Nell’estate del ’94, un Karl Raimund Popper novantaduenne e fisicamente molto debilitato -morirà a settembre dello stesso anno- non rinunciava ad affermare con decisione i propri timori riguardo alle potenzialità negative del mezzo televisivo. Il saggio cui Popper dedica le sue riflessioni, dall’eloquente titolo Cattiva Maestra Televisione, è stato molto apprezzato a livello internazionale, ma altrettanto criticato e discusso, non senza qualche sfiducia nelle capacità di un vecchio filosofo, nato agli albori del Novecento, di capire un mezzo ancora così giovane come la televisione, tutto proiettato nel secolo successivo. Ma rilette oggi, a distanza di quindici anni, le sue riflessioni e i suoi moniti non sembrano poi così antiquati e privi di fondamento. Le sue maggiori preoccupazioni sono rivolte alla forza con cui la legge della corsa all’audience riesce a plasmare i programmi televisivi trascinandoli sempre più verso un fondo privo di qualità. Violenza, sesso e sensazionalismo sarebbero così le spezie di un piatto mediatico pressoché insipido e cucinato con crescente incompetenza.
Il problema a questo punto diventa per Popper educativo: la televisione, così mercantilisticamente definita, continua ad occupare un terreno sempre più vasto nell’ambiente di crescita dei bambini, che non sono ancora in possesso degli strumenti per affrontare autonomamente e in modo critico la fruizione televisiva. Il filosofo austriaco, che nei primi anni ’30 aveva insegnato nella scuole secondarie viennesi, sottolinea il carattere artefatto, man made, di una televisione che è a tutti gli effetti opera dell’uomo, e che non può quindi fregiarsi delle peculiarità di naturalità e neutralità che gli sembrano invece implicitamente attribuite dalla nostra società. Ma per Popper la televisione non è condannata ad essere una cattiva maestra. Sta a chi fa televisione non dimenticare che il mezzo di cui è responsabile è parte integrante, che lo si voglia o meno, anche della formazione dei bambini e dei ragazzi. Per far sì che la televisione assolva al meglio il proprio ruolo educativo Popper propone, destando forse proprio su questo punto le critiche più salde, l’istituzione di una patente, una licenza, un documento che certifichi la competenza e la qualità professionale di chi produce, elabora e partecipa alla realizzazione dei programmi. Malgrado la proposta sia parsa a molti ingenua e ad altri un po’ rigida e perfino pericolosa - per la possibilità che “i patentati” diventino una casta monopolistica del mezzo e dei suoi contenuti - resta con evidenza un notevole vuoto di responsabilità da colmare.
E il dibattito che tiene quotidianamente impegnata l’opinione pubblica -dentro e fuori dalla televisione- è alla continua ricerca di colpe, meriti e demeriti di questa deresponsabilizzazione. La soluzione di Popper sembra essere stata per il momento abbandonata, ma nient’altro ha preso il suo posto.
Per dovere di cronaca bisogna ricordare che Popper aveva come riferimento nelle sue indagini la televisione privata di Murdoch e Maxwell, e conosceva poco la situazione italiana. È invece notoriamente italiano l’autore di un provocatorio testo sulle modificazioni antropologiche cui il mezzo televisivo sottoporrebbe l’uomo. In Homo Videns,pubblicato per la prima volta tre anni dopo il saggio popperiano, Giovanni Sartori sostiene senza indugio l’impoverimento dell’apparato cognitivo umano ad opera della televisione. Il predominio del visibile sull’intellegibile porterebbe lo spettatore al pigro automatismo del vedere senza capire, del fruire passivamente di una sequenza di immagini senza che vi sia la necessità di intervento della capacità astrattiva e dell’immaginazione, che sono invece alla base dello sviluppo del pensiero dell’uomo, della sua evoluzione in quanto specie. Sartori non dimentica poi il ruolo, sempre in questa direzione, del fenomeno internet, che porterà l’homo digitalis a rimpiazzare il suo recente antenato homo prensilis. Non si tratta solo di una modificazione genetica, la televisione ha trasformato radicalmente le condizioni della nostra società: l’opinione pubblica è telediretta, nasce e dipende dallo schermo. La politica è diventata videopolitica, e i politici non possono fare a meno di diventare immagini in movimento e di sfruttare l’efficacia invasiva dell’opinion leadering televisiva. È ancora Popper d’altronde a ipotizzare che “un nuovo Hitler avrebbe, con la televisione, un potere infinito”.
Non manca certo chi si propone di non demonizzare il mezzo televisivo, di non farne il capro espiatorio della mancanza di responsabilità da parte delle agenzie informative tradizionali - scuola e famiglia in primis. Ma è pur vero che la fruizione di contenuti televisivi, ordinati dalla programmazione continua del palinsesto o scelti liberamente nella rete, occupa buona parte del nostro tempo, e oltre a guardarla, della televisione, dei contenuti che trasmette, si parla, si discute, e si scrive, tanto che anche la stampa non può fare a meno di riferirsi a ciò che succede in tv, ben oltre i confini delle pagine di critica culturale. La televisione è diventata ormai un fatto di cronaca, è a pieno titolo parte del reale. Lo scalpore suscitato di recente dalla rivelazione alla madre di Sara Scazzi a Chi l’ha visto? del ritrovamento del cadavere della figlia, senza che il collegamento in diretta tv venisse sospeso, ne è solo l’ultimo esempio. Il problema, come non manca di evidenziare Sartori, è che l’immagine televisiva non è reale, è mediata e costruita dagli autori, è frutto della loro scelta consapevole di intervenire sul reale, comunicando ai telespettatori il proprio punto di vista, la propria opinione.
In definitiva, apocalittici o integrati, la grande questione delle potenzialità del medium-messaggio televisivo rimane aperta.
In definitiva, apocalittici o integrati, la grande questione delle potenzialità del medium-messaggio televisivo rimane aperta.
Giuditta Grechi
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