13 agosto 2007

CRITICA ROSA SHOKKING

“Voglio un mondo rosa shokking” sembra essere il libro dell’estate, o almeno di questo inizio di stagione. A giudicare dal presenzialismo del volume nelle vetrine di tutte le più grandi librerie e mediastore della città, e considerato anche la velocità con cui scompare dagli scaffali ci potrebbe far pensare che il romanzo (di ciò stiamo parlando) di Virginia Fiume e Rossella Canevari ( in rigoroso ordine alfabetico inverso) possa essere accostato a quegli instant book su commissione, di cui le case editrici si servono per rientrare dalle spese: un po’ come succedeva negli anni ’90, e forse ancora oggi, quando una casa discografica prendeva cinque giovanotti, li strapazzava un po’, dava loro dei ruoli che il pubblico riconosceva, e via; avevi fatto i Five. Eppure il libro non è questo. Il progetto nasce da un’esigenza che dalla lettura emerge chiaramente. Le due autrici vogliono scrivere un libro; probabilmente non importa come. Basta sfondare nel mercato libraio. La spinta al racconto non nasce dal desiderio di svolgere proprio quella storia. Il discorso del testo è paradossalmente in secondo piano: nel momento in cui consideriamo come obiettivo di un autore la scrittura, diviene non necessario giudicare la trama, o per dirla meglio, la fabula. “Voglio un mondo rosa shokking” sembra essere il racconto di come sia possibile costruire un prodotto editoriale con grande impegno, talento, astuzia, veicolando un messaggio, (non importa quale) con sempre bene in mente il pubblico, o meglio, il lettore ideale. Il racconto di un breve ma intensissimo lasso di vita di due giovani donne milanesi, più o meno in carriera, che lottano, in modo diverso, ogni santissimo giorno, contro una società gerarchicamente governata dall’uomo, dove però alla fine è la donna che sceglie sempre e comunque, è il mezzo (e il fine insieme) a cui hanno teso, con successo e grande merito le due autrici. Sì perché la storia è bella, è veloce e soprattutto parla di cose: se durante la lettura vi aspettate che le due protagoniste vadano al supermercato, bè ci andranno, e andranno in quello che avete immaginato voi; sì esatto: L’Esselunga. Il libro è pieno di spie adatte all’immedesimazione più completa: non è possibile immaginare una Milano diversa da quella descritta soprattutto nei capitoli di Camilla, la studentessa laureanda. Il punto di vista è sempre interno al testo sia nelle sezioni di Camilla, sia in quelle di Sofia, la sorella maggiore trentenne. Per diciassette fitti capitoli le due narratrici-personaggio si palleggiano l’esposizione, tentando a volte di sfruttare le qualità del narratore postmoderno: la reticenza, le focalizzazioni su altri personaggi, e la continua manomissione del tempo del discorso. Nei capitoli di Camilla sappiamo cose già successe, ma che poi ci spiegherà meglio Sofia quando verrà il suo turno. Dal piccolo si giunge al grande, dal particolare al totale. Sembra che la costruzione dell’intreccio dipenda esclusivamente dal punto di vista delle narratrici, ma alla fine scopriamo che non è così: il capitolo chiamato Epilogo si chiude con un post-scriptum che strania la vicenda, togliendola dalle mani delle protagoniste. In questo brano non si sa chi parli, (un terzo narratore? Sofia? Camilla?) ma, benché il testo sia stato totalmente aderente ad un contesto reale, questo punto di vista nuovo si rivolge al lettore, ricordandogli che è tutto finto: è tutta fiction, invenzione. Un finale quasi borgesiano, addirittura crudo, se il lettore ideale ha seguito le indicazioni delle narratrici: ma se non le ha seguite, allora avrà già capito che nulla è reale nel mondo rosa shokking.

Fabrizio Aurilia

1 agosto 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.11


Cari lettori e care lettrici, abbiamo di fronte a noi un altro interminabile agosto di studio, tremendo, innaturale e coatto studio. Gli esami di settembre sono vicini, più vicini di quanto non crediate. Ma non preoccupatevi, il Vostro Affezionatissimo ha preparato per voi una succulenta, quanto superficiale puntata di questa rubrica, che, appare chiaro oramai, si trascina da undici puntate lungo il cammino di una lentissima agonia: come la carriera del Barone Franco Causio, che dopo aver fatto le fortune alla Juve, nell’86 va a svernare a Lecce, cercando di ritrovare lo scatto dei tempi d’oro, ma racimolando solo risatine di scherno, e qualche commento del tipo: eh, si vede che non è più quello di una volta. Lo so benissimo che anche voi, là fuori, la pensate così riguardo questa rubrica. Ma io me ne frego e vi parlerò di un gadget che ha cambiato, in parte, il modo di giocare di noi piccoli bimbi anni ottanta, persi come eravamo tra le superfetazioni berlusconiane, di una televisione oramai dai costumi corrotti, e il terrore dei parchi. Quel subdolo brivido che si faceva subito sgomento, quando qualcuno, più avvezzo di noi al mondo, ci diceva che nei parchi c’erano quelle cose che si chiamavano "I Drogati". Erano quelli che posizionavano le siringhe infette proprio accanto allo scivolo, oppure lì nel recinto con la sabbia. La parola "siringa", negli anni ottanta, era orrendamente legata al parco. Forse è per questo che in Italia non esiste uno straccio di pensiero ecologista che prescinda da Pecoraio Scanio: siamo stati istigati ad odiare i parchi. Ma una siringa l’avevamo e l’amavamo. Più che una siringa era una cannuccia, la mia era azzurra: era la cannuccia del Crystal Ball (ora il lettore affezionato dirà: ah! il Crystal Ball, che bello!). Il gioco era quello di prendere della "pasta" e stenderla accuratamente, poi imboccare la cannuccia e soffiare: a quel punto la "pasta" si trasformava in un palloncino colorato trasparente, e più soffiavi, più diveniva grande, poi lo si staccava e si ripeteva l’operazione, fino a che non ci si ritrovava in un mondo di colori, fatto di rotondità leggere, che si libravano nell’aria, assecondando i nostri movimenti. Noi intellettualoidi di Vulcano molte volte ci ritroviamo a maneggiare della "pasta", per poi avere a che fare con dei piccoli tubicini, soffiando nei quali, dopo un po’, il mondo torna ad essere pieno di colori, a riempirsi di leggerezza, di spensieratezza anni ottanta. Eppure, in anni di riunioni di redazione, il Crystal Ball non l’ho mai visto.

Dedicata ad una lettrice che, circa un anno fa, mi chiese di parlare del Crystal Ball.
Fabrizio Aurilia