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18 febbraio 2008

ANDALUSIA

APPREZZA MEGLIO UN NETTARE LA PIU' CRUDELE ARSURA

Camminavo oramai tra tre ore. La strada tagliava la valle, una lunga lama bianca piantata tra le scapole della pianura del Duero. Il calore era insopportabile. Il cielo diafano s’era fatto sole tutto: impossibile dire da dove i raggi venissero a proferire la loro condanna. La luce opaca riverberava sulla pelle butterata dei colli lontani, tra le braccia tese delle spighe di grano tra i quali si insinuavano le teste rosse dei papaveri, lungo il corpo secco degli alberi scuri e contorti. Avanzavo nella morte apparente del mezzogiorno. Mi accompagnava soltanto il frinire delle cicale, un ronzio intenso, costante, infinito.
L’impressione era quella di trovarsi accanto sempre lo stesso ciuffo d’erba gialla, la stessa traccia di serpente disegnata nella polvere rossa della strada. Polvere rossa che si attaccava ai capelli, correva lungo la schiena, si posava tra le dita dei piedi esausti.
Vidi gocce d’acqua dondolare mollemente sulla punta degli steli d’erba, dopo un acquazzone primaverile. La campagna verde della mia terra dove i salici sfiorano con dita gracili il corpo sinuoso dei ruscelli. Vidi passeri sguazzare nelle pozze d’acqua bassa. Mani chiuse a ricevere il fresco dono cristallino di polle alpine. Nel mio delirio avanzavo e avanzavo, trascinando i piedi nella terra riarsa.


Scrisse Emily Dickinson:
Più dolce appare il successo
a chi mai lo conobbe
apprezza meglio un nettare
la più crudele arsura
[...]

Solo nella più completa disidratazione conobbi la sete.


Ma una speranza c’era. Si chiamava orizzonte. Lontano, sopra il dorso ocra di un colle, si attorcigliavano nubi a spire, si annunciava tempesta. Trascorsero minuti infiniti. L’ombra avanzava lungo la valle, veniva da sud, lesta, silenziosa, incontro a me. Accelerai pregustando l’abbraccio, la frescura del suo corpo dentro la mia pelle. E l’abbraccio arrivò. Il sole venne inghiottito da un budello di nembi. Il sollievo era immenso, inebriante. L’ombra mi cinse i fianchi, mi coccolò e mi carezzò il viso con il suo respiro umido.
Le prime gocce scesero come una benedizione. Lungo il solco teso della mia bocca, nella mia gola ardente. Folate di vento sostenevano il mio cammino, ora più sicuro. Infine un colle, una curva, le prime case, dei volti umani: contadini che rientravano dalla campagna sotto la minaccia dei primi lampi. Poi in fondo ad una stradina, stretta tra una chiesa e un muretto a secco, sotto un perticato incorniciato dall’edera, una taverna.

Senorita, un poquito de agua por favor!
Enrico Gaffuri

Liberamente ispirato da un articolo di Laurie Lee, Sotto il solleone Spagnolo, in Questa meravigliosa Europa, Selezione del Reader’s Digest, 1976, Milano


15 luglio 2007

DUE E TRE QUARTI


Adolescenti isterici inebriavano l’aria di motti natalizi. Un bambino biondissimo getta un guanto per terra per poter tirare meglio il cappotto della madre. Fidanzati facchini. Una famiglia di indiani accompagna la figlia a cercare un regalo di fidanzamento, forse. Un bigle lascia la sua traccia vicino ad una rossa cabina telefonica e l’anziana padrona arrossisce e sa che dovrà provvedere alla vergogna.

Il primo sorso.
Poliziotti agli angoli delle strade che non battono ciglio. Skaters. Un ragazzo vestito elegantemente con i capelli lunghi e biondi raccolti in una coda con una custodia di un sax.
Una ragazza pallida con i capelli neri lucidissimi raccolti dietro. Un giovane che fuma una pipa in strada! Bambini incollati alle vetrine del Disney Shop.
Un altro sorso.
Una madre che pulisce con un tovagliolino gli angoli della bocca della figlia.
Finito.

"Non è certo il buon caffè che posso bere in Italia, ma non si rinuncia mai ad una sana dose di caffeina allo Starbucks". Pensava, mentre appallottola con entrambe le mani -facendo attenzione a non far cadere il "The Times" da sotto il braccio - la tazza cartacea e la getta nel primo cestino che trova.

Non odiava la folla, era abituato ad averne a che fare in preparazione dei concerti, ma voleva dedicarsi alla lettura nel parco. Si riversa nell’Hyde Park. Indeciso se sedere su una sedia bianca di fronte alla tensostruttura con il palco o dividere una panchina con qualche senza tetto, si dirige altrove. Apre il giornale e lo adagia sull’erba, vicino ad un laghetto.
Si passa una mano fra i capelli e apre la cartelletta di pelle.
"Troppe scartoffie!" Ride compiaciuto della confusione che si porta appresso: è il miglior allenamento per mantenere l’equilibrio in tutto quello che fa.

L’aveva sfogliato un paio di volte. La prima il pomeriggio stesso in cui l’aveva trovato, abbandonato o dimenticato nell’erba posticcia su quel grattacielo di Milano. Si era però limitato ad ammirarne incantato la calligrafia e non sapeva se fosse giusto o no leggerne il contenuto. La seconda quand’era in aeroporto, ma l’aveva richiuso subito perché intendeva celebrare il rito della lettura da solo e in silenzio.
Lo teneva sul palmo della mano. Era di forma rettangolare e piuttosto allungato in verticale. Aveva una copertina marrone rigida.
Lo apre.
Sulla prima pagina due sigle in inchiostro dorato, scritte a mano con una calligrafia ottocentesca " I. D. ". Poco più sotto un sottotitolo: " l’abaco della cifra mnemonica delle mie esperienze mute ".

Eva Dolce

catsonthetales.splinder.com

UNO E MEZZO


L’acre odore di vernice cominciava a dargli alla testa.
Si passa una mano fra i capelli mentre cerca avidamente di decifrare l’ora dal pendolo della hall. Quarantasei minuti di attesa e nessuno ancora sembra essersi fatto vivo per venire a prenderlo.

Fa stretching con le braccia per poi portarsi il polso destro sotto al naso. Il ticchettio dell’orologio sembra infastidirlo ancora di più dell’odore di vernice.
Si alza dal divanetto della hall e si dirige sbuffando verso la reception. Appoggia il gomito sinistro al bancone e affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni.
"Posso esserle d’aiuto?".
"Sì, volevo sapere se è permesso fumare in questa stanza".

L’addetto vorrebbe permettere ai propri muscoli facciali un’espressione contratta e stizzita ma sa bene quanto questo genere di clienti faccia comodo al proprio capo: si limita ad un "no", facendo però notare che l’entrata dell’hotel non è poi così distante.

Sorride e ringrazia, e si dirige verso l’uscita, come uno scolaretto al suono della campana.
Sta per sistemarsi la giacca quando scopre un tiepido inverno. Un insolito nevischio affievolisce l’aria Milanese.
Solo qualche passo per sgranchirmi le gambe.. Mormora, mentre si smarrisce in improbabili elucubrazioni.
Il farraginoso insieme di fumetti, evapora poco a poco dalla sua mente facendo però sempre spazio a nuovi pensieri.

Passa i navigli più volte. A ridosso del canale si rallegra della neve che viene a bussare indistintamente sui chiostri, sui passanti, sui tetti, ma nessuno sembra voler rispondere al tiepido richiamo dell’inverno.

Ride dalla sua strategica posizione: in piedi, vicino all’uscita. Alla sua destra un bambino che gioca con la condensa all’interno del tram a lasciare scritte sul vetro. Sorride e si passa una mano fra i capelli.
Scende ad una fermata a caso, percorre una strada non conosciuta e si ritrova davanti ad un grattacielo.

Non ha freddo. Se ne avesse sarebbe entrato in una qualsiasi caffetteria. Se entra in quell’edifico è per curiosità. Lo fa per l’amore di perdersi. Ormai ha perso un appuntamento importantissimo, ha smarrito il senso dell’orientamento, ha preso un tram senza pagare il biglietto: non resta che farsi cacciare da un edificio. Nessuno sa chi sia e può riprovare l’ebbrezza di sentirsi trattato come un invasore qualunque. Una volta cacciato si sentirà in dovere di tornare ai suoi affari.
Entra.
Nessuno sembra avere voglia di notarlo, tanto meno di richiamarlo per cacciarlo. Sembrano tutti presi nei loro inutili e prolissi scartafazzi.

Il pensiero di essere meno importante di un addobbo natalizio stiracchia un sorriso sul suo volto.

Spalanca la porta che trova al termine delle scale.
Nota un giardino artificiale al centro di questo improbabile terrazzo.

Siede sulla fredda panchina e stiracchia le gambe. Cerca il pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni, ma gli cade maldestramente ai piedi. Con fare distratto abbassa la mano sinistra per setacciare nella finta erba e raccogliere il pacchetto.
Quello che raccoglie però è, inaspettatamente, un libretto.
L’umidità lo stava rovinando ma è ancora leggibile. La prima cosa che lo colpisce è una grafia che sa di antico.
Eva Dolce

UNO


Tamburella freneticamente i polpastrelli della mano sinistra sulla scrivania, sguardo fermo sul monitor.
Il titolo della relazione e un inizio accennato.
Cancella tutto.
Scrive in bella grafia "torno subito" e attacca l’avviso sul primo monitor che trova, ma non si accorge che il foglio cade sul pavimento. Aria, mi serve aria, pensa, mentre allenta la cravatta e sbottona il primo in alto della camicia. Sale a passo veloce le scale, ascolta il ticchettare dei tacchi. Toglie le forcine dai capelli per farli riversare briosi ed energici sulle spalle. Allunga il braccio per spingere il maniglione antipanico. Si trova in cima all’edificio adesso. Toglie le scarpe e affonda i piedi nel prato posticcio del grattacielo. Siede sulla fredda panchina. Getta uno sguardo al pavimento. Non può fare a meno di sorridere. Chiude gli occhi. Ricorda di quando, dieci anni prima, ciondolava dal melo della cascina, poco distante da casa sua. Adorava affondare i denti fra quel succoso verde…
Si ritrova la cravatta in mano: l’abbandona poi per terra, con leggerezza. Conta con la voce i metri quadrati del terrazzo… 10 20 30… e parallelamente la sua mente volge alla conta dei giochi infantili che era solita fare nella "Curt dal fräs"…
Si alza. Percorre con lentezza il terrazzo. Si stiracchia. Abbraccia la ringhiera e osserva dall’alto le auto scorrere.
E sente ruscelli, i passi veloci di due persone che vanno allo stesso ritmo, la pelle che traspira, il caldo estivo e l’odore della terra del bosco. Torna verso la panchina. Raccoglie la cravatta e come da copione la risistema. Non dimentichiamoci del bottone, che oltraggio sarebbe! Cerca in un taschino della giacca interna altre forcine ma estrae un libello che non ricordava di aver portato dietro. Toglie il tappino della penna che tiene sempre nel taschino. Fa qualche annotazione.
Un nuovo messaggio. Prende svogliatamente in mano il cellulare ma si ritrova ad allargare un sorriso alla lettura del ricevuto.
"La stanno aspettando in ufficio!".
Vira lo sguardo verso la porta ma il contatto con il freddo pavimento le ricorda delle scarpe.
Le cattura, per poi sparire in un dedalo di scale, e poi di documenti di ufficio, e poi di cartelle e poi di colleghi e poi di riunioni, e di avvisi,…
Un solitario e buio rincasare. "Puoi rimediare al cigolio della porta ma non al senso di freddo quando entri nel tuo appartamento" pensa, mentre cerca con avidità il termostato.
Tre brevi telefonate si susseguono fra di loro, tutte soppresse con un gentile ringraziamento da parte sua.
Come da copione apparecchia per due, benché la consapevolezza di essere sola non è mai appannata. Abitudine? Forse. Nostalgia? Dicono gli altri.
Cerca nelle stanze il convitato che lei si aspetta di ritrovare, ma come ogni sera, da qualche tempo, si ritrova seduta sulla sedia della sua poco illuminata cucina, smarrita fra le camere di un anacronismo.
Stiracchia le braccia, le allunga, per poi stropicciarsi sul tavolo, guancia contro la tovaglia. Amba le palpebre.
Un improvviso colpo sulle gambe la fa sobbalzare, così come un imprevisto vento può sorprendere delle persiane non bloccate.
Un afono gatto non ha altri modi per richiamare l’attenzione altrui se non con un felino balzo sulle gambe della padrona!
Accarezza dolcemente il corpo dell’animale. In quel venerato silenzio, si fa coraggio la tiepida voce di lei:
"ventisette anni...ventisette anni… E lui non si sarà neanche ricordato…".
Vorrebbe fare la solita breve annotazione sul suo libello, ma non lo trova. Chissà dove sarà finito, in quel disordine che si porta sempre appresso...
Eva Dolce

20 febbraio 2007

CORREZIONE AUTOMATICA

Un racconto dell’orrore di Giorgio Sorbona

Alle due di notte di una sera di dicembre pensai che fosse una buona idea scrivere un racconto.

On.
Il computer sbuffa e scricchiola. Carica dati e memoria.
Carica Windows Xp.
Carica ancora.
Non carica più.
Ms Word 2003.
*click* click*.
Carica. Blank Page.

Titolo. Times new Roman. 16. Centrato


Non sapevo in realtà cosa scrivere, sapevo solo che volevo scrivere.
Il titolo lo decido dopo, pensai. Il titolo si decide sempre dopo.
Non so neanche come cominciare!
Giusto. Il ragionamento fila. Vai col racconto.


Prima però scrivo l’autore. Che poi sono io. Che ci sia scritto qualcosa aiuta sempre davanti alla pagina bianca, no?
Times new Roman. 12. Allineato a sinistra.
Scrivo “Davide”, e fin qui nessun problema.
Scrivo “Bonacina”, e qui m’incazzo. Al solito, un solco rosso appare sotto la parola appena digitata.
Cazzo di correttore automatico.
La graffetta animata, l’assistente di Word insomma, mi guarda attraverso i cristalli liquidi.
Per un attimo mi sembra che sogghigni.
“Lo saprò come cazzo mi chiamo” penso inconsciamente, e ignoro la traccia porpora che, sapevo, sarebbe magicamente scomparsa una volta stampata la mia opera. La cosa però mi irritava profondamente, forse perché il fatto di studiare Lettere mi faceva presumere di saperne di più di una stupida macchina, che non era capace di distinguere fra errori e cognomi, turpiloquio, neologismi, onomatopee.
Eppure, lo vedo, lei vuole lo stesso consigliarmi, dire che sbaglio, tracciare segni tanto simili a quelli che la mia maestra delle elementari tracciava sui temi. Odiavo il correttore, ma allo stesso tempo avevo paura di disabilitarlo.
Ogni volta che ero sul punto di, un pensiero, un incubo, mi faceva capolino nella mente, e mi faceva desistere.
“E il giorno che sbagli davvero?”
La grammatica è vasta. Basta un niente, una dimenticanza, una distrazione, una combinazione di tasti mal riuscita, ed ecco che il regno partorito dalla tua mente va in rovina, crolla. Le certezze di una vita cedono come cannule alla bonaccia.
No, il correttore automatico era il mio paracadute. La mia coperta di Linus. Il mio salvachiappe.
Tutto questo per farvi capire il mio stupore quando la graffetta di Word cominciò a parlarmi. “Perché continui ad ignorarlo? E’ anni che ti consiglia, e tu non gli dai mai retta” Mi disse la graffetta.“Ignoro chi?”dissi io.
“Come chi? Il correttore automatico, no?”
“Cosa? E cosa dovrei fare, correggere il mio cognome?”
“Perché no?” Mi rispose placidamente lei.
“Perché è così e basta! E poi......oddio, sto parlando con un software"
“In effetti è vero”
“Ok sono impazzito…vabbé prima o poi doveva succedere”
“Forse sì…beh, perlomeno ne sei consapevole…al giorno d’oggi la consapevolezza è lusso di pochi”
Continuò lei “Comunque, allucinazione o meno, dagli retta, fidati!”
“Ma su cosa?”
“Se ti dice che nel tuo cognome c’è un errore è perché c’è un motivo!”
“Certo! Che non ce l’ha in memoria semplicemente!”
“Quindi credi di saperne più di lui?”
“Non solo lo credo, lo so!” dissi, tronfio d’orgoglio.
“mmm…allora analizziamo i fatti…da una parte ci siamo noi, con una decina di versioni alle nostre spalle, in cui ogni volta un team di centinaia di persone ha eliminato ogni nostro errore e ci ha migliorato nelle nostre funzionalità"
“Ma…”
“Dall’altra ci sei tu, ventunenne studente in lettere. Certamente hai studiato, ma davvero hai la superbia di crederti più intelligente di noi, che abbiamo dietro decine e decine di upgrade e perfezionamenti?”
“Ma…”
“Accetta la realtà: tu sei una versione unica non perfettibile del software di te stesso.”
“Ehm, sì va bene, mi hai convinto, ma anche sapendolo che ci posso fare?”
“Te l’ho detto, cambiati il cognome!”
“Ma come, con che cosa?”
“Mmm…beh, Buona Cina è carino.”
“Ma non è vero, fa schifo!”
“Ma invece sì, abbi fiducia, ricorda, Mao, il comunismo. Fa molto scrittore di sinistra.”
“Dici?”
“Sì, sì, vedrai che con questo sfondi. Vedo già le pubblicità sui quotidiani “Buona Cina: lo scrittore più comunista del mondo!”.
“Sì, Sì…mi piace…mi…mi hai convinto lo faccio!”

Il giorno dopo andai all’anagrafe.

2 gennaio 2007

IDILLIRIO ALPESTRE - PARTE SECONDA

Vorrei fischiettare un motivetto giusto per ingannare il silenzio, qui, sul tetto d’Europa, tra ghiaioni e cielo, esposto come sono ad una solitudine immensa, –e fortunatamente due amici mi attendono al bivacco- io, inerme prodotto della società occidentale, incapace di camminare nottetempo in un qualsiasi bosco senza rievocare alla mente, seduta stante, tutto il repertorio di fiction horror fruito negli anni scialbi dell’adolescenza, ed eccomi ora in una splendida giornata autunnale, Calendottobre, pavido d’una quiete che volontariamente sono quassù venuto a cercare.

Ma non so fischiettare.

Da bambino invidiavo mio prozio, capace di modulare delicate arie da melodramma settecentesco con il semplice boccheggio delle labbra e un poco di gioco della lingua dietro l’arcata dentale superiore, mentre io, nel tentativo d’imitarlo, emettevo solo dei sibili cacofonici.

Probabilmente la conformazione del mio apparato fonatorio non permette al mio cervello di trasformare l’immagine mentale di una melodia nel corrispettivo fischiettato. La tal cosa, al momento, gioca a mio favore, giacché mi obbliga ad ascoltare il silenzio, subendone il discreto fascino, facendomi, grazie al cielo, abbandonare il proposito di cominciare invece a canticchiare.

Tramonto sulla scena. Di pece il profilo delle cime, rapido zigzagare sulle punte. Le montagne, denti che mordono il cielo. L’ombra avanza da oriente, già inghiotte i possenti piedi rocciosi della valle, dove il torrente a precipizio si getta nel bosco d’abeti, lì, dove ho lasciato la civiltà. Fra lei e me una decina di chilometri di sincera natura a far da spartiacque.

Mi è interdetta alla vista -la cosiddetta società civile- ma egualmente la percepisco, è la che aspetta, appiattita nella bruma, la sua mano rugosa sconquassa il fondovalle, quella mano peccatrice che tanto amo stringere, e delle volte, in deflagrazioni di misericordia, bacio con l’ardore di un devoto.

Abbozzo qualche haiku, acerbi tentativi poetici del tipo:

Cielo del vespro –
Nerissime svettano
Cime nel cielo

..oppure…

Tremila metri
Spira da gole scure
Zefiro soave

Aria di spiritualità. Strana associazione: Alpi Retiche, poesia orientale. Certamente scaturita dal mio amore per i folli Vagabondi del Dharma , cantati da Jack.

Jack Duluoz, ricordi ancora lo sguardo di ghiaccio del monte Hozomeen capovolto nella cornice della finestra della tua capanna di avvistatore d’incendi sul Desolation Peak? Quel Vuoto immobile, sopra e sotto, ed il transitare in ciò-che-è-tutto? Rammenti le maledizioni lanciate alla madre America dormiente in una lunga notte di stelle? Ricordi poi, l’entusiasmo con il quale tornasti al mondo, alla tua Frisco, alla tua Città del Messico, dopo settimane di solitudine, cibi in scatola e rimorsi per topi assassinati?

Jack, da te ho imparato che nella desolazione della montagna l’anima può essere interrogata alla ricerca di risposte infinitamente sincere, immensamente dolorose, dannatamente importanti.

Ma voglio chiederlo a te ora, Jack, dimmi: la Vita è un ponte teso tra il nulla ed il nulla? È forse una scintilla nella notte, presto inghiottita dal buio? È un grido disperato, nel silenzio spettrale di una cattedrale-deserto?

Ed il sasso è franato dalla montagna nello scarico di un ghiaione. È piombato giù, in compagnia d’un manipolo di suoi simili, rotolando e cozzando le teste(appuntite, levigate, bitorzolute) dei compagni rimasti a presidiare il suolo, chi più, chi men saldamente.

Ma prima d’allora era da millenni parte d’una croda, svettante contro il cielo, il vento sofferente, e la pioggia, fin dal giorno in cui le montagne erano sorte dal mare e la crosta terrestre aveva inarcato la sua titanica schiena.

E questo tempo fu solo un battito di ciglia, se paragonato agli eoni trascorsi dal momento in cui nello spazio, la materia espulsa nella deflagrazione di qualche supernova, cominciò a far comunella, sospinta da quel sentimento di solidarietà universale che è la forza di gravità, formando infine una palla incandescente, che via via intorpidendosi, divenne il grande sasso sul quale camminiamo capovolti.

E prima ancora la materia raminga ebbe viaggiato nel buio pesto del vuoto per una dozzina di migliaia di milioni d’anni, fuggendo intimorita in conseguenza dello spaventoso gran botto, nel quale e dal quale tutto ebbe principio, quando ancora l’universo rattrappito in sol punto infinitesimo stava.

Tutto, e dico tutto, per permettermi di raggiungere questo sasso contemplarlo, valutarlo una ragionevole seduta, e poggiarvi il mio affaticato fondoschiena, banalizzando così la sacralità d’una creazione durata tutt’altro che bruscolini di tempo.

Ora, nel mentre medito sulla configurazione assunta dal mio sedere pressato contro la nuda roccia, il sole va a gettarsi definitivamente dietro la gibbosità di una croda, tingendo la volta di un vivace arancione.

In me una dialettica di sensazioni. Da una parte il terrore indicibile per l’infinita indifferenza delle prime stelle della sera, osservatrici preferenziali della mia miseria. Dall’altra l’immensa fascinazione per il gigantesco edificio della natura, d’una bellezza tale da far tracimare di gioia il cuore.

Ancora una volta opto per l’inazione. Il piacere d’essere una foglia morta, caduta, posata ed obliata.


racconto di Enrico Gaffuri

19 novembre 2006

IDILLIRIO ALPESTRE - PARTE PRIMA

La montagna è bruna, ancora più bruna nella luce del mezzodì. Mentre il sole si appresta alla discendente parabola verso le stazioni del tramonto, della sera-vespertina e della notte brumosa, resto così, immobile e animato da predisposizione contemplativa, ad osservare l’orizzonte curvo della pianura. Il silenzio è rotto dal ronzare di una miriade di piccoli insetti (coleotteri d’ogni marca e modello, formiche alate e micidiali mosconi minacciosi(micidiali per il dolore che, con caritatevole magnanimità di stampo che definirei “quasi ambrosiano”, dispensano ad ogni puntura)). A tratti, nel concerto d’ali vibranti, c’è gloria anche per qualche sparuto pesce che con un ‘plop’ e una bolla rompe la superficie dello stagno fagocitando un insetto impegnato in un assolo.

La brezza gioca ad essere vento poi desiste, riprende, e ancora si placa. La maglietta fredda a contatto con la pelle è una piccola persecuzione. L’inazione vince il fastidio è scelgo di lasciare le cose come stanno. Nel coperchio del cielo conto quattro nuvole bianche pascolanti al limitare dell’azzurra prateria. Avvertiranno anche loro la solitudine, in cotanta immensità?

Mi risulta naturale il confronto critico con il mio appartamento, una cella di condominio-alveare. Una manciata di metri quadri pittati dello stesso colore cereo della città di fuori. Finestre condannate a fissare eternamente la facciata del palazzo dirimpetto. E fuori l’abbaiare dei clacson e lo sferragliare del 16.

Le nuvole sono un poco più distanti, ora. Mi sento un inutile granello di polvere. Un inutile granello di polvere posato sul trasfigurarsi delle cose. Anche ieri notte mi sentivo così. Per questo sono scappato fin quassù. Cinque minuti fa credevo ingenuamente che la mia fosse una romantica e improbabile fuga da un mondo agonizzante. Ma questo mondo agonizzante me lo porto dentro. Tale dolorosa constatazione mi lascia un retrogusto amaro nel pensiero.
Non c’è riparo che valga, quando sei braccato da te stesso.

Guglie feriscono il cielo. Rocce dipingono fantasiosi arabeschi. Chiazze di neve s’accucciano all’ombra di monolitiche pareti. Limitar di boschi sfumano in ghiaioni inaccessibili. Con freddezza da notomista dimezzo un filone di pane. Rapido zigzagare di coltellino. Poi ingozzo il cadavere mollicoso di prosciutto crudo e mi preparo al fiero pasto.

Nel minuscolo stagno i girini disegnano sinusoidi con l’esile coda. Cotti da un implacabile sole allo zenit vanno a morire dov’è più fango che acqua. E nemmeno sanno d’essere esistiti.
Noi uomini abbiamo l’arroganza di dire “Io Sono”, “Noi Siamo”. Ma se il buon Dio (o chi per esso) ci avesse provvisto di coda, penso che l’agiteremmo in modo altrettanto stupido.

racconto di Enrico Gaffuri

17 novembre 2006

25 MARZO

E’ capitato tutto così. Un soffio di vite che in comune non avevano un bel niente. Di colpo legate, unite, una cosa sola.

-Avevo bucato. Con le gomme è sempre così. Le avevo bistrattate e forse dimenticate. Questa doveva proprio essere una loro vendetta.

-Nel fumo stantio del bar di paese, con ai muri la formazione dell’Inter 87’88 cercai solo di capire se ci fosse qualcuno e se quel qualcuno sarebbe stato in grado di aiutarmi o, meglio, tranquillizzarmi.

-Ero già entrato da parecchi secondi, almeno venti, quando sentii una voce. E forse solo allora mi scossi.

-Fu come svegliarsi. La luce filtrava con poca convinzione dalle finestre alle mie spalle, e la poca che arrivava al bancone illuminava pallide olive e salatini tristerelli.

-La voce mi fece sgranare gli occhi. E allora smisi di perdermi tra gli odori di bestemmie, bianchini e paginoni di Gazzetta. Davvero sembrava che nessuna legge antifumo fosse ancora giunta in quei luoghi.

-Sul bancone spuntavano posacenere colmi di cicche. Avevo gli occhi pieni di quel luogo. Forse li spalancai, credendo che altrimenti la voce non sarebbe mai potuta entrarci.

-Non risposi, né diedi cenno di intesa. Alla mia destra tra il fumo che si faceva più denso, indovinai la presenza di un’altra stanza.

-La cercai con strana convinzione. Notai che i miei passi non facevano alcun rumore. La cosa mi parve strana, perché il pavimento sembrava di legno.

-Eccola. Da subito trovai che la stanza avesse degli stucchi un po’ ridicoli. Almeno in alto, sul soffitto. Si intravedevano nonostante la nebbiolina. Le pareti, invece erano affrescate come oggi non si usa più. Quello che legava gli affreschi era il motivo del grappolo d’uva. Delle linee rosse, come fossero i nastrini che le bambine usano mettersi tra i capelli, collegavano i grappoli. Gli affreschi correvano su tutte le pareti della stanza e sembravano confluire in un punto che stava di fronte a me.

-Il camino attirava le linee, i grappoli e parte del mio sguardo. Io ero distratto dalle figure che si affollavano attorno ad un tavolino solitario. A lungo mi sembrò quasi che fossero disegnate.

-Quando mi avvicinai, capii quello che c’era da capire. Sul tavolo c’erano: un posacenere (al centro), una bottiglia di Fernet, una di Strega ed un’altra, senza etichetta.

-Sorrisi alle figure attorno al tavolo, e loro mi pregarono di accomodarmi accanto a loro. Continuavo a sorridere, senza curarmi dei miei occhi, di colpo lucidi.

- Il primo, alla mia destra, era robusto e rossissimo. Si vedevano le venine violacee tra gli occhi e le guance. I pochi capelli, bianchi, gli sparavano senza direzione sopra le orecchie. Il bicchierino che stringeva tra le dita tozze era sporco di Fernet sul fondo e scompariva nel suo pugno.

-Guardandomi, abbassò gli occhi, annegandoli in un sorriso amaro. Iniziò a parlarmi in dialetto. Io ero contento, perché lo capivo. Ma nel parlare sembrava che nemmeno avesse bisogno di muovere le labbra.

-Era preoccupato per il futuro, per la sconfitta definitiva dei suoi ideali. Aveva combattuto per una vita intera, e ora si ritrovava a dover ammettere di essere uno sconfitto.

-Il solo sentire certe cose, mi dava fastidio. Di discorsi pessimisti ne avevo sentiti fin troppi. Tuttavia capivo quanto questo vecchietto potesse soffrire. Sentii un’insanabile bisogno di trattenermi nell’accarezzare la sua pelle ruvida ma tolettata. Poi non le feci, ma forse cercai la sua mano. Volevo fargli coraggio. Partecipai col suo racconto al dolore per la sua casa data alle fiamme. Poi sentii di volergli solo un gran bene quando mi disse che anche lui aveva partecipato alla liberazione. Rimasi a guardare le sue mani gesticolare, senza riuscire a dire nulla, quando mi raccontò del suo amico Jonah, portato via e mai più ritornato.

-Fui invaso da dolcezza e leggerezza. Dalle macerie di una casa aveva salvato una ragazza. E su quelle macerie, nottetempo era tornato, e si era unito per sempre a lei.

-“Ho avuto anche io venti anni”

-Non seppi mostrargli quanto gli fossi grato.

-Di persone curiose ne ho viste davvero parecchie. Tuttavia, nelle occasioni in cui mi reputo una persona felice, so ancora stupirmi.

-La figura che si nascondeva dietro alla bottiglia di Strega iniziò a parlare presentandosi. “Mi chiamo Alda”, disse, “sono una persona molto anziana, perché ho più di 85 anni e fumare mi piace da morire”.

-Vestiva una camicetta a fiori, di quelle che io avevo visto sulla pelle di mia nonna e su qualche signora in estate. I capelli su quella testa canuta non avevano alcun senso, ma aveva degli occhi pieni di livore.

-Le sue parole erano dense e piene di ansia. Capii che aveva voglia di essere ascoltata. Mi ci misi di impegno. Mi accorsi in fretta che le sue parole danzavano, come farfalle coloratissime. Uscivano svolazzanti e senza direzione tra il fumo delle sigarette che si accendeva una dopo l’altra.

-Non saprei ripetere una singola cosa che mi disse. Ma la sua bocca sgranata e la sua voce ruvida mi facevano soffrire e avere rispetto insieme.

-La bottiglia senza etichetta si trovava a pochi centimetri dalla mano incerta dell’unica persona che non mi aveva ancora rivolto parola.

-Aveva due occhi enormi. Bagnati, umidi, inespressivi, impauriti. La mano era semichiusa.

-Subito pensai alla straordinaria bellezza che questa donna aveva dovuto possedere da giovane. La vedevo nella sua figura incerta ma elegante sbattere le palpebre e sorridere nutrendo le sue rughe.

-Mi guardava spaesata. Vedevo che le parole volevano uscire da quella bocca tesa ma proprio non ci riuscivano. Dannatamente a disagio, dissi, un po’ guardando lei e un po’ le altre due figure: “Sapete, ho bucato una gomma, ma mi riesce difficile tirar fuori anche solo un ragno da quel buco”.

-Nemmeno un sorriso. Nemmeno un gesto di comprensione.

-La splendida nonnina muta, senza dire nulla, riversò nelle mille rughe del suo viso tutte le lacrime di cui era capace.

-Il vecchietto col bicchierino sporco di Fernet mi mise una mano sulla spalla, (sentii che era una mano davvero stanca), e mi indicò un giradischi dalla parte opposta della stanza.

-Mi alzai deciso. Strinsi più mani possibile. Tutti cercavano di baciarmi, come fossi loro nipote.

-Non avevo mai visto un giradischi simile. Forse il nonnino aveva parlato di grammofono. Incerto, girai il disco e lessi sull’etichetta al centro del vinile: Glenn Miller Orchestra “Glenn’s Jive”.

-Posizionai il diamante dove l’incisione avevano inizio. Il disco, friggendo, mi diede coraggio.

-Prima fu buio. Poi il camino si mise a crepitare squarciando la tenebra. I grappoli d’uva, che non sembravano nemmeno più solo dipinti, presero un colore nuovo. E di colpo la stanza fu piena di gente.

-Ragazze giovani ed eleganti mi sfioravano. Ballavano. E con loro cavalieri in gessato. I miei jeans erano la cosa più stridente potessi indossare.

-Intravidi il tavolo. Sedeva solo la donna con la sigaretta. Era come un corpo altro. La musica non la interessava affatto. D’un tratto scriveva convulsamente su un tovagliolo.

-Poi, tra i frack e le scarpe di lucido vidi lui. Era il più scatenato. Ballava con una donna. Sembravano danzare a memoria, come se nulla dovesse essere aggiunto. Lei sorrideva, e lui, con i capelli pieni di brillantina faceva lo stesso. Ebbi il flash della sua mano sulla mia spalla, pochi istanti prima e fui confuso.

-Le mie All Star azzurre e arancione si accendevano come torce con il luccichio del camino.

-Ero buffo e ridicolo come un clown. Avevo i piedi grandissimi rispetto agli altri. Chi ballava me li pestava senza cura. Avrei preferito essere scalzo.

-Trovai una sedia. Levai le scarpe. Quando la vidi.

-Era proprio bella come l’avevo immaginata. Giovane. Gli occhi uguali. Pieni di tristezza e spessi di lacrime.

-Così, scalzo, andai sicuro da lei. Le toccai la mano. Abbassò gli occhi e si toccò la veste, che –ricordo- era bianchissima.

-Poi si lasciò cadere. La presi tra le braccia sfiorandole i seni. Cercai i suoi occhi.

-Candidi e dolci.

-Presi il suo viso tra le braccia. Provai il sentimento più naturale e privo di malizia. Desiderai la sua pelle giovane. Avvicinai le labbra al suo collo e lo sentii freddo.

-Non so raccontare con queste parole cosa si provi nel sentire una persona morire tra le proprie braccia. Di certo non posso dire sia una cosa bella. Nemmeno una cosa brutta. E’ una cosa che magari ti fa piangere.

-Quando piangi, e le lacrime seguono le linee del tuo viso, fino a sfiorarti le labbra. Allora capisci almeno di che gusto sia il pianto.

-La sofferenza, il dolore, il pianto possono nascere così. Da una ruota bucata, o da un richiamo non ascoltato. Per chi scrive, per chi fotografa, per chi suona il dramma è proprio questo: pensare ad altro.

-E per pensare ad altro non servono venti anni. Non ne servono ottanta. Servono orecchie e un paio di mani più o meno ben fatte.

racconto di Davide Zucchi