“Una risata non li seppellirà tutti, ma un po' di poesia può farli sentire delle merde!”
“In Italia di Rossi ce n'è, eccome se ce ne n'è!” (forse non così tanti come si pensa), qualcuno talvolta passa anche per l'università, e può capitare che venga invitato addirittura a tenere una lezione, soprattutto se è famoso e vanta una carriera lunga e controversa come quella del comico e attore Paolo Rossi. Ma partiamo dalla fine.
Vulcano ha avuto la fortuna di intervistarlo dopo il suo intervento in occasione della rassegna Lezioni d'Artista organizzata dalla Sinistra Universitaria in collaborazione con la Fondazione Gaber. Un incontro in cui l'attore milanese ha avuto modo di restituirci la fotografia di un compianto maestro, il Signor G, e di un mestiere, quello del teatrante, che non è semplicemente un lavoro ma è soprattutto un attitudine, un modo di intendere la vita.
Ha dichiarato recentemente che secondo una sua stima personale "Un italiano su due è stronzo, e che questo sarebbe il motivo, secondo lei, per il quale le cose nel nostro paese non vanno tanto bene". Ritratta? Ne è ancora convinto?
Si, confermo, ho dei sondaggisti molto precisi.
Quindi almeno uno di noi tre è stronzo, ad andar bene?
Ma no, dipende dai luoghi.
Secondo lei parlare di teatro popolare ha ancora senso?Non è solo una ristretta minoranza di persone quella che costituisce il pubblico del teatro?
È un problema e un paradosso. La gente non va a teatro perché costa troppo, ma nel momento in cui lo Stato si defila, potrebbe anche costare di più. Ad esempio, nello spettacolo che io sto per mettere in scena, mi piacerebbe far lavorare dieci o dodici persone, ma come faccio? Però alle volte in una compagnia si riesce a sopravvivere, facendo una sorta di Comune, come ai tempi di Molière.
Si parla spesso di crisi della Satira in tv..
A mio parere in un momento come questo, in cui la satira politica viene autogestita tanto abilmente dai politici e la figura del tiranno tende sempre di più a fondersi con quella del buffone, non ha molto senso focalizzarsi eccessivamente sullo sberleffo al potente. Sarebbe molto più interessante concentrarsi su un tipo di comicità più quotidiana, che abbia a che fare con i nostri vizi ed il costume comune. Poi certo, se vado come ospite in una trasmissione televisiva e mi chiedono una battuta su Berlusconi o la Carfagna, la devo fare. In teatro da questo punto di vista un attore è molto più libero.
A volte non ha l'impressione che la risata, che dovrebbe essere il mezzo per veicolare un messaggio più profondo, diventi l'unico fine? Non solo da parte dei comici e di chi fa teatro, ma anche dello spettatore che assiste in platea ad uno spettacolo solo ed esclusivamente per divertirsi. La satira è consolazione, ma c'è anche dell'altro, porta in sé storicamente una spinta utopica al cambiamento, ha lo scopo di incidere sul mondo in qualche modo, quindi?
Prima di tutto la satira deve far ridere. Se non fa ridere, uno può dire quello che vuole e avere tutte le ragioni del mondo per dirlo, ma non sta facendo bene il suo lavoro. Comunque un comico deve sempre ricordarsi di stare “schiscio” nel suo ruolo. Io sono un comico, non sono un guru o uno sciamano, non sono il capo di un partito, quindi prima di tutto la satira deve essere consolatoria, dopo di che si va avanti: se uno è un po' più bravo ci mette qualcosa, nella risata, che rimane, altrimenti va bene così. Ho molto rispetto anche di chi mi fa ridere e basta; magari non sono proprio i miei preferiti, ma li rispetto. Ho meno rispetto per chi non mi fa ridere.
Paolo Rossi ci insegna ciò che ha appreso nel suo percorso professionale e artistico da tre straordinari maestri come Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, suoi padri adottivi e suoi personali amici. Ci spiega che ”il genio deve saper rubare, mentre il mediocre si limita a copiare” citando en passant Pablo Picasso e Dario Fo, dal quale ha appreso questa massima la prima volta. Fo fu il primo a puntare su di lui, dandogli la parola, da mimo che era in un suo spettacolo. Da allora fortunatamente non ha più smesso di parlare; anche perchè, come dicono Gino e Michele, Paolo
Rossi parla quattro lingue tutte contemporaneamente. Gaber e Jannacci verranno dopo, li conoscerà più o meno nello stesso periodo. Il primo rappresenta la fatica, la tecnica, il perfezionismo di chi suda sul pezzo; l'altro gli mostrerà, suo opposto, cosa sia la genuinità dell'estro, la libertà del folle, tanto da spingerlo su un auto in corsa in Galleria, urlando fuori dal finestrino “ Sono un dottore,sono un dottore!”. Entrambi gli aspetti ha cercato di coltivare, durante tutta la sua carriera, pur essendo spontaneamente più portato verso l'estrosità di Enzo, ci fa notare come,soprattutto nell'ultimo periodo, abbia cercato di praticare la fedeltà al metodo e alla disciplina ereditati dal Signor G, il quale ha poi anche seguito a modello, per quel senso di responsabilità civile che lo ha spinto a fare determinate scelte, come fermarsi a teatro.
“In Italia di Rossi ce n'è, eccome se ce ne n'è!” (forse non così tanti come si pensa), qualcuno talvolta passa anche per l'università, e può capitare che venga invitato addirittura a tenere una lezione, soprattutto se è famoso e vanta una carriera lunga e controversa come quella del comico e attore Paolo Rossi. Ma partiamo dalla fine.
Vulcano ha avuto la fortuna di intervistarlo dopo il suo intervento in occasione della rassegna Lezioni d'Artista organizzata dalla Sinistra Universitaria in collaborazione con la Fondazione Gaber. Un incontro in cui l'attore milanese ha avuto modo di restituirci la fotografia di un compianto maestro, il Signor G, e di un mestiere, quello del teatrante, che non è semplicemente un lavoro ma è soprattutto un attitudine, un modo di intendere la vita.
Ha dichiarato recentemente che secondo una sua stima personale "Un italiano su due è stronzo, e che questo sarebbe il motivo, secondo lei, per il quale le cose nel nostro paese non vanno tanto bene". Ritratta? Ne è ancora convinto?
Si, confermo, ho dei sondaggisti molto precisi.
Quindi almeno uno di noi tre è stronzo, ad andar bene?
Ma no, dipende dai luoghi.
Secondo lei parlare di teatro popolare ha ancora senso?Non è solo una ristretta minoranza di persone quella che costituisce il pubblico del teatro?
È un problema e un paradosso. La gente non va a teatro perché costa troppo, ma nel momento in cui lo Stato si defila, potrebbe anche costare di più. Ad esempio, nello spettacolo che io sto per mettere in scena, mi piacerebbe far lavorare dieci o dodici persone, ma come faccio? Però alle volte in una compagnia si riesce a sopravvivere, facendo una sorta di Comune, come ai tempi di Molière.
Si parla spesso di crisi della Satira in tv..
A mio parere in un momento come questo, in cui la satira politica viene autogestita tanto abilmente dai politici e la figura del tiranno tende sempre di più a fondersi con quella del buffone, non ha molto senso focalizzarsi eccessivamente sullo sberleffo al potente. Sarebbe molto più interessante concentrarsi su un tipo di comicità più quotidiana, che abbia a che fare con i nostri vizi ed il costume comune. Poi certo, se vado come ospite in una trasmissione televisiva e mi chiedono una battuta su Berlusconi o la Carfagna, la devo fare. In teatro da questo punto di vista un attore è molto più libero.
A volte non ha l'impressione che la risata, che dovrebbe essere il mezzo per veicolare un messaggio più profondo, diventi l'unico fine? Non solo da parte dei comici e di chi fa teatro, ma anche dello spettatore che assiste in platea ad uno spettacolo solo ed esclusivamente per divertirsi. La satira è consolazione, ma c'è anche dell'altro, porta in sé storicamente una spinta utopica al cambiamento, ha lo scopo di incidere sul mondo in qualche modo, quindi?
Prima di tutto la satira deve far ridere. Se non fa ridere, uno può dire quello che vuole e avere tutte le ragioni del mondo per dirlo, ma non sta facendo bene il suo lavoro. Comunque un comico deve sempre ricordarsi di stare “schiscio” nel suo ruolo. Io sono un comico, non sono un guru o uno sciamano, non sono il capo di un partito, quindi prima di tutto la satira deve essere consolatoria, dopo di che si va avanti: se uno è un po' più bravo ci mette qualcosa, nella risata, che rimane, altrimenti va bene così. Ho molto rispetto anche di chi mi fa ridere e basta; magari non sono proprio i miei preferiti, ma li rispetto. Ho meno rispetto per chi non mi fa ridere.
Paolo Rossi ci insegna ciò che ha appreso nel suo percorso professionale e artistico da tre straordinari maestri come Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, suoi padri adottivi e suoi personali amici. Ci spiega che ”il genio deve saper rubare, mentre il mediocre si limita a copiare” citando en passant Pablo Picasso e Dario Fo, dal quale ha appreso questa massima la prima volta. Fo fu il primo a puntare su di lui, dandogli la parola, da mimo che era in un suo spettacolo. Da allora fortunatamente non ha più smesso di parlare; anche perchè, come dicono Gino e Michele, Paolo
Rossi parla quattro lingue tutte contemporaneamente. Gaber e Jannacci verranno dopo, li conoscerà più o meno nello stesso periodo. Il primo rappresenta la fatica, la tecnica, il perfezionismo di chi suda sul pezzo; l'altro gli mostrerà, suo opposto, cosa sia la genuinità dell'estro, la libertà del folle, tanto da spingerlo su un auto in corsa in Galleria, urlando fuori dal finestrino “ Sono un dottore,sono un dottore!”. Entrambi gli aspetti ha cercato di coltivare, durante tutta la sua carriera, pur essendo spontaneamente più portato verso l'estrosità di Enzo, ci fa notare come,soprattutto nell'ultimo periodo, abbia cercato di praticare la fedeltà al metodo e alla disciplina ereditati dal Signor G, il quale ha poi anche seguito a modello, per quel senso di responsabilità civile che lo ha spinto a fare determinate scelte, come fermarsi a teatro.
Angelo Avelli Jr , Giusepper Argentieri
Nessun commento:
Posta un commento