30 dicembre 2006

EDITORIALE DICEMBRE 2007

Pare che l’Inghilterra non si accorgerà del Natale. Fabbriche, uffici, scuole hanno deciso di non esporre simboli che rimandino alla festività. Motivo: non contrariare cittadini di fede musulmana.
Stimo troppo l’islamico medio per sospettare che Santa Claus lo offenda. E rispetto troppo i padri della democrazia, per credere che questa censura salvaguardi la dignità della persona. Negare un’identità (e un abete, per kitsch che sia, segnala un’identità) è ipocrisia. Ogni dialogo è costruito su una differenza e la profondità dello scambio deriva dalla ricchezza e non dalla negazione di quella differenza.
Viceversa affogheremo nel politically correct e non dialogheremo mai.


Luca Gualtieri

28 dicembre 2006

SATIRA (STELLE E) STRISCE

Chi ancora fosse convinto –a torto- che i fumetti sono solo “roba per bambini” dovrebbe prima di tutto aver letto qualcosa che non sia stato prodotto dalla Disney e uno dei modi migliori per cominciare a farlo è dedicarsi alla lettura di due opere di tutto rispetto: Doonesbury e Boondocks. Queste due opere -entrambe comic strip- seppur nate in periodi diversi, rappresentano ad oggi il meglio della satira a fumetti che il panorama americano possa offrire. Recentemente queste due opere sono state raccolte anche in Italia in alcuni volumi, rendendole di più facile reperibilità anche se -come spesso è accaduto negli ultimi anni-, i primi ad accorgersi del potenziale di queste strisce è stata la preziosissima rivista Linus.

Doonesbury nasce nel 1970 dalla penna di Garry Trudeau e fin da subito si caratterizza per i commenti sagaci,pungenti e irriverenti all’attualità. Pur essendo “temuta” da alcuni potenti, la striscia ha riscontrato un tale successo di pubblico e critica da vincere addirittura il premio Pulitzer nel 1975. I personaggi di Doonesbury -a differenza della maggior parte delle comic-strip- sono molteplici ma tutti pressocchè normali: gente che dopo l’università è diventata mamma o papà, pubblicitario,consulente, giornalista o che è andata in guerra. Henry Kissinger (segretario di Stato sotto le presidenze di Nixon e di Ford e premio Nobel per la pace nel 1973) disse: <>.

Molto più recente invece Boondocks, creato da Aaron McGruder nel 1999. Protagonisti principali della striscia sono due bambini afroamericani: Huley e Riley che dalle strade di Chicago si trasferiscono alla tranquilla provincia periferica. Inizialmente la striscia -a differenza di Doonesbury che presentava commenti di taglio liberale riguardanti tutta l’attualità- era principalmente incentrata ad analizzare la quotidianità americana focalizzandosi sulle questioni razziali; dopo l’attento dell’11 Settembre si è invece potuto assistere ad una correzione di rotta, criticando quasi costantemente l’attuale amministrazione Bush. Ciò pur causando una stagnazione dei temi trattati, non riesce a rendere meno interessanti le strisce che anzi sprizzano energia vitale e tensione civile.


Antonino Marsala

27 dicembre 2006

IL FOTOGIORNALISMO IN MOSTRA

Immagini che raccontano l’Italia e hanno fatto storia

Una civiltà democratica non si salverà se non farà del linguaggio delle immagini una provocazione alla riflessione e non un invito all’ipnosi”.

Sono queste le parole di Umberto Eco che cullano la mostra del fotogiornalismo italiano, attualmente in esposizione presso il Museo di Storia Contemporanea in via Sant’Andrea, a Milano. Paradossalmente un tragitto circolare quello della foto da stampa, nata e cresciuta dopo le censure e le coazioni del regime fascista e oggi, dopo 60 anni, nuovamente in agonia per via di un mercato delle immagini sempre più convulso, ibrido e legato senza trasparenza ai meccanismi pubblicitari e di mercato. Eppure la strada percorsa è molta. Una cammino denso di foto e flash che hanno caratterizzato la scia luminosa del percorso storico del bel paese, unendo ogni evento, ogni sguardo, ogni dettaglio ad un obiettivo e a un diaframma. Dopo il digiuno fascista sono i settimanali come l’Europa, il Tempo, il Politecnico di Vittorini, a riconoscere, per primi, il valore dello scatto finalmente libero. Le immagini di Federico Patellani e Giancolombo raccontano un paese che può per la prima volta, attraverso le foto, guardare allo specchio le proprie miserie (impresse nelle istantanee di una Italia post-bellica in ginocchio) e le proprie ricchezze (la voglia di riscatto negli occhi e nei gesti della gente che, nonostante tutto, sorride all’obiettivo). Una volta in piedi “la nazione danza”, e Tazio Secchiamoli è pronto a raccontarla su pellicola. L’italica necessità d’evasione si stempera nella corsa vivace di Sophia Loren e delle altre miss, nello sguardo di Claudia Cardinale, negli immaginifici set Felliniani. Eppure gli anni ’50 significano per il fotogiornalismo anche più esperienza e maggiori responsabilità.

Testate come Le Ore e Vie Nuove assumono lo spessore di veri rotocalchi, proponendo immagini efficaci nel raccontare storie d’approfondimento e denuncia. Nasce il fotografo free-lance che gira il mondo e vuole vedere oltre. Si viaggia dalla Spagna Franchista al Sud America autocratico, dagli USA della discriminazione e di Martin Luther King all’ “altra Italia” che il boom economico ha obliato e che in pochi narrano. Sono gli anni della Milano capitale intellettuale, che accoglie al cafè Jamaica gli sguardi e le esperienze di Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Nicolai, Mario Dondero. Ed è in questo humus che il fotogiornalismo italiano acquista la sua prima peculiarità, sviluppando, nelle immagini, una tendenza intellettuale in antitesi rispetto al pragmatismo delle foto “sulla notizia” proprie dei reporter d’oltralpe. La fase amatoriale termina definitivamente con la generazione degli anni ’60. Rotocalchi come Epoca (alter ego italiano dello statunitense Life) inquadrano la foto in un’ottica più lambiccata, per cui tutti i colori della cronaca si sovrappongono legandosi fra loro. Autori del calibro di Giorgio Lotti e Pepi Merisio palesano tale tendenza, mentre la bergamasca Carla Cerati regala a Milano alcuni dei suoi scatti più belli e profondi. Le sale della mostra, che si susseguono rincorrendo le tracce cronologiche della foto giornalistica, diventano più dense in simmetria agli anni della contestazione. Dopo il ’68 le nuove tensioni spingono gli obiettivi verso realtà off-limits e verso immagini più decisamente “engagè”. Mutano i modelli di riferimento: ora è Robert Frank (fotografo e regista amico della beat generation) a dettare gli schemi di un mondo che si vuole rendere vivo e parlante. La nuova controinformazione indaga le piaghe più oscure della società: le foto di Maurizio Bizzicari svelano la ferita del lavoro minorile, gli scatti di Luciano D’Alessandro immortalano gli “esclusi” degli istituti psichiatrici. Sarà la progressiva tecnicizzazione dell’immagine a fluidificare una fotografia che rischiava di arenarsi in orge di bandiere mosse dal vento e settarie ideologie. Una realtà sempre più veloce e in fieri costringe il fotogiornalismo, fra gli anni ’70 e ’80, a divenire più rapido e presente, garantendo alle immagini, quasi involontariamente, un impatto maggiormente deciso e secco. Così nasce l’icona di Aldo Moro privo di vita accovacciato nel baule di via Caetani, così si offre pathos alla foto di Franco Zecchin, il quale immortala il funerale di Peppino Impastato, giovane palermitano, militante comunista, ucciso dalla mafia. Gli anni ’90 segnano l’inizio della fine. Si chiude un epoca ed il capitolo che si apre appare tuttoggi nebuloso. I nuovi media, i dispositivi digitali, hanno spersonalizzato il fotogiornalismo, fino a renderlo mero specchio dello show, modaiolo e, come dice Eco, ipnotizzante. La realtà che l’immagine dovrebbe rappresentare viene scalzata dallo “spettacolo” della foto ma, soprattutto, dello spettacolo della vita stessa. E così l’ultima sezione della mostra si fissa su Milano città “invisibile”, (invisibile è divenuta la ricchezza che si produce, il lavoro che la genera) emblema grazie alle sue “situazioni flusso”, quasi impossibili da cristallizzare. La moda, gli uffici, le periferie, l’immigrazione sono solo schegge che si fotografano, senza che la narrazione riesca, come in passato, a riannodare i lacci di realtà e immagine, ormai distanti e perduti nel mare infinito della comunicazione.

Gregorio Romeo

25 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE III

Si stima che i morti a Bhopal quella notte di Dicembre furono 1700- 3000. Ma stabilirlo con certezza non è possibile. Quel giorno e i successivi centinaia di roghi vennero allestiti per bruciare i corpi degli induisti, centinaia di fosse comuni vennero scavate per seppellire quelli dei musulmani. Secondo fonti attendibili, il numero delle vittime dal giorno della fuga di gas ad oggi ammonterebbe a una cifra compresa tra 15000 e 30000. 200000 invece le persone intossicate, costrette a convivere con i devastanti effetti dell’esposizione e dell’inalazione del gas, quali insufficienza respiratoria, disturbi alla vista, cataratta giovanile, depressione, anoressia, febbre ricorrente, stato di debolezza costante, cancro, tubercolosi.

La Union Carbide si è rifiutata di rivelare l’esatta composizione del MIC, impedendo così di prestare adeguate cure alla popolazione colpita.

La Carbide, il cui motto era "Safety first", trovò il suo capro espiatorio in un operaio e si fece sostenitrice della tesi del sabotaggio. Nel 1989, dopo quattro anni di estenuanti trattative la multinazionale pagò alla popolazione colpita un indennizzo di 470 milioni di dollari, una somma sei volte inferiore a quella inizialmente richiesta, che il governo indiano accettò ugualmente. Di questo indennizzo solo una parte irrisoria arrivò nelle tasche delle vittime o dei parenti delle vittime, per la maggior parte poveri e analfabeti abitanti degli slum.

L’allora presidente della Carbide, Warren Anderson, fu citato in giudizio nel 1991 dal tribunale penale di Bhopal con accusa di omicidio colposo. I tagli dei costi avrebbero infatti compromesso gli standard di sicurezza della fabbrica. Anderson ha fatto perdere sue tracce. E’ tuttora ricercato. Su di lui pende un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol.

La Union Carbide non esiste più. Nel 1999 è stata rilevata dalla Dow Chemicals.

Di fronte all'uscita di scena della Carbide, protagonista e carnefice, e alla latitanza di Anderson, l'uomo che incarna il simbolo della tragedia, è il governo indiano a doversi prendere le responsabilità e a pagare le conseguenze.

Nel 2004 la Corte suprema indiana ha approvato lo stanziamento di un fondo di 350 milioni di dollari per le vittime del disastro. Ma molti pensano che non sia stato fatto abbastanza.

Anche quest’anno, il 2 e il 3 dicembre, in occasione del ventiduesimo anniversario della tragedia, gli abitanti di Bhopal sono scesi in strada per ricordare. E per dare voce, più o meno silenziosamente, alla loro sete di giustizia. Alla manifestazione pacifica organizzata dal Sanghatan, associazione che si batte per i diritti delle vittime, in cui i partecipanti portavano ritratti del Mahatma Gandhi, ha fatto da controparte un’altra manifestazione, culminata davanti al memoriale di Bhopal, di fronte alla fabbrica abbandonata. Bandiere della Carbide e immagini del suo presidente sono state bruciate. Dopo più di vent'anni, le richieste ancora urlate al governo dalle vittime di quello che è uno dei più gravi incidenti nella storia dell’industria chimica, sono acqua pura- le falde acquifere sono state contaminate dai resti tossici ancora presenti all’interno della fabbrica in disuso- e più efficienti cure mediche per le decine di migliaia di persone che ancora soffrono di disturbi psichici e fisici legati all'esposizione al gas.

Chiara Checchini

21 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE II

- 3 dicembre 1984 -

L’impianto che dominava la città di Bhopal, su cui sventolava fiera la bandiera della Union Carbide Corporation, all’epoca la terza società di prodotti chimici al mondo, era specializzato nella produzione di Sevin, un innovativo pesticida, la cui vendita deluse le aspettative. Al momento dell’incidente la fabbrica si trovava in condizioni di grave degrado. La multinazionale americana aveva infatti deciso di chiudere la sua sede indiana, costantemente in perdita. Nel tentativo di tamponare questa emorragia di milioni di dollari, erano stati operati pesanti tagli, sia al personale che ai sistemi di sicurezza. La produzione era ferma, quel giorno di dicembre, ma all’interno della fabbrica, in apposite vasche di stoccaggio, erano conservate allo stato liquido decine di tonnellate di Mic (Methyl Iso- Cyanate), isocianato di metile, una molecola che può provocare reazioni di inaudita violenza. Per evitare esplosioni il Mic va tenuto a una temperatura costante di zero gradi centigradi. La notte dell’incidente l’isocianato, durante un improvvisato e maldestro intervento di pulizia delle tubature, entrò in contatto con l’acqua, provocando una reazione esotermica. 42 tonnellate di Mic si disintegrano in un vortice di calore, passando rapidamente allo stato gassoso. I sistemi di sicurezza, come già accennato, erano stati disattivati. Il sistema di refrigerazione che avrebbe dovuto neutralizzare l’agente chimico, era fuori servizio. Il Mic era a temperatura ambiente. In caso di fuga di gas, la fabbrica era provvista di altri due sistemi di sicurezza, la torre di decontaminazione, in cui la soda caustica avrebbe assorbito e neutralizzato il gas, e ancora una torre di combustione, in cui eventuali gas sfuggiti alla soda sarebbero stati definitivamente bruciati. Ma nessuno dei due sistemi poté essere utilizzato. Entrambe le torri erano state smontate per interventi di manutenzione.

Così, la nube tossica fuoriuscì indisturbata dalla fabbrica e serpeggiò per la città. La reazione chimica aveva portato alla liberazione, tra gli altri gas, di acido cianidrico, che se inalato in forti dosi porta alla subitanea morte cerebrale, bloccando l’azione degli enzimi che portano l’ossigeno dal sangue al cervello.

Chiara Checchini

19 dicembre 2006

LA LUNGA NOTTE DI BHOPAL - PARTE I

- 3 dicembre 1984 -

Era appena passata la mezzanotte, ma la Baghdad dell’India, vegliata dai minareti e dalle imponenti torri della fabbrica, non dormiva. Dicembre è periodo di matrimoni, e gli astrologi avevano decretato che quel 2 dicembre fosse un giorno propizio per le nozze. La città era tutto un susseguirsi di feste. E il giorno seguente avrebbe ospitato l’Ishtema, l’annuale celebrazione che richiamava migliaia di fedeli musulmani da tutto il paese. Arrivavano a getto continuo, su treni speciali. Quella fresca notte d’inverno il vento soffiava verso sud. Quella notte il vento portò con sé una nube verdastra che mise fine ai festeggiamenti. Poco dopo la mezzanotte, la nube di gas, fuoriuscita dal tecnologico impianto della Union Carbide, si posò come una coltre sulla città vecchia, sulle baraccopoli e sulla stazione, seminando morte. Prima caddero gli animali. Caddero i cani, i gatti, gli uccelli. Caddero le vacche sacre, caddero i tori dalle corna dipinte, caddero le capre, spesso unica fonte di sostentamento per un’intera famiglia. Caddero schiumando dalla bocca. Poi caddero gli invitati ai banchetti, agghindati dei loro gioielli e vestiti dei loro abiti più preziosi, caddero i miserabili abitanti delle baracche adiacenti la fabbrica americana che aveva dato lavoro a tanti, caddero i pellegrini accalcati alla stazione. I loro polmoni scoppiarono. Caddero a terra sputando sangue. Alcuni morirono di una morte immediata. Altri morirono dopo, negli ospedali presi d’assalto da una folla impazzita di terrore, nell’impotenza dei medici, incapaci di contrastare gli effetti dell’avvelenamento. Altri non morirono, ma subirono danni permanenti.

Chiara Checchini

17 dicembre 2006

MAN ON THE MOON

Dietro queste poche parole che non sono nemmeno una frase c’è l’imbocco di una strada che procede su tre sentieri solo apparentemente diversi. Il primo è una canzone dei R.E.M., il secondo un film di Milos Forman e l’ultimo è Andy Kaufman, quell’uomo sulla luna cui il gruppo di Micheal Stipe dedica la faccia più elegiaca di quel diamante opaco che fu “Automatic for the People” del 1992. Andy Kaufman è stato un, se non il più, geniale interprete della comicità contemporanea; morto prematuramente nel 1984 a 35 anni è stato forse l’ultimo vero interprete di quell’avanguardia vicina a Dada e Fluxus che ancora provava a sorprendere e shockare prima di far ridere. Per questo Andy malvolentieri si definiva un comico.”Io non so far ridere” era una delle sue frasi ricorrenti; basava le sue performances sull’illusione e lo sberleffo, poteva stare ore su di un palcoscenico a dormire in un sacco a pelo o a leggere per intero “Il Grande Gatsby” e infine lanciarsi in una appassionata imitazione di Elvis Presley. Kaufman faceva regolarmente scandalo con le sue iniziative, tra le più eclatanti la creazione del”Primo torneo di Wrestling Intergenere”, in cui il comico ha sfidato e sconfitto sul ring oltre 400 donne, aizzate a combattere con insulti e provocazioni sessiste; e l’interpretazione di Tony Clifton (a lungo ritenuto una persona reale e distinta da Andy) e di numerose altre maschere e travestimenti. Non era facile intravedere in quell’uomo istrionico, isterico e assolutamente irrispettoso, la persona buona che fondamentalmente era: devoto alla meditazione trascendentale e convinto della natura illusoria del mondo, dove diventa reale tutto ciò che si riesce a far credere tale.
Di questo parla appunto “Man on the Moon” dei R.E.M., di tutte quelle immagini che sono solide realtà del comune patrimonio umano ma che hanno lo stesso potenziale illusorio di Andy che canta a Las Vegas con i baffoni e si fa chiamare Tony Clifton; e che possono essere una mela che cade sulla testa di Newton o Neil Armstrong che cammina sulla luna (If You believe They Put a Man on the Moon…). Da sempre Stipe e soci sono fans di Andy e si può dire che musicalmente ne abbiano onorato l’indole cangiante ed irrequieta cambiando stile e registro da un album all’altro mantenendo comunque la loro personalità; emblematica in questo senso “Shiny Happy People” di “Out of Time”: canzone pop spensierata in superficie ma intrisa di una malinconia profonda visibile negli occhi di Mike nel videoclip. Depressione mascherata da gaiezza.
Grazie quindi a Milos Forman e chi per lui ha creato la perfetta occasione d’incontro nel suo film, terzo sentiero e unione degli altri due: biografia di Andy Kaufman superbamente interpretato da Jim Carrey con colonna sonora dei R.E.M. D’altra parte cosa meglio del cinema può raccontare di un uomo la cui ragione di vita e di arte è sempre stata l’illusione e il trucco? Il film è una trasposizione piuttosto fedele della vita del comico, dagli esordi da bambino alla morte per una rara forma di tumore polmonare, tuttavia Forman è persona intelligente e consapevole di cosa il suo mezzo può regalare a Andy e che questi avrebbe sicuramente gradito; molti quindi i ritocchi alla vita “vera” dell’artista di New York. Tra le tante la scena del funerale, dove in una chiesa affollata Andy intrattiene ancora il suo pubblico da un maxi schermo posto proprio sopra il suo feretro chiedendo ai presenti di cantare prima di congedarsi con un “Grazie e arrivederci”. Oppure la sequenza conclusiva, dove in un locale, un anno dopo la morte di Kaufman, fa la sua apparizione un personaggio incappucciato che si rivelerà essere Tony Clifton, accompagnato dagli occhi commossi, durante la sua versione sgangherata di “I Will Survive“, di chi aveva amato Andy. Tra di loro c’è anche Bob Zmuda, suo amico e collaboaratore ma soprattutto interprete di Tony alternandosi a Kaufman, che compare per un istante in una carrellata sui volti del pubblico proprio mentre noi spettatori siamo convinti che ci sia lui su quel palco. Questo l’omaggio finale di Milos Forman al re dell’illusione, personale tributo offerto dal cinema, arte suprema del trucco e dell’inganno, che ci regala ancora qualche istante di Andy.

Nicola Spagnuolo

15 dicembre 2006

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.5

Questo mese, mentre voi eravate assorti nella lettura vostro giornale preferito, Argo 42, si stava per consumare una tragedia che noi, amanti della mia rubrica, avremmo considerato di proporzioni oceaniche: uno tsunami informativo, un terremoto giornalistico, una spallata etica alla libertà di stampa di berlusconiana memoria: stavamo per essere censurati. E’ incredibile, lo so; sarebbe stato come chiudere I Robinson nell’89, un telefilm che faceva l’89 per cento di share: l’unica famiglia repubblicana di neri, non discriminati, a New York. Erano ricchissimi, malgrado i genitori (medico e avvocato) mantenessero circa sette figli nullafacenti di cui uno, Theo, pure dislessico. Che non si sentano offesi i nullafacenti dislessici, che so essere la parte più cospicua del mio bacino di lettori. La seconda figlia Denise (Lisa Bonnet) nel 1987 si sposa con Lenny Kravitz: il matrimonio non dura molto ma, per chi fosse interessato, si lasciano e si prendono in continuazione; come anni fa l’Inter e Georgatos, imbarazzante greco che doveva, secondo i piani, risolvere l’annoso problema della fascia sinistra. Stavamo per ricevere lo schiaffo di Anagni, come quello che ricevettero due illustrissime figure: Bonifacio VIII nel 1303 e il cantante Tony Brando. Molti conoscono il primo, spero altrettanti il secondo, indubbiamente più decisivo e più in linea con il tema odierno. Tony Brando, all’anagrafe Ciardulli, è uno tra i personaggi più riusciti del (forse) capolavoro di Carlo Verdone, Compagni di scuola, 1988. Ricorderemo tutti Tony Brando, interpretato da un grandissimo Cristian De Sica, raccontare all’ex compagno di liceo, il cocainomane onorevole Valenzani (Massimo Ghini), dello schiaffo ricevuto da un dirigente Rai, dietro le quinte del Festival d’Anagni, dopo aver cantato la sua hit Collant, collant (cito dal film: collant, collant, mi fanno impazzire i tuoi collant).

Alla domanda del Valenzani sul perché fosse stato schiaffeggiato, Brando narra l’ardito gesto che di cotal castigo fu la causa: durante il finale dell’esibizione, Tony fece scivolare sinuosamente la mano destra lungo il fianco, bloccandola, in posizione plastica, sul pube: in Rai gesto volgare anzi che no. Ebbe in questo modo, secondo la geniale logica della sceneggiatura verdoniana, la colpa di aver anticipato il discorso di Madonna e Prince, che di questi riferimenti si sono pasciuti. L’amara riflessione sul mondo dello spettacolo, Tony la conclude con una profezia, come sempre tetra e di gran classe: “aò, che poi mò se tolgono le mutande e te ‘e tirano in faccia.” La patetica parabola di Tony Brando è l’allegoria dell’ascesa e del declino di quegli artisti italiani disimpegnati che, dapprima osannati e poi proscritti, pagarono l’appartenenza ad un decennio inutile quanto crudele.

Fabrizio Aurilia

13 dicembre 2006

FINANZIARIA E CONTRADDIZIONI: PIU' SOLDI PER LE SPESE MILITARI

Cosa succede se il governo dell’Unione stanza più fondi per le forze armate di quello della Cdl..

Uno strano spettro s’aggira all’interno della Finanziaria in via di approvazione al Senato, la finanziaria dipinta dall’opposizione come la manovra dei tagli, delle tasse e della “proletarizzazione dei ceti medi”. Lo spettro del militarismo. Uno spettro inquietante, soprattutto perché partorito da un governo che aveva messo al centro del proprio programma il disimpegno italiano da un teatro di guerra come quello iracheno e l’incentivazione di politiche di disarmo (vedi pagine 90, 91 e 109 del programma dell’Unione). E invece nella manovra compare un aumento di circa 2 miliardi di euro sui fondi destinati alle spese belliche. Si va dai 18 miliardi e 862 milioni di spesa militare del 2006 (di cui 17.782 milioni dal bilancio della Difesa e 1.080 aggiunti dalla vecchia finanziaria), ai 21 miliardi e 144 milioni previsti per il 2007 (di cui 18.134 milioni sempre dal bilancio preventivo della Difesa e 3.010 dalla manovra 2007). Qual è il motivo di un tanto inatteso e sorprendente aumento degli stanziamenti?

Andando a spulciare si scopre che, detratte le spese di mantenimento del personale – i circa 193 mila uomini al servizio delle forze armate – che coprono il 72 % del bilancio, rimangono più di 4 miliardi di euro (spalmati su 3 anni) destinati a finanziare un fantomatico “Fondo per il sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico”.

In parte si tratta di progetti già avviati dai precedenti governi, come la partecipazione al faraonico progetto (a guida americana) di costruzione del cacciabombardiere del futuro, l’F35-lightning II, e la parallela collaborazione al suo omologo europeo, l’Eurofighter Typoon, a fianco di Germania, Inghilterra e Spagna. Progetti molto discutibili ma che non esauriscono il quadro degli spese previste nei 4 miliardi del succitato fondo.

Ecco allora comparire – come rivela Carlo Bonini in un articolo su Repubblica di qualche tempo fa - una commessa (del maggio scorso) ad Oto Melara per 49 veicoli blindati su ruota “Freccia”, muniti di torrette per il lancio di missili anti-carro. Piccolo particolare: i veicoli monteranno missili “Spike”, costosissimi apparecchi di fabbricazione israeliana, del valore cinque volte superiore al loro omologo americano, il “Tow”. Perché l’esercito italiano dovrebbe munirsi di queste apparecchiature, considerate troppo costose perfino dall’esercito americano e ignorate pressoché da tutti i paesi della Nato è un mistero che può sciogliere solo l’ex-ministro della Difesa Martino, l’inventore di questa geniale trovata. Un capriccio su cui l’Unione però, dal canto suo, non ha trovato nulla da ridire. Valore dell’operazione 310 milioni di euro.

Assemblati sempre da Oto Melara (seppur fabbricati in Germania) risultano anche 72 obici semoventi (per il valore di 650 milioni di euro) che verranno acquistati per la difesa delle nostre frontiere. Questo malgrado siano pezzi d’artiglieria immaginati per combattere conflitti di posizione lungo linee anche di centinaia di chilometri; conflitti che, per nostra fortuna, non sono previsti a breve scadenza lungo i confini italiani.

Spese alquanto imbarazzanti ma fortemente richieste dagli stati maggiori dell’Esercito e che serviranno – assicurano dalla Difesa – all’«ammodernamento delle nostre forze armate». E che, soprattutto, porteranno grandi proventi, attraverso Oto Melara (ed altre controllate come Vitrocisnet) nientemeno che a Finmeccanica. I cui vertici, guarda caso, provengono tutti dagli stati maggiori delle forze armate. Il tutto in barba alla legge 185 del 1990 che impedirebbe il travaso di personale dall’Esercito all’industria degli armamenti.

Qualche esempio? L’ammiraglio Guido Venturosi da capo di stato maggiore della Difesa alla Vitrociset, il generale Giulio Fraticelli da capo di stato maggiore dell’Esercito all’Oto Melara, il generale Mario Arpino dal medesimo stato maggiore alla Marconi (altra società Finmeccanica). E poi il generale Sandro Ferracuti e l’ammiraglio Marcello de Donno, rispettivamente dagli stati maggiori di Aeronautica e Marina ad Ams e Agusta (altre due società Finmeccanica, impegnate nella produzione di radar ed elicotteri). Molti degli impegni di spesa assunti da questa finanziaria con Finmeccanica risalgono all’epoca dei loro incarichi all’interno delle forze armate e, come sottolinea sempre Bonini: «portano anche le loro firme. Da generali, naturalmente».

Viene quindi da chiedersi se questo aumento delle spese militari non sia soprattutto un gran bel regalo a Finmeccanica, con la quale le forze armate italiane hanno rapporti a dir poco “osmotici”. Il che sarebbe non solo un gigantesco conflitto d’interessi, ma anche una seria minaccia nei confronti delle politiche di disarmo e pace previste nel programma dell’Unione.

Francesco Zurlo

I 100 ANNI DI BECKETT

Era il 1906 quando, in un sobborgo di Dublino, nasceva Samuel Beckett. Da quella grigia e strana città cominciava la sua vita da studente di letteratura, ma presto un’inquietudine interiore l’avrebbe portato in giro per l’Europa, fino a Parigi, la città della stabilità, coronata da un felice matrimonio e dal vero inizio della sua carriera. È con “Aspettando Godot” che il mondo artistico e letterario, e soprattutto il pubblico, lo scoprono. Con la rappresentazione dell’opera, avvenuta per la prima volta nel 1953, al Theatre de Babylone di Parigi, si accende l’interesse per questo prolifico autore, si scopre finalmente il suo mondo, dopo innumerevoli rifiuti. È così che comincia, attraverso i rifiuti, “ è nell’insuccesso che io mi sento molto più a mio agio avendo respirato profondamente la sua aria vivificante durante tutta la mia attesa, sino agli ultimi anni. “, dirà Beckett, nella profonda consapevolezza della propria intimità, custodita gelosamente attraverso la riservatezza, e i silenzi, che insieme alle attese dominano e abbracciano le sue opere, circondandole di fascino e mistero. E i misteri dei personaggi, le origini sconosciute, le storie che sembrano sfuggire alla razionalità, portano presto i critici ad inquadrare il suo lavoro nel “Teatro dell’Assurdo”, a scarnificare i suoi romanzi, alla disperata ricerca di un qualunque messaggio. Ma Beckett, un burbero e scontroso irlandese, rifiuterà per sempre le categorie dei critici, l’arrovellarsi, l’intellettualismo disperato, soffermandosi solo sulla descrizione cruda, pura ed essenziale delle vicende umane dei suoi protagonisti. È dura accettare che dietro alle mille domande che nascono di fronte alle spiazzanti assenze, personificate da Godot, non si nascondono risposte. Le vite strane, alienate, invase con prepotenza dalla solitudine sono poste al centro delle sue produzioni, attraverso i personaggi, da Malone a Bocca, la protagonista di “Non Io”, uomini e donne, derelitti. Ad incorniciare queste esistenze, tali solo grazie alla parola che l’autore dona alle proprie creature, ecco i luoghi, poveri, quasi vuoti: Il salice di “Aspettando Godot”, nel nulla in cui si muovono Estragone e Vladimiro, le stanze spoglie dei romanzi, la distesa d’erba in cui è interrata Winnie di “Giorni Felici”. In ogni particolare sembra riecheggiare questa solitudine, a tratti spaventosa, ma viva, attiva, che ha ancora molto da dire, come sostiene il protagonista de “L’innominabile”, l’ultima opera della trilogia, portato sulle scene da Gassman nel 1967, che, nel finale, così chiosa: “…bisogna continuare, non posso continuare, e io continuo”. Sembrano reagire tutti allo stesso modo, questi individui reietti, finiti, eppure ancorati con le unghie all’esistenza, disposti a dire tutto, fino alla fine, ad essere, perché no, felici, a rendere omaggio alla Vita. Beckett non ha mai promesso risposte, e non ha mai dato spiegazioni. Le sue opere sono storie intense, commoventi, divertenti. Fanno pensare. Non regalano certezze. Ed è per questo che tutti gli autori successivi non hanno potuto fare altro che confrontarsi con il genio che ha lasciato nel teatro. Nell’anno del centenario, numerose sono le iniziative per ricordarlo: a Londra e a Dublino, con due festival a lui dedicati, ad Oxford con una serie di letture e riflessioni, mentre a Parigi, fino a giugno 2007, con continue rappresentazioni nei teatri.

Chiara Caprio

12 dicembre 2006

"FIDUCIOSI" A SENSO UNICO

Dopo l’approvazione della finanziaria alla camera, il solito Schifani ha definito vergognoso l’utilizzo della fiducia da parte della maggioranza. E a ragione. Nulla infatti è più vergognoso che veder un governo aspettar tanto a metter la fiducia, provocando il parziale snaturamento di una manovra che aveva una sua discreta coerenza interna.

A Schifani ha fatto poi eco il sempre savio e moderato Casini parlando di «esproprio dell’aula» e dimostrando così un’indiscutibile conoscenza del voto di fiducia. Conoscenza che nasce, senz’ombra di dubbio, dall’esperienza diretta: quando erano al potere lui e i suoi amici, la fiducia fu posta addirittura 46 volte - perfino sulla legge anti-droga Fini-Giovanardi e sulla
riforma universitaria.

Infine è giunta l’attesa chiosa berlusconiana: «Il ricorso al voto di fiducia sulla finanziaria è una cosa che non appartiene ai metodi di una vera democrazia». Niente male da parte di un veterano del voto di fiducia come lui. Ma a fronte delle accuse di brogli di Deaglio, che cos’è quest’ennesima uscita berlusconiana, un’auto-confessione?

Francesco Zurlo

11 dicembre 2006

THE DEVIL ON MY ROAD

In the seventh hour, in the seventh day… Le radici sono gelosamente conservate nell’Africa nera. Quella povera e disperata. Lì nascono bambini senza futuro. Già sieropositivi. Già condannati. Eppure i figli di quest’Africa non sono poi così diversi dai loro antenati ridotti in schiavitù e condotti a forza fin nelle Americhe. Se dovessero chiedermi di spiegare cosa sia il blues, di rappresentarlo, seppur in modo spannometrico, andrei con molta semplicità alla ricerca di una fotografia di un bimbo africano. Sceglierei un primo piano. Gli occhioni pronti ad abbracciare tutto intorno. Il vuoto. La desolazione. Tutto ciò mi pare in vero stridente. Intendo dire, associare un genere musicale, quindi un qualcosa di molto vicino ad un’idea generica di svago e divertimento, con la più grande tragedia umana a noi contemporanea, può sembrare strampalato. Tanto più se si riflette sul fatto che la gran parte della musica che ascoltiamo in questo nostro occidente globalizzante deriva in ultima analisi dall’Africa. Rock, Jazz, Metal e vorrei dire musica elettronica non sono che i frutti della medesima pianta. È il blues. Un genere musicale nato negli stati meridionali degli Stati Uniti, con una lunga fase di gestazione, individuabile tra il 18^ secolo e gli inizi del 900. Qui centinaia di migliaia di uomini e donne di origine africana vivevano in condizioni di schiavitù. Unica concessione dei bianchi landowners il canto, utilizzato per accompagnare il lavoro. Il trascorrere dei decenni intanto contribuiva a migliorare, anche se con mille ritrosie e rappresaglie dei bianchi proprietari terrieri, la condizione degli schiavi. Il primo barlume di speranza sembrò poter giungere dalla fede cattolica. I canti di lavoro, detti shouters, filtrati da ideologia “sacra”, e venuti a contatto con la musica eurocolta di matrice bianca diedero vita al gospel. Il blues rimase invece legato ad una matrice più terrena. Accade spesso, addirittura, di imbattersi in brani blues di argomento scabroso, come l’amore erotico, l’alcool, l’oscuro simbolismo o la violenza. I musicologi spiegano questa tendenza come una naturale conseguenza “conservativa” all’imposizione della religione cattolica. La malinconia per la casa perduta, la solitudine, l’abbandono, la tristezza e il nichilismo si ergono a presenza costante e caratterizzante dell’intero genere. Angoscia, timori, pene d’amore. Argomenti che hanno trattato tutti i bluesmen passati alla storia, da Robert Johnson, che secondo la leggenda vendette l’anima al diavolo in cambio del talento, a Skip James. Da Muddy Waters, che ha elettrificato il blues, dandogli una dimensione più urbana e moderna a John Lee Hooker (che ha recitato la parte di sé stesso nel film Blues Brothers). Gli anni 60 furono una vera e propria riscoperta del blues. Alcune rockstar, come Jimi Hendrix, Janis Joplin o Eric Clapton coronarono il loro sogno di suonare coi vecchi maestri blues del Delta del Mississipi, dopo aver tratto ben più di qualche ispirazione. Tutto l’occidente beneficia, almeno musicalmente, dell’eredità del blues e, per estensione, dell’Africa intera. Forse l’argomento “musicale” non è quello più forte da utilizzare per convincere un potenziale interlocutore della necessità di mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi africani, ma può, di certo, aiutare.

Davide Zucchi

9 dicembre 2006

SPECCHI, BRAME E REAMI

Specchio, specchio delle mie brame…” Anche senza essere perfidi e vanitosi come la matrigna di Biancaneve, certo a tutti è capitato di guardarsi in uno specchio; e a molti sarà capitato anche di entrare in una sala degli specchi arredata con specchi contrapposti. Questi, rimandandosi all’infinito le reciproche immagini, provocano in chi si osserva una inattesa e piacevole piccola vertigine. Le sale degli specchi sono state per lungo tempo un elemento architettonico fisso in regge e palazzi nobiliari: vi sono sale degli specchi nella reggia di Versailles, a Palazzo Cisterna e a Palazzo Bricherasio a Torino, a Palazzo Giustiniani a Roma, a Palazzo Ducale a Mantova, a Palazzo Orsetti a Lucca, a Palazzo Zenobio a Venezia, a Palazzo Ducezio a Noto, nel castello Esterhàzy ad Eisenstadt, nel castello di Linderhof, e probabilmente in molte altre residenze di potenti. Alla base della scelta di avere una sala degli specchi ci possono essere stati sicuramente dei motivi oggettivi, come ad esempio il desiderio di giovarsi della apparente moltiplicazione dello spazio e delle luci risultante da questo tipo di arredo, per conseguire effetti di magnificenza e grandiosità. Questo proposito, condiviso da molti regnanti e potenti aristocratici, ci fa riflettere che le sale degli specchi si trovano nei luoghi del potere: la scelta di rivestire le pareti di una sala con numerose superfici riflettenti rimanda allora al desiderio del potente di gestire la realtà e l’apparenza secondo il suo volere.

L’inganno percettivo causato dagli specchi era in effetti solo la punta dell’iceberg di quel filtro o distorsione dell’informazione che, nei tempi passati, i potenti potevano sicuramente esercitare. Si può dire allora che queste sale “pubbliche” delle corti e dei palazzi dell’alta aristocrazia erano delle vetrine, o meglio ancora dei teatri, nei quali il padrone di casa svolgeva il doppio ruolo di autore e di regista. Intorno all’autore/regista comparivano molte altre figure, contemporaneamente attori e spettatori, il cui compito era essenzialmente obbedire e plaudere alle iniziative di chi deteneva il potere. E’ vero che le corti erano spesso teatro di macchinazioni e di intrighi tra gruppi di cortigiani, ma forse le lotte fra i sostenitori di diverse “visioni cortigiane” non erano né ignote né invise al monarca, che probabilmente rafforzava il suo potere mettendo in atto l’antico principio del “divide et impera”. Infatti, come gli specchi che moltiplicano frammenti di immagini rendono arduo distinguere tra reale e virtuale, la moltiplicazione di frammenti di informazione disposta dal potente rendeva assai difficile e insidiosa la costituzione e la stabilità di alleanze con funzione sovversiva. Dunque l’apparente quantità di informazioni messa in scena dagli specchi non alludeva certo alla pluralità dei punti di vista dei sudditi, bensì all’accorta opera di informazione/disinformazione gestita dall’autorità centrale. Tuttavia le sale degli specchi non costituivano soltanto la facciata scintillante del potere politico centrale, ma erano anche luoghi di svago e di sogno, in cui venivano tenuti concerti, feste, letture poetiche e teatrali; le stesse decorazioni fantastiche delle pareti e del soffitto (grottesche, maschere, scene mitologiche, ecc.) indirizzavano il pensiero degli spettatori all’evasione nell’immaginario, piuttosto che alla concretezza dell’azione.

Oggi invece il ruolo dello specchio rimanda più che altro all’interiorità: proprio nell’era dell’ipercomunicazione, favorita dall’ingrandirsi degli spazi comunitari (stadi, piazze, ecc.) e dalla capillare diffusione dei nuovi media, il teatro, la letteratura, la psicanalisi pongono l’accento sulla riflessione sul privato. L’immagine di un soggetto che si riflette in uno specchio diventa quindi sinonimo del soggetto che riflette su se stesso: l’antico gioco di specchi tra essere e apparire si arricchisce allora di nuovi accenti, conservando immutati la sua ambiguità e il suo fascino.

Flavia Marisi

7 dicembre 2006

AlLIBIA' - VA TUTTO BENE

Gli Alibìa, già largamente conosciuti nell'universo indipendente italiano, presentano l' EP “Va tutto bene” -composto da cinque canzoni- che fa da apripista al secondo album “Tra tutto e niente” che verrà lanciato a gennaio 2007 e che è stato prodotto con Giacomo Fiorenza (Yuppie Flu, Moltheni, Benvegnù, Parente, Giardini di Mirò, Offlaga Disco Pax) . Come nello stile della band anche questo lavoro presenta intrecci vocali ed elettronici con l'uso di loop e synth. Se l'album seguirà la stessa scia di questo EP, allora siamo di fronte ad un gran bel lavoro della band campana. Il singolo scelto per lanciare il nuovo album è “Va tutto bene”, di cui è stato girato anche un videoclip che troviamo all'interno del cd come traccia rom. Come se non bastasse il video - che è stato girato dal regista Stefano Bertelli per Run Multimedia - ha già vinto in anteprima (luglio 2006) la rassegna Animaclip del Giffoni Film Festival come miglior videoclip in animazione dell’anno. Il singolo e l'EP stesso sono stati lanciati ufficialmente il 20 ottobre, mentre il 28 ottobre è iniziato il tour promozionale. Un disco da non lasciarsi sfuggire, provare per credere.

Antonino Marsala

1 dicembre 2006

CONSIGLI PER ACQUISTI IN MUSICA

Mi sembra doveroso iniziare la carrellata di dischi con l’istrionico, zingaresco, minotauresco(chi ha assistito di recente ad una sua performance live potrà certamente confermare la vocazione taurina del Vinicio nazionale) Capossela che pubblicando nel gelido gennaio scorso “Ovunque Proteggi” ha deliziosamente riscaldato cuori e padiglioni auricolari dei fans con le sue ricercate melodie e la sua voce roca.
L’aggettivo più calzante per “Ovunque Proteggi” è: eterogeneo…scordatevi la compattezza di sound/tematiche del precedente “Canzoni a Manovella”. Tanta varietà è limite e forza nello stesso tempo. Limite, poiché l’album appare poco coeso, direi quasi sfilacciato. Forza, perché Vinicio si trova a perfetto agio nel muoversi tra diversi generi musicali, nel gestire musicisti d’ogni estrazione gusto e stile(Roy Paci (tromba), il newyorkese Marc Ribot (chitarre), Stefano Nanni (piano), Ares Tavolazzi (ex-Area) al contrabbasso e Gak Sato all'elettronica).
Ne scaturisce un viaggio musicale tra il mito(Barbari della Colchide/ I vapori s'alzano nell'ombra) e il quotidiano(Affanculo questa serietà/ Questa lealtà/ Tutta questa impresa/ Poi il sabato all'iper a far la spesa) tra l’ossessione carnale, l’immanente, il viscerale(Patimento della carne/ Corpo sacro della carne/ Compassione della carne/ Fuoco fatuo della carne) e la suggestione del sogno, il trascendente, il misticismo(E accesi sui pennoni/I fuochi fatui, i fuochi alati /Della Santissima/Dei naufragati). Un disco importante.

Ora preparatevi ad un salto spazial/stilistico: dall’Italia alla Scozia, dal cantautorato al post-rock. I Mogwai tornano dopo un latitanza di tre anni e ci regalano “Mr. Beast”. La band di Glasgow prosegue il proprio discorso musicale con coerenza ed uno stile unico, frutto di un lavoro di raffinamento e rielaborazione lungo un decennio. “Mr. Beast” alterna cavalcate esplosive a delicati intermezzi melodici, crescendo sporchi, inquinati da glitch elettronici e distorsioni, che lasciano improvvisamente spazio ad arpeggi dal gusto romantico(senza cadute nel melenso). Insomma, la band “ppò èsse piuma e ppò èsse fero” come la mano del camionista interpretato da Mario Brega in “Bianco, rosso e Verdone”(perdonatemi il paragone ma lo trovo quantomai appropriato). Ennesima riconferma.

Segnalazione lampo per “Lantern” dei Clogs. Siamo sempre nel post-rock, questa volta contaminato con la musica da camera. Tra morbidi riff di chitarra, pennellate d’archi e rarefatte note di basso ci muoviamo in un paesaggio crepuscolare. Malinconico.

Concludo con il mostro di esuberanza Thom Yorke (ogni volta che ascolto il suo cd in auto e disgraziatamente ci sono altre persone a bordo vengo investito da una sequela di: “togli questa roba deprimente!” e frasi dal significato equivalente. Musica da party, insomma). Allontanatosi temporaneamente dai Radiohead, il simpatico ragazzotto del Northamptonshire(bel nome per distretto territoriale) sceglie l’elettronica per il suo esordio solista. “The Eraser” non delude ma neppure convince pienamente. Le nove tracce scorrono via lisce, il marchingegno è presto svelato: una base elettronica, una linea melodica dolce, la splendida voce di Thom a ricamare, amalgamare, accompagnare. Alla lunga stanca.

Enrico Gaffuri