18 gennaio 2011

Video ergo sum

Nell’estate del ’94, un Karl Raimund Popper novantaduenne e fisicamente molto debilitato -morirà a settembre dello stesso anno- non rinunciava ad affermare con decisione i propri timori riguardo alle potenzialità negative del mezzo televisivo. Il saggio cui Popper dedica le sue riflessioni, dall’eloquente titolo Cattiva Maestra Televisione, è stato molto apprezzato a livello internazionale, ma altrettanto criticato e discusso, non senza qualche sfiducia nelle capacità di un vecchio filosofo, nato agli albori del Novecento, di capire un mezzo ancora così giovane come la televisione, tutto proiettato nel secolo successivo. Ma rilette oggi, a distanza di quindici anni, le sue riflessioni e i suoi moniti non sembrano poi così antiquati e privi di fondamento. Le sue maggiori preoccupazioni sono rivolte alla forza con cui la legge della corsa all’audience riesce a plasmare i programmi televisivi trascinandoli sempre più verso un fondo privo di qualità. Violenza, sesso e sensazionalismo sarebbero così le spezie di un piatto mediatico pressoché insipido e cucinato con crescente incompetenza.

Il problema a questo punto diventa per Popper educativo: la televisione, così mercantilisticamente definita, continua ad occupare un terreno sempre più vasto nell’ambiente di crescita dei bambini, che non sono ancora in possesso degli strumenti per affrontare autonomamente e in modo critico la fruizione televisiva. Il filosofo austriaco, che nei primi anni ’30 aveva insegnato nella scuole secondarie viennesi, sottolinea il carattere artefatto, man made, di una televisione che è a tutti gli effetti opera dell’uomo, e che non può quindi fregiarsi delle peculiarità di naturalità e neutralità che gli sembrano invece implicitamente attribuite dalla nostra società. Ma per Popper la televisione non è condannata ad essere una cattiva maestra. Sta a chi fa televisione non dimenticare che il mezzo di cui è responsabile è parte integrante, che lo si voglia o meno, anche della formazione dei bambini e dei ragazzi. Per far sì che la televisione assolva al meglio il proprio ruolo educativo Popper propone, destando forse proprio su questo punto le critiche più salde, l’istituzione di una patente, una licenza, un documento che certifichi la competenza e la qualità professionale di chi produce, elabora e partecipa alla realizzazione dei programmi. Malgrado la proposta sia parsa a molti ingenua e ad altri un po’ rigida e perfino pericolosa - per la possibilità che “i patentati” diventino una casta monopolistica del mezzo e dei suoi contenuti - resta con evidenza un notevole vuoto di responsabilità da colmare.

E il dibattito che tiene quotidianamente impegnata l’opinione pubblica -dentro e fuori dalla televisione- è alla continua ricerca di colpe, meriti e demeriti di questa deresponsabilizzazione. La soluzione di Popper sembra essere stata per il momento abbandonata, ma nient’altro ha preso il suo posto.

Per dovere di cronaca bisogna ricordare che Popper aveva come riferimento nelle sue indagini la televisione privata di Murdoch e Maxwell, e conosceva poco la situazione italiana. È invece notoriamente italiano l’autore di un provocatorio testo sulle modificazioni antropologiche cui il mezzo televisivo sottoporrebbe l’uomo. In Homo Videns,pubblicato per la prima volta tre anni dopo il saggio popperiano, Giovanni Sartori sostiene senza indugio l’impoverimento dell’apparato cognitivo umano ad opera della televisione. Il predominio del visibile sull’intellegibile porterebbe lo spettatore al pigro automatismo del vedere senza capire, del fruire passivamente di una sequenza di immagini senza che vi sia la necessità di intervento della capacità astrattiva e dell’immaginazione, che sono invece alla base dello sviluppo del pensiero dell’uomo, della sua evoluzione in quanto specie. Sartori non dimentica poi il ruolo, sempre in questa direzione, del fenomeno internet, che porterà l’homo digitalis a rimpiazzare il suo recente antenato homo prensilis. Non si tratta solo di una modificazione genetica, la televisione ha trasformato radicalmente le condizioni della nostra società: l’opinione pubblica è telediretta, nasce e dipende dallo schermo. La politica è diventata videopolitica, e i politici non possono fare a meno di diventare immagini in movimento e di sfruttare l’efficacia invasiva dell’opinion leadering televisiva. È ancora Popper d’altronde a ipotizzare che “un nuovo Hitler avrebbe, con la televisione, un potere infinito”.

Non manca certo chi si propone di non demonizzare il mezzo televisivo, di non farne il capro espiatorio della mancanza di responsabilità da parte delle agenzie informative tradizionali - scuola e famiglia in primis. Ma è pur vero che la fruizione di contenuti televisivi, ordinati dalla programmazione continua del palinsesto o scelti liberamente nella rete, occupa buona parte del nostro tempo, e oltre a guardarla, della televisione, dei contenuti che trasmette, si parla, si discute, e si scrive, tanto che anche la stampa non può fare a meno di riferirsi a ciò che succede in tv, ben oltre i confini delle pagine di critica culturale. La televisione è diventata ormai un fatto di cronaca, è a pieno titolo parte del reale. Lo scalpore suscitato di recente dalla rivelazione alla madre di Sara Scazzi a Chi l’ha visto? del ritrovamento del cadavere della figlia, senza che il collegamento in diretta tv venisse sospeso, ne è solo l’ultimo esempio. Il problema, come non manca di evidenziare Sartori, è che l’immagine televisiva non è reale, è mediata e costruita dagli autori, è frutto della loro scelta consapevole di intervenire sul reale, comunicando ai telespettatori il proprio punto di vista, la propria opinione.
In definitiva, apocalittici o integrati, la grande questione delle potenzialità del medium-messaggio televisivo rimane aperta.


Giuditta Grechi

Intervista a Massimo Bernardini, giornalista e conduttore del programma di RAI3 Tv talk

Cominciamo da una domanda semplice: come nasce la televisione italiana?
La televisione italiana nasce nel '54, affidata alla Democrazia Cristiana.Fino alla fine degli anni ‘70 è stata una televisione fortemente pedagogica, ma anche capace di aprire al meglio del Paese, ai grandi intellettuali come Eco, Vattimo, Guglielmi, Furio Colombo. In seguito si capisce che la gestione illuminata della DC non può essere l'unica garanzia di pluralismo, allora - e siamo alla metà degli anni ‘70 - nasce la cosiddetta Riforma, che coincide con la fine della direzione Bernabei. La RAI viene tripartita: alla DC va il primo canale, al mondo laico-socialista il secondo e ai comunisti la tv regionale.
Poi, negli anni '80, arriva questo strano signore dall'edilizia che si chiama Silvio Berlusconi. E lui è l'unico che intuisce una cosa fondamentale: per fare la fortuna della tv commerciale non devi più decidere quali spazi dare e come impiegarli, ma dare l’opportunità a forze piccole, imprenditoriali di partecipare al banchetto televisivo.

Comunemente si crede che l'arrivo di questa nuova televisione, culturalmente peggiore della precedente, abbia anche influito negativamente sulle persone, rimbecillendole…
C’è un modo molto banalizzante di affrontare il problema, ma se lo affrontiamo in termini antropologici è molto serio. In una società come la nostra, dove le cosiddette agenzie educative - la Chiesa, la scuola, la famiglia, i partiti, il mondo operaio - stanno perdendo la loro forza formativa, la televisione ha assunto un peso evidente in termini di modelli antropologici. Questo è un problema vero, perché gran parte della popolazione italiana fruisce in maniera pesante proprio della televisione, a discapito degli altri media.
La televisione commerciale, per sua natura, non si è mai assunta problemi di tipo pedagogico o educativo, ma solo il compito di massimizzare gli utili. In questo Mediaset è stata uno dei più clamorosi esempi europei. Però, laddove c'è un canone pagato dal cittadino, la RAI avrebbe dovuto mantenere il proprio lavoro di servizio pubblico, ma con la corsa alla massimizzazione degli ascolti si sta dimenticando cosa voglia dire fare servizio pubblico.

Quale può essere la soluzione?
Sto diventando sempre più scettico a riguardo. Se lei mi avesse fatto questa domanda cinque anni fa, le avrei risposto: sì, bisogna fare, costruire... Dentro la RAI c'è ancora una bella fetta di persone che è cresciuta dentro un grande progetto culturale, e ne ha memoria, ce l'ha nel suo dna, ma non è questa la RAI che ha figliato. E man mano chi ha costruito l’identità forte della prima RAI se ne andrà. Ormai c'è una classe dirigente che in gran parte non sa come si fa il servizio pubblico, questa è la verità e questo la sta facendo morire.

A proposito di pluralismo, anche la RAI oggi ha diversi canali, oltre a quelli istituzionali. Chi fa televisione in questo momento, chi ne è il vero artefice, chi sono quelli che regolano i palinsesti, scrivono i programmi, eccetera?
Ormai la nostra è una televisione che va per forti personalità. Un esempio: Maria De Filippi. E' il 50% di Canale 5, e lo è in quanto De Filippi, grazie alla sua capacità di fare ascolti, di fare corpo con il Paese, di interpretare un certo tipo di classe giovane. Parallelamente a una De Filippi, può corrispondere Carlo Conti. Paradossalmente Conti, che sembrerebbe apparentemente "una cosa priva di personalità", in realtà dà un cifra forte alla RAI in questo momento, che è ahimè una cifra di revival, di memoria, di ricordo.

Non c'è quindi un'idea programmatica.
No. Cominciò a sperimentarlo Berlusconi: direttori di rete, quindi non gestori di una linea editoriale, ma uomini di marketing, che riuscivano a soddisfare il target di pubblico. Questo modello si è trasferito anche dentro la RAI. Vi faccio un esempio molto significativo. Dentro la RAI si sta diffondendo sempre più l'idea di affidare le reti ai giornalisti, che è un non senso: il giornalista non sa di palinsesto, il giornalista ha un altro tipo di formazione. Eppure pensiamo a Del Noce, Mazza, Ruffini, Di Bella. Le due reti principali -RAI 1 e RAI 3- sono dirette ormai da almeno quindici anni da giornalisti. Prima il cursus per diventare direttore di rete era diverso.

Passiamo a Tv Talk. Lei ha una redazione giovane, sono tutti universitari, giusto? Cosa vede in questi ragazzi, nati con la televisione, rispetto per esempio ai docenti presenti in trasmissione? Nota una differenza anche nell'interpretazione delle cose?
Eh sì, perché tutta la storia di cui vi ho parlato prima, i ragazzi di oggi non la conoscono. Io sono nato teledipendente fin da bambino, ma teledipendente RAI, mentre i ragazzi sono cresciuti dentro le reti Mediaset. Ma c’è anche un altro problema. Oggi noi stiamo idolatrando, in termini di afflusso, le Facoltà di Scienze della Comunicazione, che sono il vero boom degli ultimi quindici anni. Stiamo sfornando, e lo stesso vale per chi studia giornalismo, tonnellate di laureati che non sapremo come impiegare.

Secondo lei la televisione è ancora un mezzo rivoluzionario, ha ancora la capacità di cambiare le cose che aveva quando è nata? Oppure lo è sempre meno, rispetto a internet, per esempio.
Io ho l'impressione che sia destinata ad appannarsi un po'. Quello che mi colpisce è che si sta affermando un modello di rito televisivo che non ha più al centro l'appuntamento televisivo. Tutto si può seguire in differita sul sito RAI, al di là del giorno di messa in onda. E questo rivoluzionerà i palinsesti. Secondo me l’impero della tv generalista finirà fra una decina d’anni, forse meno. La pubblicità andrà da altre parti, come già sta succedendo: sta scendendo vistosamente dai giornali, poi scenderà dalla televisione generalista, e quest’ultima si ridurrà di peso ed entrerà in un mezzo come internet, spezzettata e sparsa. Però c'è ancora una cosa da risolvere: il modello di business. Finora dentro la tv generalista era chiaro come si poteva sviluppare il rapporto fra pubblicità e canone, come si poteva rientrare nei costi. Con internet il modello è ancora acerbo. Tutti stanno correndo verso la tv a pagamento, hanno capito che il vero business su cui lavorare, adesso che la pubblicità è in crisi, è un prodotto su misura per lo spettatore che è disposto a pagare. E sarà sempre più così.
Come sarà la televisione del futuro?
Come sarà francamente non lo so. Io vedo che il futuro è un gran casino, sopratutto se non si risolvono i modelli di business, cioè la redditività vera, il lavoro. Per adesso tutto quello che noi vediamo è prodotto da un modello di business precedente -o pubblicità o canone-. Ci si basa ancora sui prodotti generalisti, anche se magari vengono guardati su YouTube e non solo attraverso la canonica messa in onda. Vediamo Un medico in famiglia, Checco Zalone, Susan Boyle, quei pezzi di televisione generalista che sono pagati ancora da un vecchio modello di business. Ma se questo viene meno? Qualcuno Zalone lo deve pagare, qualcuno deve pagare i cameraman, lo scenario, il teatro. Stessa cosa sta per succede con la musica: chi li paga i dischi alla fine? Scarichiamo tutti gratuitamente – meraviglioso - ma alla fine, quando si devono tirar fuori quelle migliaia di euro per andare in sala di incisione, chi li caccia questi soldi?


L'idea che bisogna pagare per avere queste cose oggi è quasi un insulto, ma non può durare all'infinito, perché altrimenti finiranno i musicisti. Il musicista deve mangiare. Qui si tratta di capire chi inventerà nuovi modelli. Insomma sarà un nuovo mondo, vedremo che mondo sarà.


Giuseppe Argentieri e Giuditta Grechi

17 gennaio 2011

Diario della mobilitazione - la manifestazione del 22 dicembre

Dalla testimonianza diretta dei protagonisti, la cronaca ora per ora della mobilitazione studentesca contro il Ddl Gelmini.
Diario della giornata del 22.12.2010.

-Oggi si vota in Senato la Riforma Gelmini.

-H 9.30 appuntamento davanti alla Statale di Milano con un presidio, per raccogliere le forze ed organizzarsi. Ci sono molte televisioni interessate alle vicende ma vengono da quasi tutte invitati ad andarsene.

-H 10.30 si entra in Statale, aula 211, per una breve assemblea e per organizzare le idee in vista della giornata. Nonostante il freddo e la pioggia, la quantità dei partecipanti sembra buona, circa 300 teste, più universitari del solito, l’inizio è incoraggiante. Peccato che forse manchi un po’ di qualità, al contrario della quantità.

-Proposte per la mattinata:

1. Incamminarsi prendendo la strada verso Sempione.

2. Blocco della linea 94 e della circonvallazione, dopo di che raggiungere via Padova a portare solidarietà agli immigrati e a tutta la periferia in crisi.

-H 11.10 usciamo dalla statale dirigendoci verso Corso di Porta Romana passando per il vicoletto in ciottolato che affianca la chiesa di San Nazaro Maggiore, ed è qui che si fronteggiano i primi nervosismi della celere che manganella la testa del corteo universitario per poi rimettersi frettolosamente ed anche un po’ goffamente in riga con gli altri scomparti delle forze dell’ordine.

-H 12.00 siamo in via Francesco Sforza, e dopo vari blocchi dovuti di fatto più alla celere che a noi, decidiamo di deviare il percorso verso Scienze Politiche. Nonostante l’importanza della giornata la tensione sembra non sentirsi più di tanto.

-H 12.30 superiamo Scienze Politiche per raggiungere via Padova.

-H 12.40 Piazza Tricolore e il relativo incrocio vengono bloccati.

-H 14.00 dopo aver ricevuto il sostegno e l’incoraggiamento a proseguire dagli immigrati di via Padova torniamo in Statale per raggiungere un corteo dei medi.

-H 16.30 raggiunti i medi in Statale e pranzato, la gente che ci ha seguito fino a questo momento decide che è evidentemente meglio tornarsene a casa, anche se il voto avverrà solo fra un’ora.

Nonostante l’aggiunta dei medi ai nostri numeri siamo pochi.

Usciti dal retro della Statale e giunti in via Francesco Sforza siamo così pochi che la celere riesce a circondarci nella via: la cosa è sconvolgente. Sembra manchi poco allo scontro.

Riusciamo a patteggiare una fuga che ci permette di rifugiarci in Università. All’interno si cerca di capire che fare, il proposito più sbraitato è quello di uno scontro con la celere che ci aspetta nel caso uscissimo fuori. La violenza sembra essere alle porte ma a molti manca la determinazione, gli animi non sono pronti ad accoglierla e ce ne accorgiamo. Decidiamo di rintanarci nell’università, più come topi da biblioteca che come universitari in rivolta, e di irrompere nel Rettorato.

-H 17.00 il personale del Rettorato, compreso il Rettore Decleva, si sbarra al riparo, e dopo aver tentato una forzatura alquanto fallimentare dei cancelli la Digos fa il suo ingresso, silenziosi come serpenti strisciano da sotto le scale e ci piombano alle spalle. Chi se ne accorge in tempo fugge disperdendosi.

Quelli più sfortunati prolungano la loro agonizzante giornata fuggendo per vari corridoi e altrettante scale raggiungendo il cortile principale.

Siamo pochissimi, la Digos ci eguaglia o peggio ancora ci supera di numero.

Ce ne andiamo, un'altra giornata, un'altra battaglia è andata persa.

-Tornati nelle nostre casa apprendiamo la notizia: la riforma è passata.

Nonostante le proteste in tutta Italia e il dimostrato non consenso del popolo nei confronti dei processi attuati, il governo ha calato sulla testa dei cittadini il suo preciso intento di privatizzazione delle università, infischiandosene dell’opinione popolare contraria.

Se solo questo non basta per determinarci a combatterlo e a rimpiazzarlo siamo davvero su una barca destinata ad affondare.

Davide Indovino

15 gennaio 2011

Auguste Rodin in mostra


120 opere per riscoprire il grande artista francese

Il comune di Legnano, nella cornice di palazzo Leone da Perego, ospita la più importante retrospettiva mai realizzata in Italia sul grande artista francese, vissuto nella seconda metà dell’800. La mostra Rodin. Le origini del genio, in corso fino al 20 Marzo, intende ripercorrere la carriera del pittore e scultore attraverso una serie di opere (120 tra disegni, sculture e dipinti inediti) che raccontano la produzione di Auguste Rodin dagli esordi nel mondo dell’arte, fino ad arrivare alla massima espressione del suo percorso stilistico, incarnato dalla famosa Porta dell’Inferno.
In evidenza il passaggio dal Rodin ancora legato ad un’espressione borghese dell’arte, alla metamorfosi nell’artista “moderno” che unisce sperimentazione a monumentalità; un cammino attraverso pittura e scultura.

La mostra si apre infatti con le opere giovanili, risalenti al 1854, quando l’artista era studente della «Piccola Scuola» dove acquisì una solida formazione tecnica basata sul disegno e sulle arti decorative. Accanto a ritratti di familiari e amici, ancora di gusto tradizionale, spiccano i busti in bronzo e in marmo de L’uomo dal naso rotto, ritenuto da Rodin stesso la sua prima vera scultura. Si prosegue poi con una serie di dipinti, concessi per la prima volta all’Italia dal Musée Rodin di Parigi. La parentesi pittorica dedicata allo studio del paesaggio in Belgio ricorda la tradizione di maestri come Corot e Courbet ed è fondamentale per gli studi dell’artista sulla luce e lo spazio, utilizzati successivamente nella scultura.
Se nel corso della sua produzione artistica Rodin ha cercato il favore della critica e dei circoli artistici francesi, non ha tuttavia rinunciato a formulare un proprio linguaggio, in bilico tra equilibrio classico ed una moderna monumentalità, che lo renderà spesso ostile proprio a quel mondo accademico di cui egli ambiva a far parte. Gli elementi innovativi che caratterizzano l’opera più matura di Rodin sono però gli elementi che più affascinano lo spettatore di oggi.

L’esposizione di sculture quali L’eta del bronzo e San Giovanni battista, un cambio di rotta rispetto al lavoro precedente, cariche di una grande forza evocativa unita alla lezione di maestri classici (primo tra tutti Michelangelo), sembrano tutte preludere all’opera centrale nell’esperienza artistica di Rodin: la Porta dell’Inferno. Il suo talento viene finalmente riconosciuto dagli esponenti più influenti del mondo dell’arte, tanto da indurre lo Stato a commissionare a Rodin la porta per il museo delle arti decorative di Parigi. La Porta diventa una fucina di sperimentazione per l’artista, il quale si misura con la forza dell’opera michelangiolesca, rintracciabile nei contrasti di luci ed ombre e nella possente struttura dei corpi.
È qui che lo spettatore si ritrova ad ammirare con stupore gli studi dei personaggi danteschi, protagonisti della porta. Il bacio apre la serie, seguono una versione in gesso di quasi due metri del Pensatore (individuato dalla critica come una sorta di riferimento a Rodin stesso) e, per finire, lo sguardo non può che essere catalizzato dall’imponente versione in bronzo de Le tre ombre, sintesi di tutta la sua ricerca formalistica.

Ritrovarsi di fronte ad una carrellata delle maggiori opere di Rodin costituisce indubbiamente un’esperienza di grande impatto; un’occasione, dunque, per chi già conosce e apprezza il talento dell’artista parigino, ma anche per coloro che vi si approcciano per la prima volta.

Valentina Taglieri

In mostra fino al 20 marzo
Palazzo Leone da Perego
via Gilardelli, 10 – Legnano (Mi)
Tel: 0331 471335
sale@legnano.org

14 gennaio 2011

Editoriale novembre 2010

Ad ogni atto di violenza verso un protagonista della politica, dalla statuetta contro Berlusconi al fanta-attentato a Belpietro, tornano in auge le condanne ai “seminatori d’odio”. Chi attacca con troppa veemenza un rivale politico sarebbe responsabile del comportamento di un qualsiasi squilibrato che, guidato dalla mano invisibile dell’odio ideologico, scagli statuette o proiettili inceppati verso il nemico di turno.
La pretestuosità dell’argomento è ben evidente anche alle anime belle che si abbeverano alla “stampa dell’amore”. Siamo però sicuri che l’odio sia un sentimento così illegittimo? In nome di che principio non sarebbe possibile, nell’intimo della propria casa, odiare un’altra persona? Esiste forse un obbligo al “volersi bene”, al di fuori delle aule del catechismo? L’odio in sé è perfettamente legittimo, a patto chiaramente che non si traduca in azioni concrete. Il codice infatti proibisce la pratica violenta o l’istigazione, ma fortunatamente non si occupa di stati dell’anima.
E chi non odia nessuno? Fa benissimo, se trova preferibile un’etica personale che suggerisce ecumenicamente di amare il proprio nemico. Ma attenzione, non confondiamo un personale convincimento con la normatività della legge, che non distingue tra giusto e sbagliato ma solo tra legale e illegale. Il rischio è quello di ritrovarsi in uno stato etico simile a certe società anglosassoni, dove i politici si dimettono per aver tradito la moglie. Stiamo attenti a non sostituire una già carente etica del reato, ad un’anacronistica etica del peccato.

Filippo Bernasconi

4 gennaio 2011

Tre libri per il 2011

Cesare Segre, Dieci prove di fantasia, Einaudi, 2010
“Sta a voi scegliere tra questi frammenti di storia privi di connessione, e un vicenda (diciamo pure leggenda) che ha la sua logica e la sua bellezza.” L’opera letteraria è questo: una scelta. Si sceglie di approcciarsi a un testo, o un insieme di testi, in un certo modo, e di farli entrare nel patrimonio comune: questo corpus è però sempre arricchibile di nuove opere o anche di variazioni della stessa fabula, o nucleo narrativo. E questo in fondo il lavoro che si propone Segre, dopo una vita dedicata alla filologia e alla critica letteraria: mettere in parole quel procedimento di ri-uso fino ad ora solo analizzato, cimentarsi nel campo della narrazione rimanendo legato ai testi oggetto dei suoi studi. Ecco allora una diversa e sorprendente versione della storia di Rolando, qui cavaliere violento e gradasso, o la risposta di Charles Bovary allo scrittore che lo ha reso simbolo dell’inettitudine dello sciocco medico di campagna, o ancora le confessioni degli stratagemmi messi in atto da Isotta per celare al marito Marco la sua relazione con un Tristano imprudente e beffardo.

Forse l’aspetto più interessante di queste prove, non poi così fantasiose in verità, è quello metaletterario: il riuso dei testi non è semplice come crediamo, e anche se con l’avvento della stampa ci siamo abituati a considerare l’opera un fatto concluso, non sussistendo le tante versioni passate di bocca in bocca tramite i vari giullari, cantori, poeti di corte, in realtà il testo è polivalente e in continua metamorfosi e rigenerazione: diventato paradigma, le possibilità di lettura e di riscrittura sono sempre aperte. Pensiamo alla vicenda di Rolando-Orlando, tante volte interpretata già nell’antichità, a partire dalle origini orali fino alla grande poesia epica di Boiardo e Ariosto.

Tra eventi solo possibili, come l’ultima notte di Pavese, o diverse rappresentazioni di personaggi ormai divenuti quasi di carne e sangue nell’ immaginario collettivo, o improbabili interviste con Giulio Cesare che confronta i meccanismi di potere dei suoi tempi con quelli di oggi, l’autore a volte si lascia prendere dal tono erudito dello studioso, eccedendo forse in nozioni e dettagli un po’ scolastici, ma si risolleva con l’ironia della voce fuori campo o del punto di vista.

L’intervista immaginaria a Marie le Jars de Gournay, figlia adottiva di Montaigne, è una sorta di mise en abyme: come l’autore ha inserito del suo in storie da lui amate, così la donna è sospetta di aver variato gli Essais del padre nel curarne l’edizione. Quasi che, quando si ama troppo un testo, non si possa fare a meno di cambiarlo per rileggerlo sempre nuovo.

Cesare Segre, Dieci prove di fantasia, Einaudi 2010, p. 104, euro 12,00.

Irene Nava

Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Feltrinelli Un foro di proiettile all’altezza del polmone sinistro, il volto completamente tumefatto. Ha le spalle piccole Bonnot, e guardando la fotografia del suo cadavere, a torso nudo, disteso su una tavola di legno, sembra quasi un ragazzo. Il giorno della sua morte era presente un intero esercito. Reparti della gendarmeria, carabinieri, vigili del fuoco, cittadini armatisi volontariamente per l’occasione, curiosi, cronisti locali e nazionali. C’era perfino una macchina da presa, agli esordi nel mondo della cronaca nera. Il giorno della sua morte, Jules Bonnot era l’uomo più famoso di Francia. Un anarchico, un assassino, un criminale, uno di quelli che dalla storia sono stati traditi, e che hanno cercato per tutta la vita la propria vendetta.

Con In ogni caso nessun rimorso, Pino Cacucci ci racconta la storia di Bonnot, di come, da figlio di un povero operaio orfano di madre, agli inizi del XX secolo sia diventato a sua volta operaio, poi soldato, padre e amante tradito, criminale, abilissimo meccanico, autista di Sir Arthur Conan Doyle, di nuovo amante, e infine capo della famigerata Banda Bonnot, la prima a usare l’automobile nelle rapine a mano armata. Quella che ci fa conoscere Cacucci è l’altra faccia della Belle Epoque, quella fatta di miseria, violenza, oppressione. È la storia con la esse minuscola, quella dei vinti, che si cerca di nascondere e dimenticare in fretta. Dietro gli sfoggi di modernismo e lusso dei salotti altoborghesi e aristocratici e delle corti europee, si celano la violenza e la corruzione dello Stato, lo squallore delle periferie cittadine, la mancanza delle libertà oggi più ovvie. Qualche riflesso del panorama dipinto da Cacucci giunge però fino ai nostri giorni: il lavoro che uccide, la repressione di piazza, le libertà personali in crisi, l’incapacità delle Istituzioni di volgere lo sguardo in direzione del progresso. E la distanza tra il nostro tempo e quello del racconto si fa ancora più sottile, quasi scompare grazie alla narrazione viscerale dell’autore. Gli odori e i rumori si fanno palpabili, la vividezza della rappresentazione è piena. Il lettore segue dall’interno i pensieri e lo stato d’animo dei protagonisti, ne è partecipe. Ma quando vorrebbe condizionarne il comportamento, i personaggi gli sfuggono di mano e seguono la propria strada. In ogni caso nessun rimorso è una storia, sono molte piccole storie, che si vorrebbero poter cambiare, ma che sono già state crudelmente scritte e archiviate dal tempo. Fellini diceva che Cacucci “è un artigiano, un costruttore di trame, di atmosfere e di personaggi”. E questo libro ne è uno splendido esempio.

Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Feltrinelli, Milano 2001 (prima edizione: Longanesi, Milano 1994), p. 308, euro 8, 50.

Giuditta Grechi

Carlo D’Amicis, La Battuta Perfetta, Minimum Fax, 2010

Protagonista di questo romanzo è la famiglia Spinato.

Il padre, Filippo, uomo semplice ed onesto, maestro elementare, osserva la televisione, questa nuova invenzione, e intuisce fin da subito che porterà il popolo all’ignoranza più completa.

Il figlio, Canio, l’esatto opposto, elettore di Forza Italia, il cui unico scopo è piacere a tutti, rinominato Silvio II in onore del Silvio che adora tanto, si ribella all’ideologia del padre per scappare a Milano, diventando venditore di pubblicità e addirittura consigliere dello stesso Berlusconi.

Attraverso questo conflitto generazionale si rivela la tragedia della rivoluzione Italiana che, dopo essersi nascosta per anni dietro il perbenismo borghese, è passata all’apoteosi della superficialità.

D’Amicis denuncia così un popolo che si identifica nel mondo superficiale e fittizio dello spettacolo, comandato da pubblicitari, e La battuta perfetta parla proprio di questo, del nostro Paese, e del declino che si è meritato.

Carlo D’Amicis, La Battuta Perfetta, Minimum Fax, 2010, p.363, euro 15,00.

Francesca Di Vaio