1 dicembre 2008

QUESTO MATRIMONIO NON S'HA DA FARE?

I primi di giugno a Viterbo si è consumata una storia di ordinaria intolleranza. Forse non così ordinaria, dato che il gesto di discriminazione proviene da chi predica la tolleranza come valore.
Il caso del ragazzo rimasto paralizzato a due mesi dal matrimonio e che decide di procedere ugualmente, senza nemmeno rimandare le nozze, è già commovente. La trama però si colora di tristi tinte dickensiane quando la giovane coppia si trova davanti un ostacolo imprevisto: “Questo matrimonio non s’ha da fare”, dice il vescovo di Viterbo. La motivazione? Il ragazzo non è più in grado di farsi onore perpetrando la specie. La sensibilità collettiva rimane turbata, mentre la Curia si difende sostenendo che si è trattato di una decisione obbligata, conforme ai dettami del magistero cattolico. Questo arroccamento dottrinale, oltre a danneggiare la coppia, rischia di riportare in auge il crudele concetto di malattia e deformità percepite come colpa e, soprattutto, non corrisponde al sentire dei fedeli, sempre più inclini ad un cattolicesimo “liberal”, se non critico. Lo strapotere della Chiesa è indubbio, forte anche del gran numero di fedeli su cui dice di contare. Ammettiamo pure che la mentalità italiana sia inevitabilmente intrisa di cattolicesimo, ammettiamo che il novanta percento della popolazione italiana sia, talvolta suo malgrado, battezzata; mi chiedo però quanti si sentano realmente rappresentati da un’istituzione religiosa così arroccata nella difesa del diritto divino da negare un estremo atto di pietà (penso al caso di Welby), o un significativo gesto di vicinanza a dei giovani che hanno già sofferto molto? Ai cattolici l’ardua sentenza.

Laura Carli

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