11 dicembre 2006

THE DEVIL ON MY ROAD

In the seventh hour, in the seventh day… Le radici sono gelosamente conservate nell’Africa nera. Quella povera e disperata. Lì nascono bambini senza futuro. Già sieropositivi. Già condannati. Eppure i figli di quest’Africa non sono poi così diversi dai loro antenati ridotti in schiavitù e condotti a forza fin nelle Americhe. Se dovessero chiedermi di spiegare cosa sia il blues, di rappresentarlo, seppur in modo spannometrico, andrei con molta semplicità alla ricerca di una fotografia di un bimbo africano. Sceglierei un primo piano. Gli occhioni pronti ad abbracciare tutto intorno. Il vuoto. La desolazione. Tutto ciò mi pare in vero stridente. Intendo dire, associare un genere musicale, quindi un qualcosa di molto vicino ad un’idea generica di svago e divertimento, con la più grande tragedia umana a noi contemporanea, può sembrare strampalato. Tanto più se si riflette sul fatto che la gran parte della musica che ascoltiamo in questo nostro occidente globalizzante deriva in ultima analisi dall’Africa. Rock, Jazz, Metal e vorrei dire musica elettronica non sono che i frutti della medesima pianta. È il blues. Un genere musicale nato negli stati meridionali degli Stati Uniti, con una lunga fase di gestazione, individuabile tra il 18^ secolo e gli inizi del 900. Qui centinaia di migliaia di uomini e donne di origine africana vivevano in condizioni di schiavitù. Unica concessione dei bianchi landowners il canto, utilizzato per accompagnare il lavoro. Il trascorrere dei decenni intanto contribuiva a migliorare, anche se con mille ritrosie e rappresaglie dei bianchi proprietari terrieri, la condizione degli schiavi. Il primo barlume di speranza sembrò poter giungere dalla fede cattolica. I canti di lavoro, detti shouters, filtrati da ideologia “sacra”, e venuti a contatto con la musica eurocolta di matrice bianca diedero vita al gospel. Il blues rimase invece legato ad una matrice più terrena. Accade spesso, addirittura, di imbattersi in brani blues di argomento scabroso, come l’amore erotico, l’alcool, l’oscuro simbolismo o la violenza. I musicologi spiegano questa tendenza come una naturale conseguenza “conservativa” all’imposizione della religione cattolica. La malinconia per la casa perduta, la solitudine, l’abbandono, la tristezza e il nichilismo si ergono a presenza costante e caratterizzante dell’intero genere. Angoscia, timori, pene d’amore. Argomenti che hanno trattato tutti i bluesmen passati alla storia, da Robert Johnson, che secondo la leggenda vendette l’anima al diavolo in cambio del talento, a Skip James. Da Muddy Waters, che ha elettrificato il blues, dandogli una dimensione più urbana e moderna a John Lee Hooker (che ha recitato la parte di sé stesso nel film Blues Brothers). Gli anni 60 furono una vera e propria riscoperta del blues. Alcune rockstar, come Jimi Hendrix, Janis Joplin o Eric Clapton coronarono il loro sogno di suonare coi vecchi maestri blues del Delta del Mississipi, dopo aver tratto ben più di qualche ispirazione. Tutto l’occidente beneficia, almeno musicalmente, dell’eredità del blues e, per estensione, dell’Africa intera. Forse l’argomento “musicale” non è quello più forte da utilizzare per convincere un potenziale interlocutore della necessità di mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi africani, ma può, di certo, aiutare.

Davide Zucchi

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