

Si, confermo, ho dei sondaggisti molto precisi.

Quindi almeno uno di noi tre è stronzo, ad andar bene?

Ma no, dipende dai luoghi.

Secondo lei parlare di teatro popolare ha ancora senso?Non è solo una ristretta minoranza di persone quella che costituisce il pubblico del teatro?

È un problema e un paradosso. La gente non va a teatro perché costa troppo, ma nel momento in cui lo Stato si defila, potrebbe anche costare di più. Ad esempio, nello spettacolo che io sto per mettere in scena, mi piacerebbe far lavorare dieci o dodici persone, ma come faccio? Però alle volte in una compagnia si riesce a sopravvivere, facendo una sorta di Comune, come ai tempi di Molière.

Si parla spesso di crisi della Satira in tv..

A mio parere in un momento come questo, in cui la satira politica viene autogestita tanto abilmente dai politici e la figura del tiranno tende sempre di più a fondersi con quella del buffone, non ha molto senso focalizzarsi eccessivamente sullo sberleffo al potente. Sarebbe molto più interessante concentrarsi su un tipo di comicità più quotidiana, che abbia a che fare con i nostri vizi ed il costume comune. Poi certo, se vado come ospite in una trasmissione televisiva e mi chiedono una battuta su Berlusconi o la Carfagna, la devo fare. In teatro da questo punto di vista un attore è molto più libero.

A volte non ha l'impressione che la risata, che dovrebbe essere il mezzo per veicolare un messaggio più profondo, diventi l'unico fine? Non solo da parte dei comici e di chi fa teatro, ma anche dello spettatore che assiste in platea ad uno spettacolo solo ed esclusivamente per divertirsi. La satira è consolazione, ma c'è anche dell'altro, porta in sé storicamente una spinta utopica al cambiamento, ha lo scopo di incidere sul mondo in qualche modo, quindi?

Prima di tutto la satira deve far ridere. Se non fa ridere, uno può dire quello che vuole e avere tutte le ragioni del mondo per dirlo, ma non sta facendo bene il suo lavoro. Comunque un comico deve sempre ricordarsi di stare “schiscio” nel suo ruolo. Io sono un comico, non sono un guru o uno sciamano, non sono il capo di un partito, quindi prima di tutto la satira deve essere consolatoria, dopo di che si va avanti: se uno è un po' più bravo ci mette qualcosa, nella risata, che rimane, altrimenti va bene così. Ho molto rispetto anche di chi mi fa ridere e basta; magari non sono proprio i miei preferiti, ma li rispetto. Ho meno rispetto per chi non mi fa ridere.

Paolo Rossi ci insegna ciò che ha appreso nel suo percorso professionale e artistico da tre straordinari maestri come Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, suoi padri adottivi e suoi personali amici. Ci spiega che ”il genio deve saper rubare, mentre il mediocre si limita a copiare” citando en passant Pablo Picasso e Dario Fo, dal quale ha appreso questa massima la prima volta. Fo fu il primo a puntare su di lui, dandogli la parola, da mimo che era in un suo spettacolo. Da allora fortunatamente non ha più smesso di parlare; anche perchè, come dicono Gino e Michele, Paolo

Rossi parla quattro lingue tutte contemporaneamente. Gaber e Jannacci verranno dopo, li conoscerà più o meno nello stesso periodo. Il primo rappresenta la fatica, la tecnica, il perfezionismo di chi suda sul pezzo; l'altro gli mostrerà, suo opposto, cosa sia la genuinità dell'estro, la libertà del folle, tanto da spingerlo su un auto in corsa in Galleria, urlando fuori dal finestrino “ Sono un dottore,sono un dottore!”. Entrambi gli aspetti ha cercato di coltivare, durante tutta la sua carriera, pur essendo spontaneamente più portato verso l'estrosità di Enzo, ci fa notare come,soprattutto nell'ultimo periodo, abbia cercato di praticare la fedeltà al metodo e alla disciplina ereditati dal Signor G, il quale ha poi anche seguito a modello, per quel senso di responsabilità civile che lo ha spinto a fare determinate scelte, come fermarsi a teatro.

Angelo Avelli Jr , Giusepper Argentieri

8 marzo 2010

Quando il maschilismo è donna. L'Italia del sesso debole


Vi ricordate di “Borat” ?

Omonimo protagonista di uno dei film più politicamente scorretti degli ultimi anni, Borat Sagduyev è un personaggio razzista, sessuomane e ferventemente misogino. Ma questa descrizione non vi ricorda qualcuno?

È ovvio che non si può imputare al solo Berlusconi (ma piuttosto alla mentalità media di cui è espressione e conseguenza) il pessimo risultato riportato dall’Italia nel Rapporto annuale sulle Differenze di Genere, stilato dal Foro Economico Mondiale, ma è anche vero che dal già pessimo 74esimo posto su 134 nazioni partecipanti dello scorso anno, il 2009 ci ha visti finire all’ancor peggiore 79esima posizione.

In Italia le donne sono il 43% della forza lavoro, solo un terzo degli alti quadri sono gestiti da donne ed il rapporto tra uguale compenso per uguale lavoro è così impari che ci precipita al 116esimo posto.

Eppure non sembrerebbe, vero?

Ma allora quali sono i motivi di questo arretramento, o meglio, ristagno sociale?

E qual è il maggiore problema da risolvere per far risalire alle donne italiane qualche gradino sulla quella scala e, soprattutto, per far riacquistare loro un po’ di dignità, un briciolo di uguaglianza in più?

Per le ragazze del collettivo femminista di Via Varchi, la questione più spinosa da affrontare è la mancanza di autocoscienza nell’Italia stessa: molte donne non si rendono conto della realtà che vivono, ritengono normali cose che normali, e giuste, non sono; come ad esempio vedersi costrette a lasciare il lavoro per mancanza di aiuti statali o agevolazioni. Ritengono causa scatenante di questa mancanza di autocoscienza l’educazione: religione, scuola, famiglia hanno creato e creano tuttora una

sorta di stigmatizzazione psicologica per la quale la ribellione alla subordinazione uomo-donna resta un’eccezione e il raggiungimento di un qualsiasi risultato comporta sempre una giusti

ficazione. Sostengono inoltre che a peggiorare le cose contribuisce la condizione dell’Italia come “Stato-Vetrina”, ossia un Paese industrializzato, civile e, nonostante la crisi, economicamente benestante. In teoria, quindi, non ci si dovrebbe aspettare questa situazione e invece…

Per smantellare questa vetrina e costruirne una nuova, migliore, suggeriscono di evitare il paragone improponibile dei paesi Scandinavi, che da sempre occupano le prime posizioni nella lista del rapporto, di considerarli solo un modello a cui ispirarsi, e porre invece l’Italia a confronto con quei Paesi che per la loro condizione economica, sociale o civile vengono ritenuti impensabili di pari opportunità e che invece hanno qualcosa da insegnarci: ci sono infatti più parlamentari donne in Marocco che in Italia ed una donna uzbeka è più equamente stipendiata di una italiana. Ed è proprio vero che il Kazakhstan è lontano dall’ Italia. Ed è altrettanto vero che l’Italia sciovinista di Berlusconi è guardata dall’alto di ben 32 postazioni dal misogino e maschilista Kazakhstan di Borat Sagduyev.




LEA MELANDRI


Nello scorso Novembre presso la sede delle Acli a Milano Lea Melandri, che partecipa da ormai quarant’anni con impegno e passione al movimento per le donne, ha parlato di uguaglianza nell’Italia di oggi.

Questo movimento ha ormai obbiettivi diversi dal femminismo degli anni 70, ha spostato l’attenzione dalla “questione femminile” (che si concentrava sul combattere il modello patriarcale e crearne uno esclusivamente femminile) alla questione del rapporto fra i sessi.

Sia la figura della donna che quella dell’uomo sono cambiate molto in pochi anni. L’uomo non è più l’unico in una famiglia che percepisce uno stipendio, il bread winner, figura fondamentale per la stabilità economica; da ciò risulta un uomo molto più fragile e meno responsabile.

E’ vero che la donna rispetto agli anni 70 si è emancipata, ma come? Se a quel tempo il motto era “ il corpo è mio e lo gestisco io” oggi sembra più essere “ il corpo è mio e me lo vendo io”, si pensi alle varie veline o vallette che vediamo tutti i giorni in televisione. Non tutte le donne però scelgono questa strada. Oggi sono presenti nella vita pubblica molto più che in passato, ma si ha l’impressine di non vederle perché parlano la stessa lingua degli uomini. In definitiva le donne oggi o si omologano al modello maschile, svantaggiate da questo e rimanendo così nell’ombra, o riprendono la vecchia etichetta di “oggetto” o “corpo senza cervello”con l’unica differenza che decidono loro a chi vendersi.

Guardando i giornali o leggendo i quotidiani emerge con chiarezza che il pensiero che conta è quello maschile. I luoghi decisionali sono tutti in mano agli uomini. Le donne hanno acquisito dei diritti, ma l’emancipazione tutto sommato non da grande fastidio, anche perche spesso le donne emancipate si assimilano all’uomo.

Finché gli uomini non considereranno un modo diverso di porsi della maschilità, finche nella vita pubblica non si comincerà a guardare alla donna come ad un individuo, corpo e mente, non possono esserci grandi cambiamenti e in questo all’estero sono molto più avanti di noi.

Effettivamente stanno emergendo associazioni mas

chili che si pongono in discussione si chiedono cos’è la maschilità e cosa vuol dire essere uomini, fuori da logiche di dominio o paura. Così l’associazione “Maschile/plurale”, che ha ramificazioni in tutta Italia e che ha indetto per la prima volta una manifestazione a Roma rivolta “da uomo a uomo”.

Alla fine del suo discorso Lea Melandri ha però detto “in tutti gli incontri e i dibattiti a cui ho partecipato, non ho mai avuto la sensazione che da una parte o dall’altra ci fosse una qualche reciprocità. Nessuno sembra aver letto ciò che le donne anno scritto. Ne deduco che c’è un lavoro enorme da fare”



LA LIBRERIA DELLE DONNE

Essendo, per natura, più portata

all’azione che al dialogo, ho deciso, senza molto sforzo, di risparmiarvi un mio discorso sul femminismo, per proporvi ad una realtà viva e concreta, nella quale l’argomento viene scomposto e rinnovato ogni giorno: La Libreria delle Donne.

Nata a Milano nel 1975, nel pieno

del movimento femminista italiano, la Libreria dispone di 3 mila autrici e una quantità complessiva di opere che si avvicina ai 10 mila titoli; ma non sol

o! Il suo obiettivo finale è di essere una realtà politico - letteraria, dove la regola è dettata dalla relazione e dalle esperienze personali. Per questo si organizzano riunioni, proiezioni di film, confronti politici, culturali e la pubblicazione trimestrale della rivista “Via Dogana”- dove si trovava la sede storica della Libreria. Siamo, perciò, di fronte ad una realtà attiva che non si riallaccia a nessun partito o istituzione, visto che si porta avanti “una polit

ica del partire da sé”: ogni riflessione nasce dalla propria storia - “la ricchezza di quello che si vive in prima persona supera tutte le possibili rappresentazioni”- e dalla quotidianità può relazionarsi con il mondo che la circonda.

“Relazione” è ancora la parola chiave del Circolo della Rosa, stabilitosi allo stesso indirizzo della Libreria nel 2001. Nasce a Milano nel 1990, con lo scopo di far circolare liberamente il sapere femminile, da un gruppo di 50 donne che non solo propongono, ma accolgono iniziative di ogni sorta. Ad esempio, nella “Quarta Vetrina”, si espongono le opere di giovani artiste, scelte da critiche d’arte ed esposte per la durata di due o tre mesi. Inoltre, al martedì e al sabato il locale rimane aperto proponendo un curioso aperitivo tra salatini, bibite e libri; anche la cena è concessa, a patto che si prenoti il giorno prima.

E’ vero: questa interazione tra Libreria e Circolo può apparire, ai più, come un covo di femministe fanatiche che cercano di dimostrare come Dio sia donna…niente di più sbagliato! Sono luoghi di incontro tra donne e uomini, dove nessun punto di vista viene escluso, ma, anzi, considerato necessario per comprendere ciò che ci circonda.

Le diversità hanno sempre rappresentato il fermento di ogni sviluppo del pensiero e la base di ogni società libera, la quale, a causa della realtà socioeconomica che ci circonda, non può rimanere chiusa e conformista, ma aperta e dinamica. E così Libreria&Circoli non rivendicano la parità tra i sessi, ma reclamano con forza le differenze e le coltivano attraverso la filosofia, l’arte e la letteratura.

Il maschilismo è l’ennesima paura del diverso? Certo che sì…Ma è una paura che, originata da cause diverse e rivolta verso vittime differenti, ci riguarda un po’ tutti, e come tale dobbiamo sforzarci di controllare.


Francesca Gabbiadini, Gemma Ghiglia e Elena Sangalli


Vorrebbero almeno le rose

Per un non-misogino le recenti manifestazioni d'odio nei confronti delle donne sono, paradossalmente un sollievo.

La misoginia è difatti latente nella società italiana; la sua palese manifestazione è però occasione per andare allo scoperto e dichiarare la propria contrarietà.

Le donne occidentali (per lo meno quelle pensanti) sono oggetto d'un offensiva violentissima; paradossalmente, fra gli attaccanti sono schierate molte donne.

E' diffusissima l'idea per cui le vittime di stupro siano delle meretrici, la disparità sul lavoro è diffusissima, i diritti che vengono riconosciuti sono delle idiozie (l'ingresso nell'esercito) o delle prese in giro (le quote rosa, date per scontate nei paesi civili - in Norvegia si sono rese necessarie, ma hanno perlomeno portato a risultati). Le donne sono valorizzate solo per l'avvenenza e ciò ha originato bugie immani, dal falso mito per cui con l'età s'imbruttirebbero (la confusione fra imbruttimento e abbruttimento fa comodo a chi spaccia spazzatura mediatica) allo stravolgimento in negativo dei canoni di bellezza.

Tale situazione è generale, ma ben riassumibile in un episodio e ben mostrata in una serata televisiva.

L'episodio è il caso delle escort in Puglia, nient'altro che l'ennesima concretizzazione di uno dei peggiori aspetti della mentalità misogina dominante in Italia: l’idea che le donne debbano vendere il proprio corpo. Spacciata da una delle parti coinvolte per vicenda minuscola e privata, è in realtà una vicenda enorme e pubblica: per il giro di tangenti e perché non ha coinvolto solo le escort in questione, ma tutte le donne (consapevoli o meno) del paese.

La serata televisiva quella del 29 settembre su La7, nella trasmissione L'infedele, durante la quale gli scatenati Alessandro Sallusti e Michaela Biancofiore sostenevano rispettivamente che i... "maschi" DEVONO dire o almeno pensare "che bella figa" (testuale) vedendo una donna avvenente e che "dobbiamo essere felici di avere un premier virile". Un Pier Paolo Pasolini qualunque sarebbe quindi stato un pessimo presidente.

Ciò in perfetta sintonia con la mentalità d'una nazione ben raffigurata da un trafiletto del Newsweek in cui Katie Baker riporta alcune cifre (usando per pretesto la storica frase rivolta da Berlusconi alla Bindi) riguardo la disparità nei ruoli dei generi. Una mentalità che scambia per innovazione la pubblicità delle calze con in sottofondo Sorelle d'Italia, credendo che mutare il genere dei soggetti dell'inno nazionale porti a qualcosa. Invano Umberto Veronesi ha chiesto, con una lettera al Corriere della Sera, che le donne stesse ridefiniscano il proprio ruolo e si liberino dal retaggio (anti-)culturale - e religioso - di cui sono vittime (non è un caso che il documentario del 2009 Alina Marrazzi Vogliamo anche le rose abbia ricevuta più attenzione all'estero che in Italia).

Sostengono le ACLI che gli uomini siano sconcertati dal piglio con cui le donne rivendicano i proprio diritti; il circolo Maschile Plurale si appella allo scemare della mascolinità. I fatti dimostrano che possono stare sereni; il tedio di cui si sono serviti e che ha ammorbato loro stessi ha colpito anche le donne, tranne quelle capaci di pensare da sé. Che sono sia belle che intelligenti.

Tommaso de Brabant