13 gennaio 2008

DIALOGO IN CORSO

a cura di Daniele Grasso, Giovanni Cinà e Chiara Caprio

OLTRE I MURI

I giovani musulmani in Italia tra fede e integrazione
Omar Abdel Aziz è un ragazzo che non ti aspetti. Vent’anni, l’aria seria e l’abbigliamento decisamente occidentale. Nulla di strano, se non che si tratta di un giovane musulmano, membro attivo dell’associazione "Giovani Musulmani". Ma i pregiudizi e le immagini a cui siamo abituati portano a credere che le differenze si notino già dall’apparenza.
"E’ normale" spiega Omar "la gente si aspetta che vedere un musulmano voglia dire vedere un vecchio uomo con la barba, che se non fai attenzione ti fa saltare in aria. E’ semplicemente lo stereotipo che i mass media fanno passare quotidianamente".
I "Giovani Musulmani" nascono nel 2001 dall’ esigenza di quattro ragazzi, provenienti da diversi paesi arabi, di creare un luogo di associazione, di scambio culturale e religioso tra musulmani. Oggi, dopo sei anni, hanno sedi a Milano, Roma, Reggio Emilia e Bologna, e presto sarà fondato anche un gruppo scout musulmano. I.G.M. di tutta Italia si riuniscono annualmente a livello nazionale per incontri, riguardanti la formazione religiosa e la comunicazione della propria esistenza sociale. "Questo per noi è un punto fondamentale: le immagini con cui siamo quotidianamente etichettati dai media creano nella società in cui cerchiamo di vivere da cittadini normali sono degli stereotipi che ci fanno male" spiega Omar "naturalmente per noi le risposte a questi attacchi mediatici sono nei versetti del Corano. Tra quelle righe non c’è traccia del binomio terroristico religione-omicidio. E tramite l’associazione abbiamo trovato un luogo in cui riscontrare questa verità".

Ovviamente tra i Giovani Musulmani ci sono anche alcune ragazze, attive e libere quanto i loro colleghi maschi. Non tutte portano il velo, e ciascuna può decidere se mantenere o meno questa tradizione. "Un’ abitudine sbagliata tipica degli occidentali è quella di confondere la religione con la tradizione" spiega Omar "nel Corano non ci sono passi in cui si dica che la donna debba indossare il Burqa: è esplicito l’ ammonimento a coprirne il corpo e le sue forme, ma non le mani e il volto. Quando vedo in televisione donne interamente coperte dal burqa mi chiedo perchè lo facciano. La risposta in realtà è nelle tradizioni del paese, e non nei dettami islamici".
La motivazione infatti sta nel nascondere della donna la sua parte più provocante, la stessa, per intenderci, che spopola sui giornali e nelle pubblicità occidentali. "Se in Arabia Saudita le donne non possono guidare e in Iran non possono uscire, a meno che non siano accompagnate da familiari stretti, è una questione di tradizione legata al Paese" chiarisce Omar "nel caso di questi due Paesi, tra l’altro, il primo non è considerabile come islamico, poichè è solo a maggioranza islamica, ed è retto da una monarchia assoluta". Una forma di governo che con i messaggi coranici non può coincidere: il profeta stesso, agli atti fondanti dell’Islam, prendeva decisioni per la comunità nella Sura, un’assemblea democratica. Ma alle orecchie occidentalizzate risulta addirittura strano accostare le parole "democrazia" e "Islam" all’ interno di una frase. "Non bisogna dimenticarsi che in molti casi le dittature nei paesi arabi sono state sostenute da governi occidentali con lo scopo di ricavarne immensi proventi economici. Gli islamici tagliagole spesso uccidono con lame occidentali" afferma Omar. Ma il fondamentalismo esiste, sarebbe inutile negarlo, tanto nei paesi islamici quanto in quelle persone che da quei paesi sono emigrate in occidente.
Come nel caso di Hina, la ragazza di Brescia uccisa dal padre perché rifiutava di mettere il velo. "E’ una realtà con cui si ha a che fare nella comunità islamica, anche se nel mondo giovanile della nostra generazione, fatta di ragazzi cresciuti qui, è difficile che rimangano retaggi così forti" spiega Omar "naturalmente questo è un argomento che trattiamo negli incontri dei Giovani Musulmani: è fondamentale per noi riuscire ad intervenire al meglio nella società italiana rimanendo però portatori dei valori della nostra fede".
Dunque, esistono differenti interpretazioni all’ interno delle stessa dottrina religiosa. "Infatti se i cattolici hanno il Papa e le comunità ebraiche un Rabbino capo, le comunità islamiche non hanno qualcuno che si faccia interprete del messaggio coranico a livello universale" prosegue Omar "ognuno dice la sua insomma. Questo da maggiore libertà di interpretazione, naturalmente con le conseguenze che ciò comporta, nel bene e nel male".

Se per uno come lui, che si dichiara cittadino italiano di religione islamica, questo aspetto rappresenta un continuo spunto riflessione, bisogna volgere lo sguardo un po’ più indietro e riflettere sulla condizione della generazione precendente. "Chi, come mio padre, arrivando in Italia più di 20 anni fa dall’ Egitto, si è ritrovato catapultato in una società in cui è normale trovare donne seminude sui cartelloni pubblicitari ad ogni angolo della strada...capisci che ci rimane!" spiega Omar "Di conseguenza spesso i padri vedono l’ imposizione, ad esempio, del velo alle figlie come un modo per proteggerle dal poter diventare carne da macello di quel mondo occidentale di cui ancora non si fidano. E’ una questione molto spinosa".
Alla quale però un’ associazione come i Giovani Musulmani cerca di dare una risposta indubbiamente positiva, ponendosi soprattutto come punto di partenza per il mantenimento e l’applicazione della fede islamica nella società in cui vivono, un’attività che ha portato anche a conversioni, come quelle dei circa venti ragazzi milanesi che sono passati dalla religione cristiana all’Islam.

Ma il pensiero corre anche alla situazione internazionale, e in particolare alla guerra nei territori palestinesi. "Naturalmente noi soffriamo ogni giorno per quello che accade in quei territori, ma bisogna fare attenzione a non cadere in facili equivoci sul conflitto" prosegue Omar "E’ pericoloso considerarlo una questione puramente religiosa, trattandosi in realtà di uno scontro tra il popolo Palestinese e quello Israeliano. Noi cerchiamo di dimostrare che non c’è odio tra le due religioni, come abbiamo fatto qualche anno fa, con un incontro con l’ U.G.E.I. (Unione Giovani Ebrei Italiani) al Castello Sforzesco. Senza morti né feriti".
Collaborazione con le associazioni ebraiche, ma non ancora con quelle cattoliche. Omar però assicura che l’unica ragione è la mancanza di occasioni. "In realtà io, frequentando l’Università Cattolica, sono quotidianamente in contatto con loro, ma in alcuni casi, come per una mia collaborazione con il giornalino universitario, mi sono sembrati troppo impostati e poco disposti ad allargare i propri orizzonti".
L’auspicio è che le prove di sintonizzazione non si esauriscano qui.

Daniele Grasso



DALL'UGEI A KIDMA

Ecco chi sono i giovani ebrei italiani
Nonostante la presenza discreta e poco visibile, esistono ben ventuno comunità ebraiche in Italia, ciascuna guidata da un rabbinato autonomo. I gruppi sono poi riuniti nell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), che ha il compito fondamentale di rappresentarli a livello nazionale, anche se, dal punto di vista religioso, non esiste un organo centrale che li indirizzi in modo unitario, ma l’interpretazione del rabbino capo è quella in cui si riconosce la comunità a lui sottoposta.
Le attività del mondo ebraico hanno anche una ramificazione giovanile, indipendente da quella degli adulti.
Gad Lazarov, vice presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia e responsabile dei rapporti con World Union Jewish Students e European Union Jewish Students, è uno di quei giovani ebrei italiani che si impegna a sviluppare e far conoscere la propria realtà, proprio attraverso la costituzione di alcuni nuclei di riferimento, come l’UGEI stessa. Dopo l’esperienza in Hashomer Hatzair e Benè Hakiva, due associazioni che s’ispirano allo scoutismo, una più laica ed una più religiosa, il passaggio ad un impegno più forte è venuto da sé. Prima con la partecipazione a Kidma (continuazione di Hashomer Hatzair per i più grandi), successivamente con l’adesione all’UGEI. "L’UGEI è un’emanazione diretta dell’Unione delle comunità, da cui riceve gran parte dei finanziamenti, ma nonostante questo gode di molta autonomia" spiega Gad "non siamo tenuti a seguire ogni direttiva, anzi, ci è capitato più volte di trovarci in contrasto, anche attraverso articoli, come quelli apparsi su Hatikva, il giornale dei Giovani Ebrei d’Italia". Naturalmente entrambe le associazioni hanno una linea ben definita.
"Sia per l’UGEI che per Kidma il richiamo allo stato di Israele è forte. Chiaramente entrambe sono per la pace, democratiche" prosegue Gad "se però l’UGEI è apolitica e apartitica, Kidma è più legata alla sinistra italiana. Questo non significa che l’UGEI non faccia politica, ma avendo una struttura elettiva cambiano i vertici e cambiano di conseguenza anche gli orientamenti. Questa rappresentatività chiaramente ti dà più autorità. UGEI è più rivolta alle istituzioni, Kidma lavora su un altro livello. Potremmo vedere l’UGEI come un governo e Kidma come un partito".

Per quanto riguarda gli scopi primari delle associazioni, entrambe perseguono una doppia finalità. Una interna, volta alla costruzione e al mantenimento di una comunità coi suoi interessi, ed una esterna che mira alla sensibilizzazione culturale. "L’attività di entrambe le associazioni è culturale-politica: organizzazione di incontri, conferenze stampa alla Camera, dibattiti, campagne di sensibilizzazione" spiega Gad "inoltre diamo la possibilità ad ogni ebreo, dal più laico al più osservante, di partecipare alle nostre iniziative, attraverso piccole attenzioni, come il non organizzare attività il sabato o distribuire cibo kosher". I temi affrontati rispecchiano la realtà che li circonda, e sono quelli più scottanti: dalla fecondazione artificiale alla crisi del Darfur, fino all’antisemitismo e all’islamofobia, passando per il rapporto tra religione e sessualità. Gli eventi che organizzano si rivolgono a tutti e vedono spesso la partecipazione di personaggi di rilievo, come i parlamentari Piero Fassino, Gianfranco Fini e Daniele Capezzone, oltre a tanti esponenti delle maggiori religioni. Ma un posto importante è occupato certamente dalla Giornata della Memoria, arricchita però da testimonianze diverse, come quelle di Rom sopravvissuti ai campi e di persone scampate ai genocidi in Ruanda, per non limitarsi alla commemorazione di una tragedia ebraica, ma cercare di proiettarsi nel futuro, in un’ottica propositiva. L’occasione porta anche a constatare che ogni volta si spera che non accada mai più, e invece le storie si ripetono."Come si è visto anche nel caso recente di quel rumeno a Roma, il rischio è sempre quello di discriminare tutta una comunità" afferma Gad.
Fondamentale è stato anche l’incontro con i Giovani Musulmani. "Questi incontri con i giovani musulmani sono molto importanti dal punto di vista del gesto, si imparano tante cose sulle usanze, si capiscono gli stili di vita. Abbiamo fatto anche un torneo di calcio interreligioso con loro" spiega Gad "Non credo però che servano ad istituire un dialogo su altri livelli. Il problema è che loro vogliono confrontarsi su un piano teologico, mentre a noi interessa il piano politico e culturale. Il fatto di essere ebreo non implica l’essere ortodossi o buoni conoscitori dei testi sacri". Tuttavia se per gli ebrei la trasmissione per nascita della fede ha contribuito a creare un’unità identitaria molto forte, lo stesso sembra non essere avvenuto nel mondo musulmano. "La comunità islamica è frammentata" aggiunge Gad "anche le moschee di Milano sono a volte in disaccordo tra loro. Per esempio chi frequenta la moschea di Segrate non riconosce chi va nella moschea di Via Padova, ed entrambi vogliono differenziarsi da chi frequenta quella di Viale Jenner. Se avessero un solo rappresentante eletto sarebbe più facile far sentire la loro voce. C’è anche da dire che la comunità ebraica vive in Italia dal 70 a.C., sono 2000 anni e più, mentre la comunità islamica ha una presenza considerevole in Italia solo da 15/20 anni".

La frammentazione del mondo islamico però, non è solo un problema milanese. Alla luce del recente accordo di Annapolis tra Olmert e Abu Mazen, per l’avvio di negoziati tra palestinesi e israeliani, la questione si fa importante. " Purtroppo anche a livello internazionale non c’è una posizione univoca nella parte islamica" afferma Gad "le diverse fazioni si scontrano tra loro, con il risultato che non si può ottenere la pace e i palestinesi sono discriminati dagli stessi arabi. In Libano i palestinesi non possono esercitare 71 mestieri". Per questo Gad auspica un cambiamento anche sul fronte musulmano. "L’unione delle comunità dovrebbe essere adottata anche dai musulmani" spiega "finchè non faranno un’opera di mediazione tra di loro e non parleranno con un’unica voce non potranno far valere le loro ragioni". Un altro fattore fondamentale è l’unione dell’esercito. Infatti con le milizie separate sarà impossibile ristabilire l’ordine e, di conseguenza, il controllo politico sul territorio. "in ogni caso Annapolis è solo un primo passo, anche se ci sono state delle aperture importanti" afferma Gad "bisognerebbe però che si riconoscesse a Israele almeno l’esistenza di fatto, se non di diritto. Se non riconoscono Israele come interlocutore, la trattativa non può andare avanti".
Con il presupposto che la conoscenza sta alla base della comprensione, l’impegno fondamentale che queste associazioni portano avanti è quello di diffondere la cultura ebraica. Non per volontà di proselitismo, ma per costruire un valido e positivo dibattito interculturale. Ma sembra vi siano alcuni ostacoli, a partire dall’insegnamento della religione nella scuola pubblica. "L’unilateralità nell’educazione religiosa è una mancanza della cultura italiana" spiega Gad "per esempio, la religione cattolica predilige il nuovo testamento al vecchio".
"Negli Stati Uniti, c’è una apertura molto maggiore, frutto anche di un’operazione culturale fatta da intellettuali, come scrittori o registi" prosegue Gad "In Italia, tolte le grandi città, l’educazione è ancora fortemente impregnata di cattolicesimo. Io sono molto favorevole all’insegnamento della religione cattolica, ma nelle scuole bisognerebbe insegnare storia delle religioni, non fare catechismo. La chiesa stessa dovrebbe fare dei gesti di riavvicinamento alle altre confessioni religiose".
Altro aspetto che confonde e dimostra una mediocre conoscenza del mondo ebraico da parte degli italiani è la difficoltà a scindere l’ebreo, colui che professa la religione ebraica, dall’israeliano, la persona che abita nello stato d’Israele. "Israeliano ed ebreo sono molto diversi per mentalità" spiega Gad "gli israeliani hanno molto di più il concetto di laicità". La costruzione delle istituzioni di Israele ha portato a riferimenti identitari diversi da quelli tradizionali, alla possibilità di creare un mondo ebraico nuovo, dove non ci si lascia opprimere, ma si combatte per se stessi, per difendere la propria fede e i propri valori. Da questo possono nascere anche esperienze impensabili, come i kibbutz. "La partecipazione è volontaria e non imposta. Ognuno si esprime sugli aspetti decisionali della vita del kibbutz" racconta Gad "si può scegliere se lavorare la terra, se lavorare in fabbrica, in cucina". Un ambiente diverso, unico nel suo genere e testimone di uno stile di vita, attraverso cui molti giovani, anche non ebrei, possono così provare questa forma di comunità e mettersi in contatto con uno degli aspetti importanti della cultura ebraica e israeliana.


Giovanni Cinà

11 gennaio 2008

BARI-MILANO SOLO ANDATA

E’di nuovo esodo verso il nord. Negli anni ’60, quelli del boom economico, i lavoratori del sud Italia si trapiantarono in massa nelle nebbiose città del nord in cerca di occupazione. Mentre in quegli anni però si trattava per lo più della fascia più povera e meno istruita della popolazione, oggi il fenomeno migratorio interessa i neo-laureati e gli studenti universitari.
I dati 2006 del Miur registrano in Italia quasi 350000 studenti fuorisede, di cui gran parte originari del meridione. In particolare, la regione con esodo maggiore è la Puglia (46353 fuorisede), seguita rispettivamente da Calabria, Campania e Sicilia. Specularmente, le ragioni con maggiore affluenza sono Emilia Romagna, Lazio e Lombardia.
Secondo le indagini condotte, alla base del “fenomeno migratorio” le ragioni più comuni non sono, come parrebbe ragionevole pensare, l’assenza della facoltà scelta nel territorio di provenienza o un presunto maggior prestigio degli atenei settentrionali. Il motivo maggiormente indicato dal campione di intervistati da Studenti.it , si è rivelato essere il desiderio di intraprendere un’esperienza per maturare, lontano dalla casa paterna; anche se ciò non spiega l’andamento verticale e unidirezionale dello spostamento da sud a nord.
L’incognita sul perché il centro-nord venga considerato una meta tanto ambita per gli studi universitari viene alimentata dal fatto che alcune tra le città maggiormente colpite dall’esodo, come Foggia, Catanzaro e Messina, vantano un ateneo molto ben qualificato, in molte classifiche meglio collocato delle più frequentate università del settentrione. Anche se, ad onor del vero, è importante sottolineare come tali classifiche siano basate su parametri che non tengono conto di questioni che, per quanto non meramente didattiche, risultano comunque essenziali per il lavoro degli studenti, come ad esempio i servizi bibliotecari che, soprattutto in Puglia e in Sicilia, risultano essere piuttosto inadeguati.
Occorre a questo punto riflettere sulle ripercussioni di tale fenomeno sull’economia del meridione.
Un’indagine della Federconsumatori ci indica che mediamente uno studente fuorisede assorbe circa il 29% del budget familiare. La spesa più ingente è senza dubbio l’affitto, non certo modico, come ad ogni universitario sarà capitato di notare con uno sguardo più o meno distratto a una bacheca di annunci. In generale il mercato dei fuorisede muove in Italia circa 3 miliardi e mezzo di euro all’anno. Di questi, quasi 2 miliardi provengono dalle regioni del sud. Ed è ancora una volta la Puglia a subire le perdite maggiori: quasi mezzo miliardo di euro all’anno che intraprendono un viaggio senza ritorno verso le regioni del nord.
Le perdite economiche però non riguardano il solo capitale monetario. Le regioni interessate sono affette anche da quella che, con un cliché spesso abusato, è definita la “fuga dei cervelli”. Il dato più preoccupante infatti è che l’assoluta maggioranza di coloro che si trasferiscono per compiere gli studi universitari, una volta conseguita la laurea non fanno ritorno alla loro terra di origine, causando a questa un’ingente perdita di risorse umane. Le ragioni del mancato ritorno al paese natio vengono individuate da Paolo Citterio, presidente di Gidp (Associazione Direttori Risorse Umane) nell’ assenza, nel sud, di un’autentica rete industriale che possa offrire, oltre al pubblico impiego, concrete opportunità lavorative anche in aziende private; è inoltre significativa la testimonianza portata dalla Rivista Economica del Mezzogiorno, secondo cui al sud un laureato su quattro trova un’occupazione unicamente tramite conoscenza.
Sembra dunque che la ben nota difficoltà di inserimento per i giovani nel mondo del lavoro nel mezzogiorno risulti amplificata.
Rispetto agli anni della Grande Migrazione dunque, l’odierna fuga verso nord non è più, nella maggior parte dei casi, un’ impellente necessità. Sembra rivelarsi piuttosto una precisa e ponderata scelta, scaturita da esigenze di indipendenza e dalla volontà di assicurarsi un avvenire lavorativo più stabile, scelta legittima, che però va a scapito del progresso economico della regione d’origine.
Forse è solo un’impressione, ma nonostante il legame molto forte che tanti studenti fuorisede mantengono con la terra di provenienza, l’atmosfera di dolente nostalgia che accompagnava le migrazioni del ‘900 sembra oggi sopita. Tutto il mondo è paese, le realtà locali costituiscono il punto di partenza, ma l’approdo è spesso dato dalle grandi città del centro-nord, dove i giovani vanno a studiare e dove spesso decidono di restare.

Laura Carli

2 gennaio 2008

CONVERSANDO COI MARTA SUI TUBI



La location non poteva essere diversa. Piccolo palco, tetto basso, dietro le quinte fumoso. I Marta Sui Tubi, band indipendente allergica ad ogni classificazione, sono una piccola pietra preziosa densa di fascino. La Casa 139 di Via Ripamonti ha ospitato per diverse notti le scorribande del trio siciliano, ma questa volta tocca solo al chitarrista Carmelo Pipitone accompagnare le melodie di un altro performer indipendente, il cantautore Moltheni. A metà fra il pubblico e il bancone del bar la voce dei Marta, Giovanni Gulino, ha ascoltato bevendo. E’ molto diverso il sound di Moltheni rispetto a quello dei Marta Sui Tubi. "Certamente – dice Carmelo – suonare con lui è decisamente meno impegnativo. Si tratta di stili completamente diversi."
E difatti l’energia degli MST emerge da ogni nota. L’ultimo album, "C’è gente che deve dormire", sprigiona intensità anche dai brani apparentemente meno lambiccati. Il virtuosismo di chitarra e lingua sembra essere il filo rosso della produzione della band, nata e cresciuta nell’entroterra siculo, in seguito forgiatasi fra Bologna e Milano.


La vena ironica e scapestrata dei testi non è artefatta, e l’intervista, che procede fra tante freddure e qualche nonsense, lo dimostra.




All’appello manca il batterista Ivan Paolini. Dove l’avete lasciato?
"Non sappiamo. Forse dorme oppure è morto. Di solito resuscita come Nosferatu, però ultimamente non era messo bene. Un po’ troppo pallido. Magari fra due o tre mesi saremo costretti a cambiare batterista."



Allora sbrigatevi a pubblicare un nuovo album!
"In effetti è nei programmi. Ci stiamo già lavorando".



Come nasce un vostro brano?
"Per organizzazione aziendale – spiega Giovanni – io ho l’appalto dei testi e Carmelo della musica. Tuttavia, periodicamente, qualcosa si può accavallare. Si, ogni tanto ci accavalliamo…metaforicamente parlando. Prima viene fuori un giro di chitarra, poi io scrivo le parole con molta fatica e sofferenza. A volte possono passare anni prima che un brano venga ultimato".


"E infatti – interviene Carmelo – il nostro primo album Muscoli e Dei è stato scritto nel ‘75".



È terminato un 2007 intenso per i MST, caratterizzato da esibizioni in giro per l’Italia. Le prossime tappe del trio marsalese saranno Festivalbar e San Remo?
"Abbiamo fatto tanti festival suonando pure sopra un bar. Vale lo stesso? Per quanto riguarda San Remo il problema è che non siamo cattolici. Però tentiamo quotidianamente di avvicinarci alla dottrina."



Nonostante molti vi definiscano ancora gruppo "emergente" voi suonate da un bel po’ insieme…
"Infatti "emergente" è un termine del cazzo! In Italia ti definiscono così solo perché non entri in classifica, ma ciò non significa che non suoni da tanto tempo. Del resto, si sa, questo è un Paese provinciale. Al massimo siamo emergenti perché stiamo ancora a galla!"



Cosa pensate quando notate che il main stream discografico è zeppo di musica molto discutibile?
"In realtà credo sia giusto che ognuno sfrutti i propri contatti. Del resto la qualità non è oggettiva e il giudizio finale spetta sempre al pubblico – intanto Carmelo si è allontanato accendendo quella che, in apparenza, sembra essere una lunga sigaretta – Oggi la scena italiana è piena di buona musica, basta saperla cercare. E’ sufficiente citare Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Teatro Degli Orrori, Disco Drive. L’essere o meno indipendente ha, in fondo, poco significato. L’importante è fare della musica che piaccia. Noi ascoltiamo anche autori del main stream: apprezziamo brani dei Black Eyed Pease o di Fabri Fibra."



L’anno scorso vi siete esibiti in condizioni molto singolari: dentro un igloo, in montagna, a migliaia di metri d’altezza. Come è nata l’idea?
"L’idea è della nostra agenzia di promozione. Si trattava di una vera e propria gabbia di ghiaccio ed è stato molto difficile suonare. Tuttavia, ci siamo divertiti parecchio. Inoltre, il concerto sul ghiaccio sarà documentato nel nostro ultimo DVD, prossimo all’uscita nei negozi. Una parte verrà dedicata ai live del tour, un’altra ai video delle canzoni ed una proprio all’esibizione sulla neve. Ed in più sarà Tamburi Usati, la nuova casa discografica fondata direttamente da noi, a pubblicare il DVD".




L’originalità è un vostro marchio di fabbrica. I testi, molto particolari, delle canzoni spesso resistono anche oltre la musica. Giovanni, ti verrà mai in mente di pubblicare un libro?
"In effetti io ho sempre scritto. Molte cose che penso non diventano canzoni e restano chiuse nel cassetto. Tuttavia non le apprezzo molto, anche perché sono decisamente critico rispetto a quello che faccio. Chissà, magari un giorno... Del resto, per quanto scrivere abbia sempre fatto parte delle mie fantasie, ora mi sento decisamente più musicista che scrittore.



Ultima domanda di banalissimo taglio: cosa consigliereste ad un giovane che nella vita intende fare il musicista?
"Deve solo comporre belle canzoni. L’ultima parola spetta al pubblico. E’ necessario chiedersi sempre: la gente ha bisogno di quello che sto facendo? Sono sufficientemente originale? E’ troppo facile innamorarsi delle cose che si fanno, ma a quel punto si tratta di una sorta di masturbazione. Bisogna produrre delle idee che diventino di tutti. Questo è il senso dell’artista.



Gregorio Romeo

1 gennaio 2008

EDITORIALE GENNAIO 2008

E’ uno strano paradosso che le formazioni politiche nascenti, il Pd e la Cosa berlusconiana, partorite tra sfinimenti pirandelliani o adunate pop, ci sia ancora così poco spazio per i giovani. Perché, infondo, messe da parte le hostess da convegno e le veline engagée, non si vede uno straccio di politica giovanile. E sfido. Chi la perseguisse dovrebbe praticare scelte poco politically correct: sfidare sindacati che drenano quel poco che resta di stato sociale, combattere lobby ottimamente rappresentate a Montecitorio, abolire gli ordini professionali, introdurre criteri meritocratici nell’istruzione, selezionare il personale docente, superare una costituzione che paralizza i Governi, colpire chi truffa in ogni settore, ceto e latitudine. La vera, rivoluzionaria giustizia sociale oggi passa attraverso trasformazioni radicali e trasversalmente impopolari. Una rivoluzione che contrappone vecchi e giovani, come tutte quelle che la storia ci ha consegnato.
Luca Gualtieri

DA DC A DC

Mi stupisce molto sentir parlare del futuro della sinistra. E più ancora di riempire uno spazio vuoto a sinistra del Pd. Stare a sinistra del partito democratico vuol dire stare fuori dal governo. A vita. Già, perché qualsiasi legge elettorale che partorirà il mega-utero di Donna Veltroni, fecondato dalle semenze di Berluscone, non prevedrà mai più un’alternanza al potere, tanto meno, per la nuova "Sinistra Arcobaleno", che, spogliata della falce&martello, vuol darsi una parvenza di credibilità, posteggiando un Mussi in guardiola ed un Ferrero ad amministrare il baraccone. La sinistra è morta o non è mai nata. Intendo una sinistra europea, di governo, una sinistra di tradizione socialista, persino laburista, direi. All’Italia è sempre mancato il socialismo, o meglio la socialdemocrazia, cosa che i nostri colleghi (Europei Sapiens) hanno sempre avuto ben presente. In Italia un Partito Comunista irresponsabile, finto battagliero, che patteggiava con un centro cattolico gattopardiano, ha contribuito a fascistizzare consapevolmente il nostro paese. A deprimerlo. Lo ha privato di quella spinta al nuovo, al progresso, che invece è caratteristica principale della vera sinistra europea, con la quale i nostri fortunati vicini hanno vissuto le stagioni più floride. E ora ci aspettano altri trent’anni di immobili sballottamenti tra il Pd (la "Dc de sinistra") e il Pdl (la "Dc de destra").
Fabrizio Aurilia

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 n. 14


Quattordici è un bel numero per finire. La prima puntata di questa superficiale, maliziosa e pruriginosa rubrica (al film di natale questa pagina gli fa una pippa) esordiva citando gli Afterhours. Come nostri Numi, questi musicisti anni ’90 milanesi ci hanno tutelato per tutta la durata di questa penosa traversata nel deserto, fatta di inconcludenza, di ritardi clamorosi nella consegna dei pezzi, di mononucleosi, di sconforto e ribrezzo per la sorte dell’Italia. Ed è proprio questo sconforto che, dopo avermi prostrato e costretto a tre giorni di divano, in compagnia di ben due documentari sul Feldmaresciallo Rommel, mi ha fatto capire che è ora di finire di menare il can per l’aia, come direbbe un allevatore fino a poco prima in collera col proprio cane in un’aia. Voglio occuparmi di vero giornalismo, voglio scendere in strada, fare la cronaca, raccontare il mio tempo. Ecco perché giungo in questa sede a ripudiare ogni cosa che abbia riguardato gli anni ’80: i Prefab Sprout, Marco Predolìn, Marco Columbro, la profezia che feci sulla vittoria dei Mondiali, il povero Michael J. Fox e le sue dinamiche scalate al successo, i dischi di Tony Brando (specialmente "Collant, Collant"), il videogioco delle Olimpiadi nel quale vince sempre il bianco e il nero subisce l’onta della deportazione a Treviso, tutti i giocattoli di quel maledetto decennio (compresa la loggia P2), le pubblicità sul Natale a casa dei manager prima che venisse scoperta la cocaina, le meteore della canzone che proponevano testi pornografici (ricordo "Hop Hop Somarello" e "Ping pong"), e tutta la classe dei ragazzi della Terza C. Non vedo l’ora di occuparmi dei nuovi Olindo Romano, delle storielle sessuali di Alberto Stasi, dell’ennesima marachella di Anna Maria Franzoni e dei suoi 152 figli, di Berlusconi che fa parlare Chavez con Aida Yespica mentre Ferrara si pasce, ignaro, in una linda vasca da bagno. Se qualche lettore là fuori si dispiacerà della chiusura di questo spazio, allora vorrà dire che in quattordici puntate non sono riuscito a veicolare alcun messaggio, alcuna morale. Bene. Eccellente. E’ proprio quello che volevo. Ripercorrere il "decennio infame" in modo così frammentario e decostruito, è stato quanto di più superficiale vi potevate aspettare da questo giornale, definito in passato come "qualche migliaia di parole un po’ pallosette". Ma adesso basta: l’attualità ci attende. Un mio amico, vedendo un bambino che sedeva su di una rovina romana alle Terme di Caracolla, gli urlò: "scendi scemo!". Quello scese. Scendete anche voi dalle rovine di quegli anni. Gli Afterhours dicevano in una loro canzone che la fine è la cosa più importante.

Fabrizio Aurilia