27 dicembre 2006

IL FOTOGIORNALISMO IN MOSTRA

Immagini che raccontano l’Italia e hanno fatto storia

Una civiltà democratica non si salverà se non farà del linguaggio delle immagini una provocazione alla riflessione e non un invito all’ipnosi”.

Sono queste le parole di Umberto Eco che cullano la mostra del fotogiornalismo italiano, attualmente in esposizione presso il Museo di Storia Contemporanea in via Sant’Andrea, a Milano. Paradossalmente un tragitto circolare quello della foto da stampa, nata e cresciuta dopo le censure e le coazioni del regime fascista e oggi, dopo 60 anni, nuovamente in agonia per via di un mercato delle immagini sempre più convulso, ibrido e legato senza trasparenza ai meccanismi pubblicitari e di mercato. Eppure la strada percorsa è molta. Una cammino denso di foto e flash che hanno caratterizzato la scia luminosa del percorso storico del bel paese, unendo ogni evento, ogni sguardo, ogni dettaglio ad un obiettivo e a un diaframma. Dopo il digiuno fascista sono i settimanali come l’Europa, il Tempo, il Politecnico di Vittorini, a riconoscere, per primi, il valore dello scatto finalmente libero. Le immagini di Federico Patellani e Giancolombo raccontano un paese che può per la prima volta, attraverso le foto, guardare allo specchio le proprie miserie (impresse nelle istantanee di una Italia post-bellica in ginocchio) e le proprie ricchezze (la voglia di riscatto negli occhi e nei gesti della gente che, nonostante tutto, sorride all’obiettivo). Una volta in piedi “la nazione danza”, e Tazio Secchiamoli è pronto a raccontarla su pellicola. L’italica necessità d’evasione si stempera nella corsa vivace di Sophia Loren e delle altre miss, nello sguardo di Claudia Cardinale, negli immaginifici set Felliniani. Eppure gli anni ’50 significano per il fotogiornalismo anche più esperienza e maggiori responsabilità.

Testate come Le Ore e Vie Nuove assumono lo spessore di veri rotocalchi, proponendo immagini efficaci nel raccontare storie d’approfondimento e denuncia. Nasce il fotografo free-lance che gira il mondo e vuole vedere oltre. Si viaggia dalla Spagna Franchista al Sud America autocratico, dagli USA della discriminazione e di Martin Luther King all’ “altra Italia” che il boom economico ha obliato e che in pochi narrano. Sono gli anni della Milano capitale intellettuale, che accoglie al cafè Jamaica gli sguardi e le esperienze di Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Nicolai, Mario Dondero. Ed è in questo humus che il fotogiornalismo italiano acquista la sua prima peculiarità, sviluppando, nelle immagini, una tendenza intellettuale in antitesi rispetto al pragmatismo delle foto “sulla notizia” proprie dei reporter d’oltralpe. La fase amatoriale termina definitivamente con la generazione degli anni ’60. Rotocalchi come Epoca (alter ego italiano dello statunitense Life) inquadrano la foto in un’ottica più lambiccata, per cui tutti i colori della cronaca si sovrappongono legandosi fra loro. Autori del calibro di Giorgio Lotti e Pepi Merisio palesano tale tendenza, mentre la bergamasca Carla Cerati regala a Milano alcuni dei suoi scatti più belli e profondi. Le sale della mostra, che si susseguono rincorrendo le tracce cronologiche della foto giornalistica, diventano più dense in simmetria agli anni della contestazione. Dopo il ’68 le nuove tensioni spingono gli obiettivi verso realtà off-limits e verso immagini più decisamente “engagè”. Mutano i modelli di riferimento: ora è Robert Frank (fotografo e regista amico della beat generation) a dettare gli schemi di un mondo che si vuole rendere vivo e parlante. La nuova controinformazione indaga le piaghe più oscure della società: le foto di Maurizio Bizzicari svelano la ferita del lavoro minorile, gli scatti di Luciano D’Alessandro immortalano gli “esclusi” degli istituti psichiatrici. Sarà la progressiva tecnicizzazione dell’immagine a fluidificare una fotografia che rischiava di arenarsi in orge di bandiere mosse dal vento e settarie ideologie. Una realtà sempre più veloce e in fieri costringe il fotogiornalismo, fra gli anni ’70 e ’80, a divenire più rapido e presente, garantendo alle immagini, quasi involontariamente, un impatto maggiormente deciso e secco. Così nasce l’icona di Aldo Moro privo di vita accovacciato nel baule di via Caetani, così si offre pathos alla foto di Franco Zecchin, il quale immortala il funerale di Peppino Impastato, giovane palermitano, militante comunista, ucciso dalla mafia. Gli anni ’90 segnano l’inizio della fine. Si chiude un epoca ed il capitolo che si apre appare tuttoggi nebuloso. I nuovi media, i dispositivi digitali, hanno spersonalizzato il fotogiornalismo, fino a renderlo mero specchio dello show, modaiolo e, come dice Eco, ipnotizzante. La realtà che l’immagine dovrebbe rappresentare viene scalzata dallo “spettacolo” della foto ma, soprattutto, dello spettacolo della vita stessa. E così l’ultima sezione della mostra si fissa su Milano città “invisibile”, (invisibile è divenuta la ricchezza che si produce, il lavoro che la genera) emblema grazie alle sue “situazioni flusso”, quasi impossibili da cristallizzare. La moda, gli uffici, le periferie, l’immigrazione sono solo schegge che si fotografano, senza che la narrazione riesca, come in passato, a riannodare i lacci di realtà e immagine, ormai distanti e perduti nel mare infinito della comunicazione.

Gregorio Romeo

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