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17 ottobre 2010

RIASCOLTIAMOLI: NOT MOVING – “SONG OF MYSELF” (Wide, 1989)


Da un’enciclopedia dedicata alla musica rock: “l’ultimo album del gruppo esce nel 1989 e consiste in un interessante progetto a sostegno degli Indiani d’America”.

Il nome deriva dall’omonimo brano dei DNA di Arto Lynsday presente in una compilation ‘mitica’ del 1978, “No New York”, che stravolse irrevocabilmente l’ortodosso approccio alla musica. Da allora il rock virò verso un rumorismo che divenne arte (leggi Sonic Youth), anche se quella proposta fu accolta negativamente sia dal pubblico che dalla critica.
Per tornare al gruppo, bisogna dire che sono originari di Piacenza e sono stati fra i più significativi dell’underground italiano negli anni ’80. Proprio in questo decennio la scena rock italiana è tra le più vive, interessanti e propositive: Litfiba e Diaframma a Firenze, orientati verso sonorità dark-new wave, Skiantos e CCCP in Emilia, più orientati verso sonorità grezze e ‘sporche’. Pochi anni, questi, in cui l’Italia si è avvicinata al resto del mondo.

“Strange Dolls”, pubblicato dall’etichetta Electric Eye, è il loro debutto nel 1982. Si tratta di un Ep contenente 4 canzoni.
La line-up dei primi anni conta sulla cantante Lilith, il chitarrista Paolo Molinari, la tastierista Maria Severine, il bassista Dany e il batterista Tony Face (proveniente da una delle prime band hardcore italiane: i Chelsea Hotel).
Nel loro sound alternativo si ritrovano tracce di rock’n’roll, blues e garage. Le loro influenze dichiarate: Cramps , gli X , i Gun Club ma anche la psichedelica dei 60s (13 Floor Elevators e Seeds in particolare), la surf music e il punk rock di stampo newyorkese (Patti Smith, Dead Boys, New York Dolls e Stooges, il gruppo di Iggy Pop).
Il loro primo vero album è del 1986: “Sinnermen” (pubblicato dalla neonata label toscana Spittle Records ). Il gruppo dura ancora qualche mese, per poi dividersi in due : dopo il trasferimento di un chitarrista in Danimarca, anche il bassista “Dany” abbandona per emigrare in Germania.
Particolarmente meritevole di attenzione è però il loro ultimo album, dal titolo “Song of Myself”, accreditato a LANCE HENSON & FRIENDS.

Tra i numerosi ospiti c’è Giovanni Lindo Ferretti (allora cantante dei CCCP), parte dei Negazione, Luca Re dei Sick Rose e soprattutto il Cheyenne Lance Henson, un Nativo americano, poeta tra i più rappresentativi della letteratura americana contemporanea, dal 1978 attivamente impegnato nella lotta per i diritti dei Cheyenne e delle popolazioni indigene nel mondo.
L’album è composto da nove tracce in lingua inglese, come del resto tutti i lavori dei Not Moving: indizio di innumerevoli ore di ascolti di musica straniera e di volontà di avvicinarsi a un certo standard linguistico.
E’ un bellissimo incrocio di punk (vedi la canzone che porta il titolo del mini Lp), psichedelia (soprattutto in ‘The Ballad of Sister Snake’, con qualche ricordo di Sid Barrett), poesia recitata e cantata.

E’ compresa anche una cover molto sentita di ‘Ohio’ di Neil Young. Si tratta di un potente brano rock diventato immediatamente un classico, composto subito dopo i tragici avvenimenti del 4 maggio 1970, data in cui quattro studenti vennero uccisi dalla Guardia Nazionale USA nel campus della Kent State University, nello Stato dell'Ohio. La rivisitazione è introdotta dalle urla di Ferretti e preceduta da una lirica di Lance Henson, “Another Song of America”: driving west on Ohio highway 76/just past the Kent state turnoff/a soft rain begins/God damm you america/what have you done to your children/the wind speaks their names/anyway you breathe it. (Un altro canto per l'America: Guidando verso ovest sulla statale 76 in Ohio/appena superato il raccordo per la Kent state/inizia una leggera pioggia/Dio ti maledica america/cosa hai fatto ai tuoi figli/il vento pronuncia i loro nomi/in qualunque modo tu respiri).
Anche l’introduzione delle altre canzoni contenute nell’album consiste nelle liriche del poeta, scandite in tono pacato e solenne.

Particolarmente riuscita e coinvolgente è la traccia numero 6: ‘They Will Fall’, interpretata dalla femminilità torbida di Lilith, anticipata dal riverbero di una chitarra elettrica e dall’espressivo suono di un violino. Il canto che la precede, “Peyote Song”, ci porta l’atmosfera pacifica di un mondo e una cultura lontani.
L’album è permeato da un senso di coralità in cui pare che nessuno voglia predominare, per lasciare così spazio a uno spirito collettivo autentico.
Stupisce positivamente il fatto che nella provincia italiana, nella culla della musica leggera tradizionalista e conservatrice, ancora più di vent’anni fa sia stato realizzato un lavoro di tale portata innovatrice.

E’ d’ esempio anche il loro impegno: “da sempre ci è cara la causa pellerossa”, dichiara il gruppo. E infatti nel 1994, dopo numerosi cambiamenti, i Not Moving si rifanno vivi con l’album “Homecoming”, ancora una volta vicino alle istanze della cultura nativa americana. Una band da riscoprire e un disco da riascoltare.
www.myspace.com/thenotmoving

Alessandro Manca

12 luglio 2010

Intervista a Paolo Saporiti

PAOLO SAPORITI è un cantautore milanese proveniente dal mondo sempre più prolifico della “indie alternative”. La musica che propone è di grande qualità, emozionante, suggestiva, intimista ma soprattutto originale! Un intreccio musicale in cui la ricerca e l’attenzione per i dettagli si uniscono alla profondità dei testi. Arpeggi di chitarre creano uno sfondo su cui la splendida voce di Paolo crea melodie sottili, ma allo stesso tempo profonde e graffianti.
“ALONE”, il suo nuovo lavoro E’ PRODOTTO E ARRANGIATO DA TEHO TEARDO acclamato compositore di colonne sonore (Il Divo, La ragazza del lago) e recente vincitore del David di Donatello 2009 per “Il Divo”. Teho ha saputo arricchire con i suoi arrangiamenti il tessuto sonoro di Paolo senza snaturarne l’anima. Nel disco Teardo ha suonato diversi strumenti tra cui piano rhodes, chitarre, glockenspiel, basso ed elettronica e diretto l’orchestrazione di una quartetto d’archi.

Lo abbiamo incontrato qui a Milano. Questo è un ampio estratto della lunga e interessantissima chiacchierata che ci ha concesso.

Stavo pensando a un film-documentario su Neil Young (Year of the Horse, NdA) mi ha colpito moltissimo una cosa, Neil guardando in telecamera dice: per questo album sono puro, non sono mai stato così puro da trent’anni a questa parte. Mi sei venuto in mente tu. Quanto questa frase ti può riguardare, diventare puro in quello che fai, farsi nudo?

Direi che il 90% di quello che faccio è quello. Anche il modo di porsi sul palco…io credo che a un uomo ‘Universal’ interessi il fatto che io sorrida e che mi ponga in un certo modo, tale da non creare contrasto; io credo invece fermamente nell’esatto contrario. Sei in difficoltà con i tuoi problemi, sei in una situazione ‘umana’, ti manifesti per l’uomo che sei, non ti manifesti per l’uomo che si suppone dovresti essere sul palcoscenico.

Cerco di rispettare al massimo questa cosa, anche diventando controproducente, provi tensione, fai vedere la tensione, non fai vedere che sei perfetto e che gigioneggi con il pubblico; la guerra che voglio fare io è quella lì. Dire: va bene, ce la sta facendo uno che evita di assumere posture, evita di sfruttare quei cliché che alla fine rovinano la musica, nel senso che non arrivi mai a qualche cosa…e ciò crea difficoltà, perché la gente è talmente abituata a uno che fa il sorrisino, è talmente abituata a uno che invita all’applauso, è talmente abituata a uno che è perfetto nelle sue cagate, che questo non viene riconosciuto e viene anche preso quasi come un problema…ah sei timido…ah non ti interessa il pubblico, sei presuntuoso..ma che cazzo c’entra? Sto pensando ai miei problemi e a risolvere il mio ascolto. Quello che non capiscono è che tu stai vivendo in quel momento lì. Questo il teatro lo insegna. E il successo di una recitazione buona vuol dire convivere con quelle cose lì, quindi viverti il momento per quello che è.

In un’intervista ho letto ‘La musica a volte mi ha aiutato più delle persone’. Mi sono molto riconosciuto e mi ha anche un po’ spaventato.

Bè, se ti dico Jeff Buckley… è una persona che nella mia vita mi ha aiutato. Come mi hanno aiutato tantissimi. Comunque c’è un aspetto della solitudine che fa parte credo del percorso dell’uomo e, nello specifico, di uno che vuole fare arte. E credo sia molto meglio confrontarti con la solitudine che affrontar la vita ‘normalmente’, cioè proponendoti verso l’esterno sempre senza trovar dei punti di riflessione. La musica, secondo me, in questo contribuisce, perché se tu appena appena la ami sai che condividerla è un mondo tuo, soprattutto questo genere ha bisogno di un te riflessivo. Ti costruisci il tuo mondo e la musica ti aiuta a sostenerlo. In più poi, storicamente, in alcuni momenti, la musica mi ha dato una grandissima mano. L’idea di famiglia che non ho perché i miei sono divorziati, automaticamente me la sono creata con gli amici musicisti, gli amici scrittori…

Un ambiente nuovo ti sei scelto….

Sì, ti crei una nicchia. Infatti mia madre mi prende in giro perché da quando sono piccolo, i miei movimenti nello spazio, andare al mare, andare in montagna, andare di qua, andare di là, significano portarmi dietro i miei dieci libri e i miei venti dischi; e ovunque arrivo piazzo quella roba e la mia giornata è fatta. Credo sia la caratteristica di uno che ha dentro questo tipo di cose. Hai bisogno comunque di quello che ti sostiene e ti permette di essere te stesso.

Che musica ascoltavi da ragazzino?

Sono venuto su con Crosby, Stills e Nash, Neil Young, James Taylor, Cockburn da matti. Cockburn è un ascolto di mio zio, gli altri sono tantissimo ascolti di mio padre che praticamente fin da piccolo mi ha indirizzato. E poi lui aveva quello che poi faccio io, ascoltava la musica in cuffia; e anche quello è uno “schema di gioco” abbastanza importante, perché comunque quello mi permette di perdere oltremodo i riferimenti del quotidiano. Poi Joni Mitchell, Tom Waits anche quello prima maniera chitarra e voce, e poi pian piano da lì…uno spostamento leggero.

Infatti, oggi cosa stai ascoltando? Che cosa ti colpisce di più?

Ho cercato di aprirmi, sono cambiato, nel senso che prima ero proprio: Nick Drake, Cockburn…ma dopo un po’ hai consumato quel tipo di mondo. Oggi lo ricerco nei pochi che lo ripropongono, ho ascoltato parecchio jazz, mi hanno colpito i trombettisti, probabilmente avevo bisogno di una seconda voce, di qualche cosa molto simile al cantato, quindi Miles Davis. Mi piace moltissimo anche questo Clifford Brown che ho scoperto lavora tantissimo con Max Roach, batterista pazzesco. Ho trovato quelle piccole cose che il mondo indie ti sa dare, cioè la ricerca del suono, la ricerca dell’essenza della musica, mica tante note ma tutta roba corposa, ben presente. Ho ascoltato un po’ di classica, Wagner, che devo dire non conoscevo, e mi sono sembrati entusiasmanti i Die Prelude.

Ora vorrei entrare un po’ più nello specifico dell’album (‘Alone’ 2010, Universal Classics & Jazz). Conta tanto la presenza o l’ assenza di Dio nelle canzoni del tuo nuovo lavoro? Mi sembra che una specie di dialogo in questo senso ci sia. Qualcosa che riguarda il superiore, l’Alto. Che pervade qualsiasi cosa o si fa sentire la sua presenza-assenza, e le conseguenze di entrambe le cose…

Io non so definirmi rispetto a questo, è da poco che sto cercando di trovare le parole in italiano, dette da altri o non. Sto leggendo Kierkegaard e Nietzsche, cioè sto cercando di fare quello che non ho fatto da giovane e automaticamente riscontri il fatto che tutte quelle cose che attraverso le canzoni vengono fuori normalmente sono state messe molto bene in parole e pensieri da altre persone. Non so dare un nome a quello che provo, nel senso che non so dirti se sono credente, ateo, ho una sensazione molto forte che però è legata alla fede, al credere, non è legata a un’entità. Io credo che sia quello la cosa di cui l’uomo ha bisogno o di cui è fatto, non è tanto la cosa in cui credi, ma è il fatto di credere. Punto. Lo vuoi chiamare sogno, lo vuoi chiamare ideale, lo vuoi chiamare passione, l’importante è che un uomo si confronti con una cosa più grossa di lui, e poi a quel punto gli puoi dare il nome di Dio o quello che vuoi, ma è quella cosa lì che secondo me si sente nelle mie canzoni. Io credo talmente tanto nell’esserci, nell’esser presente, e quel presente lì secondo me deriva da qualcosa di superiore.

C’è una specie di filo rosso nella tua tematica, nella tua produzione? Stavo pensando al tema della trasformazione, la volontà di lasciarsi andare ma con una specie di nostalgia per qualcosa che si è lasciato, cioè la volontà di lasciarsi trasformare dagli eventi e guardare però indietro in maniera un po’ spaventata quello che si è lasciato, cioè una specie di ‘in bilico’…

È la mia essenza direi. La mia storia biografica soprattutto.

Mi sono segnato dei passi dall’album nuovo: “quando son tornato con tutto quello in cui mi sono trasformato” (da “Look into my eyes”), “Tenetemi così, pulito./ Conservatemi nel vuoto./ Tenetemi a lungo/ dove io stesso non ho saputo stare” (da “I could die alone”) e poi “Ricorda me e tutto quello che ho perso”. Quindi io ho pensato che da una parte c’è una volontà di fare parte delle cose, lasciarsi andare, lasciarsi scorrere da qualche parte, ma anche un trattenersi…

Io credo che faccia parte del godere la vita nelle sue difficoltà, uno dei punti nodali è quando i miei hanno divorziato. Sono figlio di divorziati, e quello, per chiunque ne abbia questa esperienza, sa che è una cosa grossa, come la perdita di un di un genitore, che poi ho provato. Sono tutti punti enormi della tua esistenza, però proprio perché sono punto enormi sono punto di crescita, di svolta, di trasformazione. Il successo come uomo, secondo me, è riuscire a vivere a pieno tutti queste fasi. Sei stato costretto ad abbandonare un qualche cosa, ma la tua capacità è di riuscire ad essere talmente elastico e talmente creativo nel tuo modo di stare al mondo, che quella è una perdita, e nell’istante dopo c’è la costruzione di qualcosa. Quindi io vivo di queste cose; ho cercato di impostare così la mia vita, attraverso gli studi di psicologia e tutte le forme di terapia che ho sperimentato, sempre in maniera autodidatta, nel senso che sono passato attraverso tantissime cose, senza mai perdermi in una completamente, cercando di mantenere un percorso che io mi ero più o meno prestabilito, in modo tale da cogliere da alcuni gli aspetti nodali e poi gli altri lasciarli pure agli altri.

Cambiando argomento: sì cambiando forse davvero argomento rispetto a quello che stavamo dicendo, tu hai scritto una canzone che si chiama ”We are the fuel”, perché? mi piace, mi sono immaginato una specie di ambiente e una specie di orgoglio, una specie di ‘cazzo, però noi stiamo qui, ci siamo…e ne siamo orgogliosi’, me la sono immaginata così questa cosa.

Ed è proprio così: ”We are the fuel”, nel senso siamo la benzina per il mondo, la mia idea in quel momento era quella, poi dico anche, quando verrà il ‘lightning’, il momento dell’illuminazione, sperando in qualche modo di poter contribuire alla causa. Stava funzionando molto bene il live come sensazione interiore con Francesca al violoncello (NdA, Francesca Ruffilli, violoncellista che ha contribuito alla realizzazione di “Just Let It happen” e nell’attività live del 2008 e parte del 2009), avevo comprato il banjo da una settimana, e mi sono uscite due canzoni che reputo molto belle e molto ricche di quello che era quel momento lì, quindi ”We are the fuel” è quello: siamo al concerto, stiamo suonando, bene, noi siamo la benzina, ma il pubblico è la stessa cosa per noi, c'è veramente la speranza che possa essere la fiammella per qualche cosa.

Nella tua produzione è qualcosa che arricchisce un po’ il panorama…

Fino a quel momento rimango molto introspettivo, senza osare una cosa così.

Questa è una delle prime canzoni sociali, ho detto, che ho scritto. E io non sono sociale; sono sociale nel momento in cui credi sia importante per l’individuo per arricchire la società. Io ho sempre creduto in questo.

Sì, forse in questa canzone il referente è un ‘noi’…

Sì, perché c’è l’idea di gruppo che si stava risviluppando, con Francesca c’era un rapporto per cui era l’assemblaggio che stava funzionando particolarmente, ed era un po’ di tempo che la cosa andava così, due anni, quindi iniziava ad avere il peso di un gruppo. Con tutti i musicisti cerco un po’ di avere quell’atteggiamento, nei limiti del ‘Paolo Saporiti cantautore’ cerco di sviluppare una parità: anche sul palco lo vedi, non sono io davanti e il musicista dietro, cerco di stare sullo stesso fronte, tanto che il musicista prende pieno spazio nei momenti di solo, poi ho anche la fortuna di beccare questi musicisti che riescono ad essere solisti mentre stanno accompagnando me, non è gente che sta facendo il servizietto, la cosa bellissima è questa.

Mi ha colpito quando ti ho visto a Osnago, quanto rispetto avevi riguardo a chi stavi ascoltando, per il lavoro di un altro e una complessità che ci sta dietro. Altre volte hai detto “per me è un piacere aprire un concerto di…”, purtroppo non mi sembra una cosa scontata, non si fa caso a questa cura…

Ma guarda che questo è proprio il mondo di questa cosa (ride), è fatto da persone non abituate a rispettare né sé stesse né gli altri, fa parte del discorso di prima del concerto. È rispetto dire che sei su un palcoscenico e non fingi, è rispetto per te stesso e per gli altri. Io l’altro giorno ho suonato a Napoli e ho visto gente che fa quell’errore lì: siccome è scomodo fare il cantautore triste ed intimista, allora deve arrivare quello che "aléé…adesso si balla". Perché? La gente non è abituata ad abitarsi, il teatro questo lo insegna tanto. Renzo Casali, che è il mio insegnante di teatro della Comuna Baires, la prima cosa che insegna, a livello teatrale, ma secondo me a livello umano, è proprio attraverso l’improvvisazione, entrare in uno spazio con una richiesta che tu hai rispetto a quello spazio e alla persona che abita quello spazio, e avere comunque rispetto alla tua esigenza di piccolo uomo, di essere ascoltato, di chiedere qualche cosa, di non chiederlo, comunque avere l’attenzione a 360° su quello che incontri li dentro, su quello che è lo spazio e su quello che è la persona, quello che prova lui; quindi tu nonostante abbia una carica altissima per chiedere qualche cosa, che sia attenzione o altro, prima affronti dov’è quella persona, poi fai la tua domanda. Questa cosa qua è una roba che se facessero teatro in quei termini alle elementari, alle medie, al liceo, secondo me cambieresti l’umanità, perché a quel punto c’è una forma di rispetto in ogni cosa

Cantautore milanese, la maggior parte dei concerti in Italia tranne la parentesi in Irlanda,come mai l’inglese?

È un riflesso fondamentalmente. Ascolto musica americana da quando ho due anni, se non prima, forse dalla pancia, e non ho dentro di me i suoni italiani. “Gelo” (NdA la dodicesima e ultima traccia di ‘ALONE’ e l’unica in italiano incisa finora da Paolo) è un pezzo in italiano, però è come se fosse un inglese o un americano che canta in italiano, non hai una sensazione di italianità vera e propria, ma non è fastidio verso l’Italia. Il mio corpo nasce da quella musica là. Se io adesso mi metto a improvvisare faccio dei suoni che sono americani. Poi invece capita la situazione in cui esce l’italiano strettamente perché ho una cosa molto quadrata, molto diretta da dire, e allora c’è quell’esigenza lì che prevede la comprensione istantanea da parte di chi può ascoltare, e allora c’è l’italiano. Ma di base non voglio che uno capisca mentre io sto cantando. Mentre io sto cantando al concerto non voglio che la gente capisca le parole che sto dicendo in quel momento, preferisco che, come è successo l’altro giorno, Dario Ballantini che ha detto ‘non ho bisogno di capire quello che dice lui, sono già dentro a quelle emozioni’. Per me questo è un successo, cioè non è un problema che uno mi dica che non capisce l’inglese o perché lo pronuncio male altrimenti, e fa parte del discorso di prima, vuol dire non avere ancora capito che la vita è fatta di emozioni e di aver voglia di condividere quelle emozioni o no. La parola è importantissima, però può essere un secondo momento di riflessione rispetto a quella che può essere una performance live di un musicista.

Ti sei ricreduto sulla tecnologia ‘moderna’, anni fa mi ricordo che mi avevi accennato quanto eri restio nei suoi confronti
Ho scoperto il valore di internet e della facilitazione che ti crea per un progetto: essere lui a Roma, io a Milano, gli mando il brano, lui lo riceve la mattina, lo ascolta, registra, me lo rimanda la sera e io glielo rimando il giorno dopo, e fare un disco così è una roba pazzesca. Però siamo comunque legati a certe cose, e il disco è registrato su bobina.
Dove si può trovare il tuo disco a Milano?
Adesso Feltrinelli, Fnac, Buscemi, insomma tutti i negozi, almeno quelli di musica.
Giovedì 4 febbraio 2010, Milano

www.paolosaporiti.com/

www.myspace.com/paolosaporiti

Alessandro Manca

21 marzo 2010

IN MORTE DI JEAN FERRAT, VOCE DELLA FRANCIA UNIVERSALE


Jean Ferrat, pseudonimo con cui era conosciuto al pubblico il cantautore francese Jean Tenenbaum, si è spento sabato 13 marzo scorso all’età di 79 anni. L’emozione che ha percorso la Francia alla diffuzione della notizia è stata forte, testimoniata dalla grande partecipazione popolare alle esequie tenutesi nel villaggio di Antraigues-sur-Volane, in Ardeche, dalla diretta televisiva accordata all’evento e dall’unanime cordoglio espresso dal mondo delle arti e della musica, come da quello della politica. La cerimonia si è svolta in forma civile, essenziale e composta, secondo i desideri dello stesso Ferrat, che nella canzone Mon amour sauvage (Amore mio selvaggio) aveva rivendicato in versi il proprio ateismo: “Proclama forte il tuo ateismo / E campione dell’Umanesimo / La venuta dell’uomo re”.

Nato nel 1930 nella regione parigina, figlio di un ebreo immigrato dal Caucaso, Ferrat vive nell’infanzia il dramma della deportazione e della morte del padre nel campo di sterminio di Auschwitz. Lui stesso scampa alla deportazione grazie all’aiuto di una famiglia di militanti comunisti.
Affacciatosi al panorama musicale sin dagli anni ’50, comincia il suo percorso artistico musicando le poesie di Louis Aragon, ricevendo l’apprezzamento dello stesso poeta, che dichiarerà di avere l’impressione di sentire le proprie composizioni rivivere e assumere una dimensione nuova. L’omaggio costante alla poesia accompagnerà tutta la traiettoria artistica di Ferrat, portandolo a cantare oltre che i versi di Aragon, quelli di poeti francesi e stranieri quali Lorca e Prévert.
Ed è d’altra parte questo primo impegno nel congiungere la canzone con la poesia a dare il senso di tutto il complesso di una poetica impegnata e semplice, colta e popolare, capace di congiungere in un’unica vibrazione emotiva impegno civile, amore e desiderio di cambiare, memoria e ricerca.
Tra i primi testi di sua composizione si trova Nuit et Bruillard (Notte e Nebbia), dedicata alle persecuzioni naziste che tanto duramente avevano marcato i primi anni di vita dell’artista. Tra i versi di questa canzone, con la sua crudezza e la sua carica polemica, prende forma una poetica intansigente, un linguaggio militante che non verrà mai meno. E’ in quel linguaggio, nella chiarezza delle opinioni e delle scelte civili e morali, che si esprime uno dei motivi fondamentali del percorso di Ferrat, lo stesso che ispirerà tante delle sue più di duecento canzoni. Tra queste, Ma France (La mia Francia) assume quasi la funzione di manifesto: “Quella che paga sempre i vostri crimini ed errori / Riempiendo la Storia e le sue fosse comuni / Quella che canto per sempre Quella dei lavoratori: / La mia Francia”.

Compagno di strada fino all’ultimo del Partito Comunista Francese (nelle settimane precendenti la morte si era speso per la campagna elettorale del Front de Gauche, coalizione guidata dal PCF, nelle elezioni regionali), Ferrat non vi aderirà mai formalmente, mantenendo costantemente un profilo critico, talvolta sferzante, non senza venire influenzato dalle contraddizioni e dalle trasformazioni della linea del partito negli ultimi decenni.
All’ impegno sociale e politico, l’opera di Ferrat ha saputo intrecciare tematiche differenti. L’attenzione per il microcosmo di ambizioni e stenti della gente semplice, dagli emigranti di La montagne, che racconta l’esodo dalle campagne alle città dei contadini di Francia (“Lasciano uno a uno il paese / Per andare a guadagnarsi da vivere / Lontano dalla terra in cui sono nati…”), agli amori nei sobborghi industriali di Parigi di Ma môme (La mia bimba): “In una banilieue sovrappopolata / Abitiamo in un ammobiliato … Ma la mia ragazza ha venticinque anni / E sono convinto che la Santa Vergine / Delle chiese / Non abbia più amore negli occhi / E che non sorrida con più grazia…”.
Sull’esempio di Aragon, l’amore entra nella poetica di Ferrat non come un elemento separato dalla passione civile e politica, ma a costituire un insieme che si completa e si giustifica nella compenetrazione tra desiderio dell’assoluto e volontà di cambiamento. Le passioni intime danno dignità all’uomo, la lotta civile gli restituisce la speranza.

Chi scrive ha trovato in Ferrat uno dei primi nessi con la Francia che negli anni ha imparato ad amare, la Francia universale della lotta per la vita e della ricerca individuale e collettiva della libertà e della dignità. Nel salutarne la memoria, è nostro desiderio dedicargli alcuni versi di Aragon da lui stesso musicati, ispirati alla figura del poeta e romanziere Francis Carco: “Dì cos’hai fatto dei giorni andati / Della tua giovinezza e di te stesso / Delle tue mani piene di poesia / Che tremavano all’inizio della notte ?”

Alessio Arena

5 marzo 2010

Da riascoltare per la prima volta - Prima puntata


Per cancellare l'aura polverosa che aleggia intorno alla musica classica e all'opera lirica...

LA CARMEN DI BIZET

Diecimila richieste per duemila posti disponibili: così afferma Stéphane Lissner, sovrintendente della Scala, davanti alle telecamere di rai3. Il 4 dicembre il teatro d’opera milanese apre le sue porte agli under 30, offrendo un biglietto a soli 10 euro per assistere all’anteprima di “Carmen” di Bizet, opera che inaugura la stagione 2009/2010. Subito esaurite le disponibilità.
Per il secondo anno consecutivo si è assistito ad un grande battage pubblicitario intorno all’anteprima della stagione scaligera: Fabio Fazio dedica all’evento addirittura una puntata speciale di “Che tempo che fa”, in prima serata.
Ci si potrebbe chiedere come mai l’opera susciti oggi tanto interesse e come mai tanti giovani hanno scelto di assistere ad uno spettacolo di quasi 4 ore e per di più in lingua francese, con musiche di un compositore morto più di un secolo fa. L’opera lirica non è un genere noioso, difficile, che non interessa più nessuno? Eppure in teatro il 4 dicembre si vive un’atmosfera festosa ed elettrica; ragazzi che entrano per la prima volta in un teatro d’opera mostrano un genuino e caloroso entusiasmo, si susseguono applausi scroscianti e un giovane esplode in un caloroso: “grazie Lissner”.

Guidati da un direttore esperto e di fama mondiale (Daniel Barenboim), sulla scena vediamo cantanti giovani, alcuni addirittura debuttanti. La musica fin dall’inizio si rivela vivace e frizzante, ma di colpo sa farsi tesa e drammatica. La vicenda, tratta da una novella di Merimée, racconta la storia passionale e tormentata dell’amore tra il brigadiere don José e l’ammaliante zingara Carmen. Questa spinge l’uomo a venir meno ai doveri della sua professione, all’amore casto per Micaela e per la madre e ad entrare persino in combutta con dei contrabbandieri. Don José viene trascinato nell’abisso di una passione sfrenata, fino a quando la gelosia morbosa nei confronti di Carmen non ha il sopravvento, conducendolo alla tragedia finale: l’omicidio di Carmen.
La vicenda si svolge originariamente a Siviglia; la regista Emma Dante sceglie di trasporla nella Sicilia di inizio Novecento. Scelta comprensibile: il senso dell’onore, il rispetto della madre (e della famiglia), la gelosia, il tradimento e l’omicidio per amore sono elementi che si prestano a tale rilettura. Il mondo irregolare degli zingari e di Carmen si contrappone al mondo di Micaela e della madre di don José, rappresentato dalla grande abbondanza di crocifissi nei fondali della scenografia. La regia, accusata di essere avanguardistica, sembra in realtà gradevole e funzionale; i momenti di forte impatto sono in realtà pochi.
Per molti giovani l’opera lirica è una scoperta: un genere difficilmente classificabile, che unisce in un unico spettacolo musica, dramma e scena. Così negli intervalli si sentono dei commenti “è come un film”. Eppure non è un film e non è uno spettacolo di prosa; qualcuno dei ragazzi lo apparenta al musical.
Differisce da altri generi per il ruolo drammaturgico assunto dalla musica, che occupa una parte da protagonista, accompagnando e al tempo stesso suggerendo, descrivendo e suscitando le emozioni che attraversano il palcoscenico.

Noiosa l’opera? Non si direbbe. Un genere poco noto per molti dei ragazzi che una volta scoperto stupisce, meraviglia, abbaglia. Leggendo le pagine dei giornali dei giorni seguenti si legge di due prime: quella del 4 dicembre, piena di giovani e di entusiasmo, e quella “ufficiale” del 7 dicembre, con le critiche dei loggionisti che fischiano lo spettacolo.
Si parla di crisi del teatro e di crisi del teatro d’opera. Ma guardando quest’anteprima, pensando ai giovani in coda per ore pur di procurarsi un biglietto, non viene da pensare ad una crisi. Viene allora da chiedersi se i teatri non farebbero meglio ad investire di più sui giovani, magari con offerte di biglietti a prezzi più accessibili. Sperando che iniziative come questa dimostrino che quello sui giovani sarebbe un buon investimento.
Enrico Guerini

3 febbraio 2010

I BEATLES IN HD


Con un po' di anni di ritardo, possiamo dare ragione a John Lennon, che nel marzo del 1966 disse che i Beatles erano "more popular than Jesus now". Utilizzando il nuovo giochino di google, "google trands", il giornalista Tim Jonze (The Guardian) é riuscito ad assolvere il buon vecchio John dalla caterva di accuse che si vide piovere addosso dopo quella mitica affermazione. Ebbene sí, dai grafici di google si vede chiaramente che il 9-9-09 i fab four sono stati piú cercati, cliccati e nominati nelle pagine web rispetto a Gesú Cristo. E non perché si siano dati anche loro alla resurrezione, ma quasi. L' avvenimento epocale in questione é la versione rimasterizzata della loro Opera Omnia che ha di recente visto la luce del sole. Di fronte a cotanto evento, accompagnato dal lancio del videogioco "RockBand", molti si sono chiesti: ma perché? A noi piacciono i Beatles cosí come li abbiamo sempre ascoltati, con quei suoni gracchianti e il basso che ogni tanto scompare, come se il suono provenisse da vecchi e polverosi vinili. Senza ritornare ancora una volta sulla controversa questione, scatenata durante la decada punk londinese(invidia?), dell' effettiva genialitá musicale dei quattro o sul loro essere un volgarotto ma perfettamente riuscito gioiello del marketing, un fatto resta: nella storia della musica nessuno ha mai raggiunto un successo come il loro. Nessuno soprattutto é riuscito a creare tanto e con tale capacità di sviluppo, nel giro di soli otto anni (dal giugno 1962 all' aprile '70). Insomma, una versione musicalmente rispolverata (oltre che ricca di bootleg e foto inedite) se la meritavano anche loro.
Certo fa pensare il fatto che la EMI proponga proprio adesso questa pubblicazione, dopo che Radiohead, Rolling Stones e Paul McCartney l' hanno abbandonata causando enormi perdite e conseguenti tagli. Da parte sua la casa discografica assicura cha al progetto lavorava già da quattro anni un esercito di gioiellieri del suono, che hanno digitalizzato e ripulito ogni singola nota uscita dagli strumenti di John, Paul, George e Ringo.

Ma ora la domanda da un milione di dollari: noi esseri umani noteremo la differenza? Nonostante lo scetticismo che pervadeva chi scrive prima di ascoltare i brani, alla fine la risposta é si, abbastanza. Si nota una maggior presenza degli strumenti, c'é decisamente piú profonditá nelle registrazioni, sembra si riesca a percepire il battito originale che stava alla base di ogni pezzo. Ma attenzione, perché tutto questo puó risultare sconcertante. In alcuni casi sembra si sia spostato il centro di gravitá della canzone, e il risultato puó lasciare un po' ipnotizzati, per non dire inquietati. Insomma, immaginatevi di vedere la vecchia casa della nonna, quella che é sempre stata lí con i suoi libri coperti di polvere e i mobili che profumano di anteguerra, totalmente ripulita e con dei nuovi mobili Ikea. O di vedere Charlie Chaplin a colori. L'effetto é piú o meno lo stesso.

Detto questo,il pezzo forte della pubblicazione é il box da collezione: quattordici cd e 1 dvd, tutto in versione stereo, a 280 euro, oppure i tredici cd limited edition a 330 euro.
Comprandolo su internet, i prezzi si fanno piú abbordabili: su Amazon.com si trovano entrambe i cofanetti a "solo" 400 dollari, e il prezzo piú basso per il singolo box stereo é sempre quello di Amazon, che dalla sua pagina inglese (Amazon.co.uk) lo mette in vendita a 170 sterline.

Per pignoleria e dovere di cronaca, va sottolineato che non é vero che qui si trova "tutto ció che hanno registrato i Beatles": non ci sono le sessioni della BBC e i Live, ma a giustificarne il prezzo restano duecentodiciassette ottime ragioni. Inoltre va considerato che siamo davanti ad un piccolo miracolo non solo musicale ma anche umano, visti i pessimi rapporti tra i membri vivi e i parenti dei due defunti.
La lunga storia dei Beatles puó cosí seguire la sua strada, immune al tempo, alle critiche, alle crisi.

Daniele Grasso

10 luglio 2009

A Storm is Goin’ To Come

Chi vi scrive ha atteso il nuovo album di Piers Faccini, un girovago apolide sconosciuto al grande circuito della musica contemporanea che conta, per mesi. Tanti mesi, anzi. Adesso che ci pensa, chi vi scrive ha atteso questo nuovo album per più di un anno. Il disco si chiama Two Grains Of Sand ed è bellissimo. Valutazione partigiana questa, e poco precisa e poco pertinente per chi critica musica o arte. Comunque sia, la scintilla tra lo scrivente e Piers Faccini era nata, ad arte, in occasione dell’ultimo bellissimo (termini imprecisi ritornano) concerto milanese di Ben Harper, nel 2007. Ormai, una vita fa. Piers aveva aperto il concerto con un set molto minimal. Quasi timido. In contrapposizione alla consumata vivacità sprezzante che Super Ben avrebbe poco dopo vomitato su più di dieci mila rock fan in delirio.

Il giorno dopo chi vi scrive aveva un’intervista col Faccini, quel tizio, sconosciuto al pubblico e massacrato da Ben solo poche ore prima. L’hotel, distinto e pulito in zona centrale profumava di brioche e di quotidiani non ancora aperti. “Il signor Harper non si è ancora fatto vedere”, aveva detto il cameriere con una divisa malinconica. “C’è qui però un signore della band”. Quel “signore della band”, faccia riposata e barba di due giorni, era Piers. Sorridente e affabile stava discutendo fitto con qualcuno. Uno zaino da viaggiatore tra le gambe e una tazza di cappuccio nella destra. Piers, in quella circostanza, convinse chi vi scrive di alcune cose: 1)lui, Piers, è uno dei più grandi cantautori contemporanei 2) “la world music non esiste” 3) si può inventare solo l’etichetta da mettere su un prodotto, ma il prodotto si inventa da solo.
Quel giorno Piers parlò di tantissime cose. Mi disse di quando sceglie di dipingere, invece di suonare, e della necessità della solitudine e del raccoglimento in funzione della creazione. Mi raccontò di come aveva conosciuto la musica tradizionale africana, della sua passione per Skip James, della scoperta di Ali Farka Tourè. Mi confidò di non sentire come “sua” nessuna casa. Lui, padre italiano, madre francese, cresciuto tra Parigi e Londra, con avi in mezza Europa.
Poco dopo aver rilasciato quest’intervista Piers è partito per seguire il tour mondiale di Ben Harper. Ha suonato e suonato, da NYC a Melbourne sino alla Francia e (grazie alla Natura) anche in Italia.

Qualche settimana fa Piers è tornato nel nostro paese. Senza Ben, ma con un discreto tesoro di nuove canzoni nel suo zaino, ha rilasciato nuove interviste e presentato I Due Grani di Sabbia, id est, il nuovo album. Sono canzoni molto poetiche, e sanno tutte d’Africa e d’Europa e di viaggio. Sono bellissime. Valutazioni ancora una volta precise e pertinenti.

Mi permetto di consigliare a tutti gli interessati, infine, la bella intervista a Piers che l’amica Silvia Pelizzon ha realizzato per la rivista Jam in uscita a Maggio. Chi vi scrive si rammarica di non esser riuscito a farlo in maniera oggettiva. Questo scritto è forse considerabile alla stregua di qualche “appunto partigiano”.

Davide Zucchi

5 dicembre 2008

Rokia Traorè: la sirena del Mali



Delle sirene, quegli splendidi e pericolosi animali mitologici che la tradizione ha tramandato sino ai giorni nostri, la cantante e musicista maliana Rokia Traorè ha pressoché tutto. In primis, una bellezza fisica stordente, che par celare un segreto inafferrabile, nella sua completezza. Delle sirene, Rokia ha anche una voce divina che, -c’è da scommetterci- sarebbe capace di far naufragare anche i moderni marinai. Scherzi a parte, Rokia è davvero un’artista con una marcia in più, perché non si limita a proporre al pubblico occidentale la musica cara alla propria tradizione. A differenza di quanto faceva, ad esempio, Ali Farka Tourè, il più grande e rimpianto chitarrista blues africano (che peraltro ha anche il merito di aver scoperto la Traorè), Rokia non mostra interesse verso operazioni di recupero, propriamente filologiche. Alla nostra non è sufficiente mettere insieme un paio di tamburi tindè e accordare la propria voce agli strumenti a corda tipici del Mali. La nostra sirena fa molto di più. La nostra sirena inventa linguaggi, incrocia generi, fa sintesi. Per dirla meglio: Rokia ha vissuto e continua a vivere il fenomeno della globalizzazione (non solo in ambito musicale), in maniera tutt’altro che passiva.

Per lei, ascoltare Machine Gun di Hendrix o Jammin’ di Bob Marley non significa subire un vero e proprio e choc, come era accaduto, per esempio, in un paese come il nostro tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Per la giovane e sensibile artista maliana, invece, ascoltare Hendrix o Marley, (ovviamente i due nomi hanno qui una funzione puramente metonimica) non è un’assoluta scoperta. Tale evento, piuttosto, fa subito scattare in lei un meccanismo memorativo di riconoscimento. Si materializza così un filo rosso che sprofonda le radici nell’infinito e ancestrale tempo dell’Africa. Un’Africa che qui non può che finire col coincidere con quella “Grande Madre” da cui tutto ha avuto inizio. Si è andati lontani, forse troppo. Torniamo alla nostra umile presentazione di Rokia Traorè. Si diceva giustamente del rapporto eterodosso che lega Rokia alla tradizione musicale del Mali, perché è innegabile che la ricerca che propone parta inequivocabilmente dai suoni di quella storia. Rokia non rinnega nemmeno per un attimo quei quattro quarti che anzi elegge a veri e propri pilastri della sua musica. Semplicemente, la Traorè si è accorta dello straordinario viaggio che il blues e le sue successive modificazioni genetiche hanno compiuto in giro per il mondo. La nostra ha studiato con commovente umiltà e sincera passione per la conoscenza la storia della musica afro-americana ed ora non dimostra di conoscere a menadito i frutti della pianta del blues. Nei suoi dischi sembra spesso voler ripercorrere l’itinerario che la cosiddetta “musica del diavolo” ha effettuato, cullato dalle limacciose del Mississipi: dalle gigantesche piantagioni dell’Alabama o della Georgia, alle metropoli di Memphis e Chicago.

E’ solo tenendo a mente tutto questo che si comprende la profonda passione, o meglio, la quasi venerazione che Rokia nutre per Jimi Hendrix. E’ solo a questo punto che si intuisce la profonda importanza ideologica che si cela dietro alla scelte di cantare servendosi degli idiomi più diversi. Del resto né l’inglese, né il francese, né l’africano, né altre lingue, sono la Lingua del Mondo. È piuttosto dal loro incontro che può nascere un frutto artistico universalmente godibile. Un frutto che ogni paio di orecchie declinerà in maniera diversa e che forse finanche capirà in maniera diversa. Ma tutte queste diversità non sono poi così importanti, sembra sussurrarci implicitamente Rokia, che ormai vive da anni in Francia, dove produce e incide i propri dischi. Piuttosto, tali diversità possono divenire non solo importanti, ma anche funzionali nella prospettiva di un arduo ma fascinoso superamento delle stesse.

La musica di Rokia, è una musica delle minoranze, una musica di riflusso. Una musica che il miope orgoglio autoriale non riesce a scalfire. Questa musica restituisce alla collettività del popolo africano, (in questo senso più che mai ampliato) tutto quello che in secoli di vite, gioie e patimenti è stato partorito. Nel canto della splendida Rokia c’è dunque il sublimato sostrato culturale di un continente intero. Il suo lato tragico, il suo lato comico e la loro sintesi etica ed estetica Questa sintesi altro non è che la consapevolezza dell’esistenza di una “ricchezza collettiva”. Insomma, le diversità sono, secondo Rokia, motivo di imperdibile ricchezza. Nella sua musica, che ci piace presentare come alternativa al montaliano “male di vivere”, così, non possono non essere intraviste queste splendide parole dello studioso Albert Jachard: “l’altro, come individuo o come gruppo, è prezioso nella misura in cui è dissimile”. Rokia è dunque una sirena moderna, la cui funzione è diametralmente opposta a quella che la mitologia tradizionale affidava a questi esseri. Più che far perdere il senno e la via, la Traorè sembra volerci aiutare ad orientarci. Dapprima oscura e poi luminosa, come una stella vespertina.

Davide Zucchi

2 gennaio 2008

CONVERSANDO COI MARTA SUI TUBI



La location non poteva essere diversa. Piccolo palco, tetto basso, dietro le quinte fumoso. I Marta Sui Tubi, band indipendente allergica ad ogni classificazione, sono una piccola pietra preziosa densa di fascino. La Casa 139 di Via Ripamonti ha ospitato per diverse notti le scorribande del trio siciliano, ma questa volta tocca solo al chitarrista Carmelo Pipitone accompagnare le melodie di un altro performer indipendente, il cantautore Moltheni. A metà fra il pubblico e il bancone del bar la voce dei Marta, Giovanni Gulino, ha ascoltato bevendo. E’ molto diverso il sound di Moltheni rispetto a quello dei Marta Sui Tubi. "Certamente – dice Carmelo – suonare con lui è decisamente meno impegnativo. Si tratta di stili completamente diversi."
E difatti l’energia degli MST emerge da ogni nota. L’ultimo album, "C’è gente che deve dormire", sprigiona intensità anche dai brani apparentemente meno lambiccati. Il virtuosismo di chitarra e lingua sembra essere il filo rosso della produzione della band, nata e cresciuta nell’entroterra siculo, in seguito forgiatasi fra Bologna e Milano.


La vena ironica e scapestrata dei testi non è artefatta, e l’intervista, che procede fra tante freddure e qualche nonsense, lo dimostra.




All’appello manca il batterista Ivan Paolini. Dove l’avete lasciato?
"Non sappiamo. Forse dorme oppure è morto. Di solito resuscita come Nosferatu, però ultimamente non era messo bene. Un po’ troppo pallido. Magari fra due o tre mesi saremo costretti a cambiare batterista."



Allora sbrigatevi a pubblicare un nuovo album!
"In effetti è nei programmi. Ci stiamo già lavorando".



Come nasce un vostro brano?
"Per organizzazione aziendale – spiega Giovanni – io ho l’appalto dei testi e Carmelo della musica. Tuttavia, periodicamente, qualcosa si può accavallare. Si, ogni tanto ci accavalliamo…metaforicamente parlando. Prima viene fuori un giro di chitarra, poi io scrivo le parole con molta fatica e sofferenza. A volte possono passare anni prima che un brano venga ultimato".


"E infatti – interviene Carmelo – il nostro primo album Muscoli e Dei è stato scritto nel ‘75".



È terminato un 2007 intenso per i MST, caratterizzato da esibizioni in giro per l’Italia. Le prossime tappe del trio marsalese saranno Festivalbar e San Remo?
"Abbiamo fatto tanti festival suonando pure sopra un bar. Vale lo stesso? Per quanto riguarda San Remo il problema è che non siamo cattolici. Però tentiamo quotidianamente di avvicinarci alla dottrina."



Nonostante molti vi definiscano ancora gruppo "emergente" voi suonate da un bel po’ insieme…
"Infatti "emergente" è un termine del cazzo! In Italia ti definiscono così solo perché non entri in classifica, ma ciò non significa che non suoni da tanto tempo. Del resto, si sa, questo è un Paese provinciale. Al massimo siamo emergenti perché stiamo ancora a galla!"



Cosa pensate quando notate che il main stream discografico è zeppo di musica molto discutibile?
"In realtà credo sia giusto che ognuno sfrutti i propri contatti. Del resto la qualità non è oggettiva e il giudizio finale spetta sempre al pubblico – intanto Carmelo si è allontanato accendendo quella che, in apparenza, sembra essere una lunga sigaretta – Oggi la scena italiana è piena di buona musica, basta saperla cercare. E’ sufficiente citare Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Teatro Degli Orrori, Disco Drive. L’essere o meno indipendente ha, in fondo, poco significato. L’importante è fare della musica che piaccia. Noi ascoltiamo anche autori del main stream: apprezziamo brani dei Black Eyed Pease o di Fabri Fibra."



L’anno scorso vi siete esibiti in condizioni molto singolari: dentro un igloo, in montagna, a migliaia di metri d’altezza. Come è nata l’idea?
"L’idea è della nostra agenzia di promozione. Si trattava di una vera e propria gabbia di ghiaccio ed è stato molto difficile suonare. Tuttavia, ci siamo divertiti parecchio. Inoltre, il concerto sul ghiaccio sarà documentato nel nostro ultimo DVD, prossimo all’uscita nei negozi. Una parte verrà dedicata ai live del tour, un’altra ai video delle canzoni ed una proprio all’esibizione sulla neve. Ed in più sarà Tamburi Usati, la nuova casa discografica fondata direttamente da noi, a pubblicare il DVD".




L’originalità è un vostro marchio di fabbrica. I testi, molto particolari, delle canzoni spesso resistono anche oltre la musica. Giovanni, ti verrà mai in mente di pubblicare un libro?
"In effetti io ho sempre scritto. Molte cose che penso non diventano canzoni e restano chiuse nel cassetto. Tuttavia non le apprezzo molto, anche perché sono decisamente critico rispetto a quello che faccio. Chissà, magari un giorno... Del resto, per quanto scrivere abbia sempre fatto parte delle mie fantasie, ora mi sento decisamente più musicista che scrittore.



Ultima domanda di banalissimo taglio: cosa consigliereste ad un giovane che nella vita intende fare il musicista?
"Deve solo comporre belle canzoni. L’ultima parola spetta al pubblico. E’ necessario chiedersi sempre: la gente ha bisogno di quello che sto facendo? Sono sufficientemente originale? E’ troppo facile innamorarsi delle cose che si fanno, ma a quel punto si tratta di una sorta di masturbazione. Bisogna produrre delle idee che diventino di tutti. Questo è il senso dell’artista.



Gregorio Romeo

22 dicembre 2007

MUSICA DAL MONDO: IL CASO TINARIWEN

Sono stati ribelli Tuareg, ma oggi hanno sostituito il Kalashnikov con la chitarra. Vengono dal Mali e sono amati alla follia da Robert Plant.

Assistere ad un loro concerto è un’esperienza folgorante. Il bassista suona tutto avvolto in un turbante che lascia scoperti solo gli occhi. La corista si muove ritmicamente, cantando e gridando con voce lamentosa e cristallina. Il cantante Ibrahim Ag Alhabib indossa un velo ampio e colorato e imbraccia una Gibson Les Paul. Se hai la fortuna di vederli, i Tinariwen, non te li dimentichi facilmente.
La loro musica, è un atto (l’ultimo solo in ordine cronologico) di rivolta: nel 1963, infatti, i Tuareg del Mali si ribellarono al potere del Nuovo Governo Indipendente che si era sostituito all’autorità Francese. La rivolta, repressa nel sangue, fu seguita da una terribile siccità che causò la fuga di migliaia di profughi, dal Mali e dal Niger verso l’Algeria e la Libia. Fu allora che le chitarre dei Tinariwen iniziarono a suonare, raccontandoci così del dolore per l’esilio. Il loro suono si eresse presto a documento di affermazione dell’esistenza Tuareg e della sua necessità di evolversi. Un’evoluzione, quella dei Tinariwen, prima di tutto musicale, (ai classici strumenti tradizionali come tamburi tindè o violino imzad vengono affiancati strumenti di derivazione occidentale, come chitarre e basso elettrico) ma anche culturale in senso più dilatato. La band, attiva dal 1979 ha infatti migliorato il tasso tecnico delle proprie esibizioni e la qualità lirica delle canzoni.

La svolta, per i nostri Tinariwen avviene circa quattro anni fa, quando decidono di partecipare al Festival au Dèsert di Essakane, vicino Timbuktu. Il loro nome ha varcato le porte del deserto, riuscendo a diffondersi anche fuori dai confini africani. Ascoltando le loro canzoni si è colpiti dalla somiglianza che queste hanno col blues, anche se non si tratta proprio delle consuete dodici battute. A parte gli ovvi richiami al blues di un altro grandissimo musicista originario del Mali come Ali Farka Tourè, i Tinariwen sembrano rievocare la musica del diavolo soprattutto nel mood, molto bluesy, appunto, e nella vocazione a costruire dei testi tesi all’espressione sociale di condivisione. Il loro motto: "Siamo ancora nomadi…ma in senso musicale" mi sembra il miglior invito all’ascolto di questi ribelli armati di chitarra. Magari in occasione di uno dei concerti che i Tinariwen terranno nel nostro paese, nel corso del mese di Luglio.

"…fratelli Tuareg abbiamo una vita sepolta ed è tutto ciò che ci unisce. Ciò che è accaduto non può essere accettato da colui che ama la sua gente. Questa verità è stata occultata e l’ignoranza ha preso il sopravvento…"

Davide Zucchi

2 marzo 2007

P.I.D.

Paul McCartney. L’ ex membro dei Beatles è da anni al centro delle chiacchiere e sempre alla ribalta. La leggenda della morte presunta del musicista è forse la più famosa “ teoria del complotto” della storia del rock. Che si voglia credervi o meno, nel corso degli anni questa diceria, che presenta non poche difficoltà e qualche evidente discrepanza, ma anche parecchi indizi intriganti, ha appassionato moltissimi ricercatori di queste chimere.

La tesi iniziò a circolare ormai un quarantennio fa. Era il 12 Ottobre 1969 ed una radio del Michigan annunciava in diretta, tramite la telefonata di un ascoltatore anonimo, la morte del cantante. La voce all’altro capo della cornetta rivela al mondo che Paul sarebbe morto nel 1966 in un incidente stradale e che il resto della Band e il loro manager, una volta appresa la funesta notizia ed avere organizzato un anonimo funerale, in fretta e furia l’avessero sostituito con un sosia, tale William Campbell, un ex poliziotto sosia di McCartney. Gola profonda vagheggiava anche alcune tesi riguardo ai repentini pentimenti degli altri Beatles, e che rosi dal senso di colpa avessero disseminato nelle copertine dei loro dischi, indizi e prove. Consigliò anche a Gibb, il conduttore radiofonico, di ascoltare i finali di alcune canzoni e di ascoltarle attentamente al contrario. La telefonata scatenò una caccia alla traccia senza precedenti. Questi ricercatori produssero tesi interessanti avvallate da numerosi indizi presenti nei dischi dei Beales dal 1965 fino al definitivo scioglimento del gruppo. I ragazzi di Liverpool da parte loro non smentirono ne confermarono la fantasiosa tesi e la cosa accrebbe i sospetti in molti ricercatori e fans. D’altraparte le prove erano sotto gli occhi di tutti. Le copertine dei loro album erano e sono piene di allusioni, riferimenti a simboli esoterici e personaggi dalla dubbia fama, come Alister Crowley, che appare sulla copertina del cd più famoso della band: “Sgt. Pepper’s Lonley Heart Club Band”. Come mai uno dei più sinistri personaggi del novecento, legato ad ambienti di esoterismo e satanismo appare sulla copertina del gruppo più famoso del momento ?. E sempre nello stesso disco, forse uno dei più importanti della storia del rock, una esplosione di suoni nuovi e diversi che mai nessuno aveva scritto e suonato, gli indizi non si sprecano. In una intervista Ringo Starr afferma che nella copertina sono ritratti numerosi personaggi che loro stimano e ammirano. Il gia citato Crowley, Edgar Allan Poe, Marlon Brando, e molti altri. Ma è innegabile che alcuni di questi presentino storie piuttosto inquietanti. Gli stessi Beatles sono raffigurati sulla copertina nella loro versione “origini” quasi a lutto , dove sembrano guardare sconsolati la composizione floreale in terra. Questi fiori sono però sospettosamente simili ad una corona funebre e i fiori in primo piano raffigurerebbero un basso, strumento di Paul, addirittura così preciso da raffigurare un basso mancino come era Mc Cartney. E ancora la testa di Paul “nuova versione” è sormontata da una mano che secondo alcuni è simbolo funebre nelle culture orientali, a cui i quattro si erano avvicinati. Ma c’è stato chi ha cercato di scavare più a fondo e guardando la copertina allo specchio, trovò nella cassa al centro la scritta 1ONE IX HE DIE" ossia 11 IX ,9 Novembre, data della presunta morte, con delle frecce che indicherebbero proprio in direzione di Mc Cartney. Ma nella copertina sono celati ancora molti inizi, come una statua di Sheeva, dea indù della morte e della distruzione, che nel retro del disco indica con un dito la canzone che dice nel testo “ Wednesday morning at 5 o’ clock”, il giorno e l’ora della morte ( La canzone è She leaving ).

La ricerca però continua in ogni copertina dei dischi e per citarne alcune:

- la copertina di “Yesterday and Today”, dove i quattro apparivano sporchi di sangue e con in mano pezzi di bambole, viene cambiata con una ancora più criptica copertina, dove Paul sta dentro ad un baule molto simile ad una cassa da morto.

- Nella copertina di Magical Mistery Tour , la parola stellata "Beatles", guardata allo specchio, sembra un numero di telefono (2317438). Leggenda voglia che negli anni ‘60 chiamando quel numero a Londra, rispondesse una voce registrata che diceva "ti stai avvicinando".

La ricerca potrebbe snodarsi ancora per ogni copertina e per parecchie canzoni, alla fine di “I’m so Tired” ( sull’album bianco) una voce al contrario, forse di Jhon Lennon sembra dire “ Paul is dead, miss him miss him”. Ma si potrebbe continuare ancora per pagine e pagine. Queste dicerie però presentano parecchie incongruenze, prima tra tutte il proseguo della carriera di Paul, autore di alcune delle più famose canzoni dei beatles, per tacere il fatto che continuasse a cantare, sia studio che live, anche dopo la sua presunta morte. Leggenda o verità? Gli stessi Beatles potrebbero avere volontariamente disseminato i loro album di indizi, creando una delle più grandi operazioni commerciali della storia. A Lennon era riconosciuto in particolare un certo humor nero: una foto degli esordi lo mostra come morto mentre gli altri lo vegliano. La leggenda del PID avrebbe quindi solamente sosituito il beatles morto. Nel 2000 è stato realizzato, in Germania, addirittura un film su questa leggenda intitolato Paul is Dead. E nel 2005 in Italia è stato realizzato persino un musical. Verità o leggenda? Che ci si voglia credere o meno è innegabile che le dicerie abbiano portato ulteriore successo ai “Fab Four”. Brillante ed irripetibile operazione commerciale?. Di certo c’è solamente che se ne parlerà ancora per anni e che a meno di qualche repentino e tardivo outing, probabilmente la verità non verrà mai a galla.

Pablo Bernocchi

17 dicembre 2006

MAN ON THE MOON

Dietro queste poche parole che non sono nemmeno una frase c’è l’imbocco di una strada che procede su tre sentieri solo apparentemente diversi. Il primo è una canzone dei R.E.M., il secondo un film di Milos Forman e l’ultimo è Andy Kaufman, quell’uomo sulla luna cui il gruppo di Micheal Stipe dedica la faccia più elegiaca di quel diamante opaco che fu “Automatic for the People” del 1992. Andy Kaufman è stato un, se non il più, geniale interprete della comicità contemporanea; morto prematuramente nel 1984 a 35 anni è stato forse l’ultimo vero interprete di quell’avanguardia vicina a Dada e Fluxus che ancora provava a sorprendere e shockare prima di far ridere. Per questo Andy malvolentieri si definiva un comico.”Io non so far ridere” era una delle sue frasi ricorrenti; basava le sue performances sull’illusione e lo sberleffo, poteva stare ore su di un palcoscenico a dormire in un sacco a pelo o a leggere per intero “Il Grande Gatsby” e infine lanciarsi in una appassionata imitazione di Elvis Presley. Kaufman faceva regolarmente scandalo con le sue iniziative, tra le più eclatanti la creazione del”Primo torneo di Wrestling Intergenere”, in cui il comico ha sfidato e sconfitto sul ring oltre 400 donne, aizzate a combattere con insulti e provocazioni sessiste; e l’interpretazione di Tony Clifton (a lungo ritenuto una persona reale e distinta da Andy) e di numerose altre maschere e travestimenti. Non era facile intravedere in quell’uomo istrionico, isterico e assolutamente irrispettoso, la persona buona che fondamentalmente era: devoto alla meditazione trascendentale e convinto della natura illusoria del mondo, dove diventa reale tutto ciò che si riesce a far credere tale.
Di questo parla appunto “Man on the Moon” dei R.E.M., di tutte quelle immagini che sono solide realtà del comune patrimonio umano ma che hanno lo stesso potenziale illusorio di Andy che canta a Las Vegas con i baffoni e si fa chiamare Tony Clifton; e che possono essere una mela che cade sulla testa di Newton o Neil Armstrong che cammina sulla luna (If You believe They Put a Man on the Moon…). Da sempre Stipe e soci sono fans di Andy e si può dire che musicalmente ne abbiano onorato l’indole cangiante ed irrequieta cambiando stile e registro da un album all’altro mantenendo comunque la loro personalità; emblematica in questo senso “Shiny Happy People” di “Out of Time”: canzone pop spensierata in superficie ma intrisa di una malinconia profonda visibile negli occhi di Mike nel videoclip. Depressione mascherata da gaiezza.
Grazie quindi a Milos Forman e chi per lui ha creato la perfetta occasione d’incontro nel suo film, terzo sentiero e unione degli altri due: biografia di Andy Kaufman superbamente interpretato da Jim Carrey con colonna sonora dei R.E.M. D’altra parte cosa meglio del cinema può raccontare di un uomo la cui ragione di vita e di arte è sempre stata l’illusione e il trucco? Il film è una trasposizione piuttosto fedele della vita del comico, dagli esordi da bambino alla morte per una rara forma di tumore polmonare, tuttavia Forman è persona intelligente e consapevole di cosa il suo mezzo può regalare a Andy e che questi avrebbe sicuramente gradito; molti quindi i ritocchi alla vita “vera” dell’artista di New York. Tra le tante la scena del funerale, dove in una chiesa affollata Andy intrattiene ancora il suo pubblico da un maxi schermo posto proprio sopra il suo feretro chiedendo ai presenti di cantare prima di congedarsi con un “Grazie e arrivederci”. Oppure la sequenza conclusiva, dove in un locale, un anno dopo la morte di Kaufman, fa la sua apparizione un personaggio incappucciato che si rivelerà essere Tony Clifton, accompagnato dagli occhi commossi, durante la sua versione sgangherata di “I Will Survive“, di chi aveva amato Andy. Tra di loro c’è anche Bob Zmuda, suo amico e collaboaratore ma soprattutto interprete di Tony alternandosi a Kaufman, che compare per un istante in una carrellata sui volti del pubblico proprio mentre noi spettatori siamo convinti che ci sia lui su quel palco. Questo l’omaggio finale di Milos Forman al re dell’illusione, personale tributo offerto dal cinema, arte suprema del trucco e dell’inganno, che ci regala ancora qualche istante di Andy.

Nicola Spagnuolo

11 dicembre 2006

THE DEVIL ON MY ROAD

In the seventh hour, in the seventh day… Le radici sono gelosamente conservate nell’Africa nera. Quella povera e disperata. Lì nascono bambini senza futuro. Già sieropositivi. Già condannati. Eppure i figli di quest’Africa non sono poi così diversi dai loro antenati ridotti in schiavitù e condotti a forza fin nelle Americhe. Se dovessero chiedermi di spiegare cosa sia il blues, di rappresentarlo, seppur in modo spannometrico, andrei con molta semplicità alla ricerca di una fotografia di un bimbo africano. Sceglierei un primo piano. Gli occhioni pronti ad abbracciare tutto intorno. Il vuoto. La desolazione. Tutto ciò mi pare in vero stridente. Intendo dire, associare un genere musicale, quindi un qualcosa di molto vicino ad un’idea generica di svago e divertimento, con la più grande tragedia umana a noi contemporanea, può sembrare strampalato. Tanto più se si riflette sul fatto che la gran parte della musica che ascoltiamo in questo nostro occidente globalizzante deriva in ultima analisi dall’Africa. Rock, Jazz, Metal e vorrei dire musica elettronica non sono che i frutti della medesima pianta. È il blues. Un genere musicale nato negli stati meridionali degli Stati Uniti, con una lunga fase di gestazione, individuabile tra il 18^ secolo e gli inizi del 900. Qui centinaia di migliaia di uomini e donne di origine africana vivevano in condizioni di schiavitù. Unica concessione dei bianchi landowners il canto, utilizzato per accompagnare il lavoro. Il trascorrere dei decenni intanto contribuiva a migliorare, anche se con mille ritrosie e rappresaglie dei bianchi proprietari terrieri, la condizione degli schiavi. Il primo barlume di speranza sembrò poter giungere dalla fede cattolica. I canti di lavoro, detti shouters, filtrati da ideologia “sacra”, e venuti a contatto con la musica eurocolta di matrice bianca diedero vita al gospel. Il blues rimase invece legato ad una matrice più terrena. Accade spesso, addirittura, di imbattersi in brani blues di argomento scabroso, come l’amore erotico, l’alcool, l’oscuro simbolismo o la violenza. I musicologi spiegano questa tendenza come una naturale conseguenza “conservativa” all’imposizione della religione cattolica. La malinconia per la casa perduta, la solitudine, l’abbandono, la tristezza e il nichilismo si ergono a presenza costante e caratterizzante dell’intero genere. Angoscia, timori, pene d’amore. Argomenti che hanno trattato tutti i bluesmen passati alla storia, da Robert Johnson, che secondo la leggenda vendette l’anima al diavolo in cambio del talento, a Skip James. Da Muddy Waters, che ha elettrificato il blues, dandogli una dimensione più urbana e moderna a John Lee Hooker (che ha recitato la parte di sé stesso nel film Blues Brothers). Gli anni 60 furono una vera e propria riscoperta del blues. Alcune rockstar, come Jimi Hendrix, Janis Joplin o Eric Clapton coronarono il loro sogno di suonare coi vecchi maestri blues del Delta del Mississipi, dopo aver tratto ben più di qualche ispirazione. Tutto l’occidente beneficia, almeno musicalmente, dell’eredità del blues e, per estensione, dell’Africa intera. Forse l’argomento “musicale” non è quello più forte da utilizzare per convincere un potenziale interlocutore della necessità di mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi africani, ma può, di certo, aiutare.

Davide Zucchi

7 dicembre 2006

AlLIBIA' - VA TUTTO BENE

Gli Alibìa, già largamente conosciuti nell'universo indipendente italiano, presentano l' EP “Va tutto bene” -composto da cinque canzoni- che fa da apripista al secondo album “Tra tutto e niente” che verrà lanciato a gennaio 2007 e che è stato prodotto con Giacomo Fiorenza (Yuppie Flu, Moltheni, Benvegnù, Parente, Giardini di Mirò, Offlaga Disco Pax) . Come nello stile della band anche questo lavoro presenta intrecci vocali ed elettronici con l'uso di loop e synth. Se l'album seguirà la stessa scia di questo EP, allora siamo di fronte ad un gran bel lavoro della band campana. Il singolo scelto per lanciare il nuovo album è “Va tutto bene”, di cui è stato girato anche un videoclip che troviamo all'interno del cd come traccia rom. Come se non bastasse il video - che è stato girato dal regista Stefano Bertelli per Run Multimedia - ha già vinto in anteprima (luglio 2006) la rassegna Animaclip del Giffoni Film Festival come miglior videoclip in animazione dell’anno. Il singolo e l'EP stesso sono stati lanciati ufficialmente il 20 ottobre, mentre il 28 ottobre è iniziato il tour promozionale. Un disco da non lasciarsi sfuggire, provare per credere.

Antonino Marsala

1 dicembre 2006

CONSIGLI PER ACQUISTI IN MUSICA

Mi sembra doveroso iniziare la carrellata di dischi con l’istrionico, zingaresco, minotauresco(chi ha assistito di recente ad una sua performance live potrà certamente confermare la vocazione taurina del Vinicio nazionale) Capossela che pubblicando nel gelido gennaio scorso “Ovunque Proteggi” ha deliziosamente riscaldato cuori e padiglioni auricolari dei fans con le sue ricercate melodie e la sua voce roca.
L’aggettivo più calzante per “Ovunque Proteggi” è: eterogeneo…scordatevi la compattezza di sound/tematiche del precedente “Canzoni a Manovella”. Tanta varietà è limite e forza nello stesso tempo. Limite, poiché l’album appare poco coeso, direi quasi sfilacciato. Forza, perché Vinicio si trova a perfetto agio nel muoversi tra diversi generi musicali, nel gestire musicisti d’ogni estrazione gusto e stile(Roy Paci (tromba), il newyorkese Marc Ribot (chitarre), Stefano Nanni (piano), Ares Tavolazzi (ex-Area) al contrabbasso e Gak Sato all'elettronica).
Ne scaturisce un viaggio musicale tra il mito(Barbari della Colchide/ I vapori s'alzano nell'ombra) e il quotidiano(Affanculo questa serietà/ Questa lealtà/ Tutta questa impresa/ Poi il sabato all'iper a far la spesa) tra l’ossessione carnale, l’immanente, il viscerale(Patimento della carne/ Corpo sacro della carne/ Compassione della carne/ Fuoco fatuo della carne) e la suggestione del sogno, il trascendente, il misticismo(E accesi sui pennoni/I fuochi fatui, i fuochi alati /Della Santissima/Dei naufragati). Un disco importante.

Ora preparatevi ad un salto spazial/stilistico: dall’Italia alla Scozia, dal cantautorato al post-rock. I Mogwai tornano dopo un latitanza di tre anni e ci regalano “Mr. Beast”. La band di Glasgow prosegue il proprio discorso musicale con coerenza ed uno stile unico, frutto di un lavoro di raffinamento e rielaborazione lungo un decennio. “Mr. Beast” alterna cavalcate esplosive a delicati intermezzi melodici, crescendo sporchi, inquinati da glitch elettronici e distorsioni, che lasciano improvvisamente spazio ad arpeggi dal gusto romantico(senza cadute nel melenso). Insomma, la band “ppò èsse piuma e ppò èsse fero” come la mano del camionista interpretato da Mario Brega in “Bianco, rosso e Verdone”(perdonatemi il paragone ma lo trovo quantomai appropriato). Ennesima riconferma.

Segnalazione lampo per “Lantern” dei Clogs. Siamo sempre nel post-rock, questa volta contaminato con la musica da camera. Tra morbidi riff di chitarra, pennellate d’archi e rarefatte note di basso ci muoviamo in un paesaggio crepuscolare. Malinconico.

Concludo con il mostro di esuberanza Thom Yorke (ogni volta che ascolto il suo cd in auto e disgraziatamente ci sono altre persone a bordo vengo investito da una sequela di: “togli questa roba deprimente!” e frasi dal significato equivalente. Musica da party, insomma). Allontanatosi temporaneamente dai Radiohead, il simpatico ragazzotto del Northamptonshire(bel nome per distretto territoriale) sceglie l’elettronica per il suo esordio solista. “The Eraser” non delude ma neppure convince pienamente. Le nove tracce scorrono via lisce, il marchingegno è presto svelato: una base elettronica, una linea melodica dolce, la splendida voce di Thom a ricamare, amalgamare, accompagnare. Alla lunga stanca.

Enrico Gaffuri

29 novembre 2006

KOINE' - SOSPESO

Lo scorso 22 ottobre è ufficialmente uscito il secondo album della band romagnola dei Koinè sempre pubblicato con la linea low-cost di mini-cd prodotta dall’Alkatraz scrl. Sebbene questo loro secondo disco si presenti allo stesso modo del primo (Senza tranquillità) ossia tre canzoni più un video, i Koinè centrano un’altra volta il bersaglio, producendo un mini-cd di tutto rispetto. Con Sospeso la band dimostra di essere riuscita a crescere artisticamente componendo dei testi più adulti e conferma l’attitudine verso sonorità a tratti più cupe con riff graffianti di chitarra come nell’opener “Rivoluzione”, o con giri di basso accattivanti e facilmente orecchiabili che catturano l’attenzione in “Solo una sensazione”. Con la title track “Sospeso” ritroviamo invece la vena pop del gruppo con un singolo di facile ascolto tipicamente radiofonico anche se attraversato verso la fine – seppur per pochi secondi - da elementi tipici dell’alternative pop-rock. A dispetto del precedente però, questo singolo sembra purtroppo più debole, e soprattutto a metà canzone si sente come una mancanza di mordente. Fortunatamente però questo non intacca eccessivamente la qualità complessiva dell’album, che rimane comunque un disco tutto da ascoltare. Un gruppo sicuramente da tenere d’occhio nel futuro, e che continua a proporre un rock alternativo fresco e dinamico.

Per maggiori informazioni: www.koinemusic.it

Antonino Marsala

19 novembre 2006

LONDON CALLING. UN DISCO ANCORA ATTUALE.

Ci sono pochi dischi che riescono ad essere più attuali a distanza di vent’anni di quanto non lo fossero all’epoca della loro uscita. O perlomeno tanto attuali quanto lo erano allora.

London Calling dei Clash è probabilmente uno di essi.

Siamo nel 1979: sono passati poco più di tre anni da quando i Sex-Pistols scandalizzarono all’ora di cena la middle-class britannica con insulti e parolacce in tv. E’ dicembre e Margareth Tatcher è appena andata al governo. Sono profetici i Clash quando nella title-track del disco di cui stiamo parlando cantano: “See we ain’t got no swing except for the ring of that truncheon thing [Guarda, non c’è più niente di swinging a parte il roteare di quel manganello]”. Sta arrivando un’era di repressione che colpirà tutti: i minatori in sciopero, gli irlandesi, gli abitanti delle Falkland. E’ il clampdown, il giro di vite, il pugno di ferro.

Ma la rabbia che infiammava le strade tra il West End e Notting Hill Gate qualche anno prima nella furia del ‘77 non si è sopita. E’ una rabbia che discende da generazioni di sfruttati e di esclusi da sempre ai margini dell’Impero. E’ la furia del rudeboy che ha accompagnato i Clash nel ononimo film sulle loro tournè, e più indietro quella degli angry young men e di tutti i ribelli della storia inglese. Una rabbia anti-sistema che può farsi scorticante violenza (auto)distruttiva come nei molti gruppi punk di fine decennio o esuberante gioia vitale, ricerca di mescolanza, festa, condivisione. In fondo anche il Jimmy Porter di Ricorda con Rabbia di John Osborne, capostipite di tutti gli arrabbiati inglese, trovava pace tra un maltrattamento della povera moglie Alison e l’altro, suonando selvaggiamente la sua tromba e sognando il jazz dei neri americani.

Anche i Clash dopo due dischi di abrasive canzoncine punkettare -“Got no money, can’t get no power and so you are punk [Non hai soldi, non puoi aver potere e quindi sei punk]” - lasciano trapelare una cultura musicale per ora a stento trattenuta e un gusto per la contaminazione a 360° gradi. Le sonorità rozze e urticanti di appena un anno prima lasciano il posto a una girandola di suoni e stili provenienti da ogni dove.

C’e il reggae di Revolution Rock o di Guns of Brixton – canzone che rieccheggia gli scontri violenti tra polizia e immigrati giamaicani nell’omonimo quartiere londinese.

C’è il post-punk antithatcheriano di Clampdown e la new-wave sgargiante di I’m not down. E poi il roots-rock di Rudie can’t fail, il blues di Jimmy Jazz, lo shuffling ska di Wrong ’em boyo, le sonorità alla Blues Brothers di The Right Profile.

Ma anche il rock latin-sentimental-resistenziale di Spanish Bombs (canzone dedicata alla guerra civile spagnola) o il raffinatissimo pop “alienato” di Lost in the Supermarket (piccolo gioiellino sulla perdita d’identità dell’uomo contemporaneo nel mercato globale).

C’è di tutto in questo disco, da cui discende gran parte della musica che ascoltiamo ancora oggi, ma sopratutto c’è l’invito a scavalcare barriere e confini, geografie, e ghetti musicali, mentali e razziali, a lasciar interagire ad ogni costo musica e idee.

Al giro di boa col nuovo decennio i Clash regalano la perla della loro carriera. Pochi comprenderanno la loro lezione nel bailame consumistico dei primi anni ‘80. Solo poco per volta inariditisi i fiumi di elettropop decadente e new-wave plastificata che invadono l’Europa all’inizio del decennio rispunteranno qua e là i frutti del loro insegnamento.

Saranno a Parigi nelle notti “patchancose”, bagnate di birra e di suoni dalla Manonegra, tra il 15° arrondissement e Place Pigalle. O nell’Irland punk-folkettara dei Pogues. E poi più giù fino ai giorni nostri nella barricadera Tolosa degli Zebda, o nella Galizia variopinta degli Amparanoia o ancora nel cavanserraglio del Radio Bemba Sound System (alias Manu Chao). E poi, anche oltreoceano, a Città del Messico nello ska-rock latino dei Maldita Vecindad o a Buenos Aires, nella mezcla de estilos dei Fabulosos Cadillacs.

Ma la lezione di London Calling va oltre. Rispunta dovunque culture e musiche diverse si fondono insieme, nei corpi e nelle idee che si muovono senza sosta di paese in paese, nelle navi della speranza che superano dogane e trattati con il loro carico di esperienze umane da condividere.

Francesco Zurlo

31 luglio 2006

INTERVISTA A GIOVANNI ALLEVI

Il compositore e pianista Giovanni Allevi nasce il 9 Aprile 1969 ad Ascoli Piceno. Frequenta il Conservatorio G. Verdi a Milano dove si diploma con il massimo dei voti ed in seguito si iscrive alla Facolta di Filosofia dove si laurea cum laude. Il suo primo disco “13 fingers“ viene pubblicato nel 1997. Il secondo album, intitolato “Compositions“ (2003), nasce durante la collaborazione con il Collettivo Soleluna(del quale fanno parte Jovanotti e il bassista Saturnino). Il meritato successo arriva nel 2005 con il soldout al prestigioso “Blue Note“ di New York e la successiva pubblicazione di “No Concept“, disco accolto con recensioni positive dalla stampa musicale.
Nello stesso anno Allevi viene insignito del premio Bosendorfer e del premio Recanati. Il brano “Come sei veramente“, estratto da “No Concept“ viene utilizzato dal regista Spike Lee come colonna sonora dello spot girato per la BMW.
Nel 2006 Allevi torna ad esibirsi al “Blue Note “ di New York.


Perché suoni?
Non lo so, è una cosa fisica, viene dalla pancia. E’ un impulso irresistibile.

Quando muovevi i primi passi nel mondo della musica hai mai pensato al successo’?
No, e non ci penso nemmeno adesso. A me interessa solo la musica, il suo linguaggio e le misteriose relazioni tra i suoi elementi. Comunque ho anche riflettuto sul successo: non ha niente a che fare con la popolarità, ma è riuscire ad emozionare profondamente anche una sola persona.

Quanto è importante il maestro per l’artista? Chi sono i tuoi maestri?
Non credo nell’insegnamento. Credo che il maestro sia solo un mezzo che l’artista utilizza per iniziare ad esprimersi. Nella mia esperienza personale, spesso i maestri hanno cercato di proiettare su di me tutte le loro insicurezze e frustrazioni.
La più grande maestra per un artista è la vita di tutti i giorni, quella fatta dalle persone comuni, con i loro problemi concreti. Il più utile libro di composizione è il mondo che ci circonda!

Odi mai il pianoforte?
Mai. E’ un amore folle!!

Cosa guardi quando cammini per Ascoli Piceno?
Cerco di non guardare quelle persone che, protette dalla vita in provincia, mi comunicano un grande senso di sicurezza di se e di benessere, ricordandomi invece la precarietà esistenziale che ho scelto io. A Milano invece siamo tutti un po’ così, giovani in padella!

Se incontrassi un uomo che non ha mai ascoltato musica in vita sua, cosa gli suoneresti?
Niente, lo farei suonare! Lo farei improvvisare sui tasti neri del pianoforte, gli farei ascoltare la sua musica.

Hai affermato che “L’opera d’arte si completa nel fruitore, nel pubblico”. Da dove nasce questa tua concezione di arte?
Dal ricordo di quando ero piccino. All’età di sei anni ascoltavo la Turandot di Puccini per intero tutti i giorni, a gambe incrociate sul divano. Nella mente costruivo enormi mondi fantastici, storie delle quali ero eroe protagonista…insomma, molto più di quanto Puccini potesse immaginare.

“No Concept” è stato composto a Harlem. Quanto il luogo, l’ambiente, la dimensione sociale influenzano la composizione dei tuoi brani?
I luoghi influenzano la mia voglia di esprimermi, ma la musica è chiusa nella mia testa e non si fa contaminare dall’esterno. No Concept è un disco europeo, gli echi di Jazz e di Gospel sono appena sfiorati.

La tua attenzione per la melodia, il tuo distacco dall’avanguardia del secolo scorso sono (anche o soprattutto) il risultato di una scelta comunicativa?
Davanti alla Musica non ho scelta: un frammento inizia a suonarmi in testa e mi chiede di essere sviluppato “come vuole lui”. Ne può scaturire un brano fortemente comunicativo o qualcosa di incomprensibile. Credo fortemente nel Realismo in Musica, per cui il linguaggio musicale è un’entità a se stante, con un proprio statuto ontologico, che va rispettato nella sua logica interna. Come compositore, di fronte alla Musica, non posso scegliere di essere più o meno melodico o comunicativo, ma posso e devo lavorare duramente perché essa si esprima secondo le sue esigenze.

A cura di Enrico Gaffuri e Diana Garrisi

28 ottobre 2005

INTERVISTA A FRANCESCO GUCCINI




Confine tra Emilia e Toscana. Le nuvole sono basse, la luce del cielo è fredda e pulita.
Arriviamo a Pavana, il paese delle radici di Francesco Guccini. Lui ci aspettasull’uscio di casa, sorridente. Ci fa accomodare intorno al suotavolo, sovrastato da mille carte, al centro di una stanza con ungrosso camino. Iniziamo una chiacchierata con lui. Francescoci parla di musica e politica, di passato e presente, di tradizioni e abitudini di montagna. Comequando, a un certo punto, gliviene portato un cesto di funghie lui con perizia li esamina.



Come nasce una sua canzone?
In tanti modi. A volte nasce rapidamente da un fatto che mi ha colpito. E’ il caso di“Canzone per un’amica” o “Primavera di Praga”. Altre sono idee che vengono e che lascio maturare poco a poco. E’ il caso ad esempio di “Odysseus”, una delle mie ultime composizioni, alla quale pensavo da parecchio tempo. Quando la canzone è matura mi viene voglia di mettermi ascriverla. "Piazza Alimonda” potrebbe essere una canzone di quelle scritte di getto, ma non è stato così. Volevo renderla il meno retorica possibile. Così ho intuito che sarebbe stato meglio non parlare del fatto in sé, ma partire dalla descrizione di Genova.



Per esempio come è nata “La locomotiva”?
Mi capitò di leggere in un libro di memorie di un vecchio operaio bolognese che raccontava la vicenda di un anarchico, ma non la spiegava. Poi un giorno un miom vicino di casa mi raccontò di
nuovo la storia del socialista anarchico. La canzone nacque in brevissimo tempo. Mentre scrivevo una strofa prendevo appunti per quella successiva. I primi versi li aggiunsi soloin seguito, mi sembrava fosse necessario un inizio.



Il testo e la musica nascono assieme?
Normalmente sì. Parto sempre da uno spunto, da una frase. Poi la canzone si completa da sé. Alcune volte, però, Flaco (chitarrista argentino di Guccini, ndr) mi fa ascoltare una melodia che mi piace, e allora cerco di immaginarmi un testo adatto. Così è nata “Scirocco”.



Pensa mai, quando scrive una canzone ad un interlocultore?
Le canzoni che scrivo nascono per me. Poi se piacciono anche agli altri sono assai più felice.
Però non posso figurarmi qualcuno a cui possa essere diretta una mia canzone. Sarei impedito nello scriverla.



Lei è un grande ritrattista di luoghi.
Ho vissuto principalmente in tre posti: Pavana, Modena e Bologna. Luoghi che ho raccontato nei romanzi “Cronache Epifaniche”, “Vacca d’un cane” e “Cittanòva Blues”.
Sono nato a Modena, ma mi hanno portato qui a Pavana dopo pochi mesi. A Modena però ho iniziato a suonare, inprincipio per imitare il rock ‘n roll. Modena l’ho cantata in “Piccola città”, Bologna nella canzone omonima, mentre per Pavana ho scritto “Radici”. E Pavana è il luogo del ritorno che ricerco. Infatti ormai è qui che sono tornato a vivere.



Come è nata l’idea del cortometraggio su Pavana?
Quando nel 1978 uscì il mio album “Amerigo” pensai, su idea di Pier Farri, che al tempo era il mio produttore, di fare un cortometraggio immergendolo nell’atmosfera e nei personaggi che uscivano da quelle canzoni. Pavana gode la fortuna di essere un paese di passaggio. Questo ha sviluppato alcuni fenomeni particolari: ci sono persone che vengono da ogni parte d’Italia e non. Ora ci sono meno fenomeni folkloristici, ma tutto sommato la vita di paese si è mantenuta. Ma tornando al corto, devo dire che se ne sono perse un po’ le tracce. Dovrei averne una copia da qualche parte, ma non è mai stata mostrata al pubblico.



I luoghi di cui parla sono sempre circondati da un’aura mitica.
Quando si racconta si deve sempre cercare di mitizzare un luogo che magari nella realtà mitico non è. Si pensi a “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez, in cui Macondo, un piccolo paesino,
diventa l’ombelico del mondo.
Una canzone è ovviamente diversa da un libro: tende a descrivere per immagini sintetiche. In un romanzo, invece, uno può scrivere finché vuole.



Come vede l’Italia del futuro?
Sono piuttosto pessimista. Basta guardare alle leggi che stanno approvando: una sciagurata
riforma costituzionale, un maxi-condono fatto per soldi e una riforma della giustizia.
Osservando questa gente vedo quell’ignoranza da “Bar Sport” di una volta. Di quelli che discutevano di calcio per ore senza fare nessuna affermazione seria. Speriamo che la sinistra riesca a compattarsi per cambiare le cose.



La musica può servire a risvegliare le coscienze?
Dovrebbe essere la lettura a farlo, la musica ha il vantaggio di arrivare più velocemente. Io leggo tre quotidiani al giorno, ma vedo che molti giovani sono disinteressati. E’ anche la congiuntura economica che influisce molto.



16 giugno 2004, tema di maturità. Nel saggio breve viene citata “Canzone per Piero”. Stupore o orgoglio?


Mio Dio che vergogna! Orgoglio no. Stupore più che altro. Mi avevano messo in mezzo a gente un pochino più grossa. Gli amici ovviamente mi hanno preso abbondantemente in giro!



Una destra oscurantista al governo e una scelta forte come quella di Guccini alla maturità?
La canzone non era chiaramente politica o aveva la possibilità in qualche modo di essere politicizzata. Credo che ci siano delle commissioni. Non so come funzioni. Magari è frutto di qualche ricordo gucciniano di chi ha proposto il tema!




a cura di Luca Bartesaghi e Silvia Vaghi