Si stima che i morti a Bhopal quella notte di Dicembre furono 1700- 3000. Ma stabilirlo con certezza non è possibile. Quel giorno e i successivi centinaia di roghi vennero allestiti per bruciare i corpi degli induisti, centinaia di fosse comuni vennero scavate per seppellire quelli dei musulmani. Secondo fonti attendibili, il numero delle vittime dal giorno della fuga di gas ad oggi ammonterebbe a una cifra compresa tra 15000 e 30000. 200000 invece le persone intossicate, costrette a convivere con i devastanti effetti dell’esposizione e dell’inalazione del gas, quali insufficienza respiratoria, disturbi alla vista, cataratta giovanile, depressione, anoressia, febbre ricorrente, stato di debolezza costante, cancro, tubercolosi.
La Union Carbide si è rifiutata di rivelare l’esatta composizione del MIC, impedendo così di prestare adeguate cure alla popolazione colpita.
La Carbide, il cui motto era "Safety first", trovò il suo capro espiatorio in un operaio e si fece sostenitrice della tesi del sabotaggio. Nel 1989, dopo quattro anni di estenuanti trattative la multinazionale pagò alla popolazione colpita un indennizzo di 470 milioni di dollari, una somma sei volte inferiore a quella inizialmente richiesta, che il governo indiano accettò ugualmente. Di questo indennizzo solo una parte irrisoria arrivò nelle tasche delle vittime o dei parenti delle vittime, per la maggior parte poveri e analfabeti abitanti degli slum.
L’allora presidente della Carbide, Warren Anderson, fu citato in giudizio nel 1991 dal tribunale penale di Bhopal con accusa di omicidio colposo. I tagli dei costi avrebbero infatti compromesso gli standard di sicurezza della fabbrica. Anderson ha fatto perdere sue tracce. E’ tuttora ricercato. Su di lui pende un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol.
La Union Carbide non esiste più. Nel 1999 è stata rilevata dalla Dow Chemicals.
Di fronte all'uscita di scena della Carbide, protagonista e carnefice, e alla latitanza di Anderson, l'uomo che incarna il simbolo della tragedia, è il governo indiano a doversi prendere le responsabilità e a pagare le conseguenze.
Nel 2004 la Corte suprema indiana ha approvato lo stanziamento di un fondo di 350 milioni di dollari per le vittime del disastro. Ma molti pensano che non sia stato fatto abbastanza.
Anche quest’anno, il 2 e il 3 dicembre, in occasione del ventiduesimo anniversario della tragedia, gli abitanti di Bhopal sono scesi in strada per ricordare. E per dare voce, più o meno silenziosamente, alla loro sete di giustizia. Alla manifestazione pacifica organizzata dal Sanghatan, associazione che si batte per i diritti delle vittime, in cui i partecipanti portavano ritratti del Mahatma Gandhi, ha fatto da controparte un’altra manifestazione, culminata davanti al memoriale di Bhopal, di fronte alla fabbrica abbandonata. Bandiere della Carbide e immagini del suo presidente sono state bruciate. Dopo più di vent'anni, le richieste ancora urlate al governo dalle vittime di quello che è uno dei più gravi incidenti nella storia dell’industria chimica, sono acqua pura- le falde acquifere sono state contaminate dai resti tossici ancora presenti all’interno della fabbrica in disuso- e più efficienti cure mediche per le decine di migliaia di persone che ancora soffrono di disturbi psichici e fisici legati all'esposizione al gas.
Chiara Checchini
La Union Carbide si è rifiutata di rivelare l’esatta composizione del MIC, impedendo così di prestare adeguate cure alla popolazione colpita.
La Carbide, il cui motto era "Safety first", trovò il suo capro espiatorio in un operaio e si fece sostenitrice della tesi del sabotaggio. Nel 1989, dopo quattro anni di estenuanti trattative la multinazionale pagò alla popolazione colpita un indennizzo di 470 milioni di dollari, una somma sei volte inferiore a quella inizialmente richiesta, che il governo indiano accettò ugualmente. Di questo indennizzo solo una parte irrisoria arrivò nelle tasche delle vittime o dei parenti delle vittime, per la maggior parte poveri e analfabeti abitanti degli slum.
L’allora presidente della Carbide, Warren Anderson, fu citato in giudizio nel 1991 dal tribunale penale di Bhopal con accusa di omicidio colposo. I tagli dei costi avrebbero infatti compromesso gli standard di sicurezza della fabbrica. Anderson ha fatto perdere sue tracce. E’ tuttora ricercato. Su di lui pende un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol.
La Union Carbide non esiste più. Nel 1999 è stata rilevata dalla Dow Chemicals.
Di fronte all'uscita di scena della Carbide, protagonista e carnefice, e alla latitanza di Anderson, l'uomo che incarna il simbolo della tragedia, è il governo indiano a doversi prendere le responsabilità e a pagare le conseguenze.
Nel 2004 la Corte suprema indiana ha approvato lo stanziamento di un fondo di 350 milioni di dollari per le vittime del disastro. Ma molti pensano che non sia stato fatto abbastanza.
Anche quest’anno, il 2 e il 3 dicembre, in occasione del ventiduesimo anniversario della tragedia, gli abitanti di Bhopal sono scesi in strada per ricordare. E per dare voce, più o meno silenziosamente, alla loro sete di giustizia. Alla manifestazione pacifica organizzata dal Sanghatan, associazione che si batte per i diritti delle vittime, in cui i partecipanti portavano ritratti del Mahatma Gandhi, ha fatto da controparte un’altra manifestazione, culminata davanti al memoriale di Bhopal, di fronte alla fabbrica abbandonata. Bandiere della Carbide e immagini del suo presidente sono state bruciate. Dopo più di vent'anni, le richieste ancora urlate al governo dalle vittime di quello che è uno dei più gravi incidenti nella storia dell’industria chimica, sono acqua pura- le falde acquifere sono state contaminate dai resti tossici ancora presenti all’interno della fabbrica in disuso- e più efficienti cure mediche per le decine di migliaia di persone che ancora soffrono di disturbi psichici e fisici legati all'esposizione al gas.
Chiara Checchini
Nessun commento:
Posta un commento