Intervista a Neri Marcoré, che ci parla di satira, democrazia e del suo
prossimo film
Ciò che spiazza e colpisce tanto di Neri Marcorè è il suo aspetto low profile: ha un atteggiamento timido, è alto, dinoccolato. Fissa il mondo dal suo metro e 88 con due profondi occhi scuri e un mezzo sorriso divertito. Sembra un pacifico impiegato con una leggera espressione sardonica sul viso. Poi ti sorprende con la sua straordinaria vivacità intellettuale, che emerge non solo durante gli sketch comici, ma anche quando parla, serafico eppure coinvolto, dell'attualità.
Ed è decisamente bravo, uno di quegli artisti polivalenti che molti sognano di essere: recita, canta, imita e, all’occorrenza, fa pure l’accompagnamento con la chitarra. Come ha dimostrato nel suo spettacolo “Un certo signor G.”, omaggio a Giorgio Gaber che lo ha portato in tournèe negli ultimi tre anni e che si è concluso il 2 aprile allo Streheler.
“In un qualche modo abbiamo restituito Gaber alla sua Milano” ha commentato Marcorè lo scorso 26 marzo, ospite in Statale per la terza edizione di “Lezioni d’artista”.
Lo abbiamo incontrato nel backstage; dopo aver firmato autografi e scattato foto ci ha concesso questa intervista.
La prima domanda è: a chi non piace Neri Marcorè? Anche i soggetti stessi delle tue imitazioni si sono rivelati tuoi fan, un esempio su tutti Gasparri. Senti per questo in qualche modo sminuita la portata satirica del tuo lavoro?
A parte che non è vero che piaccio a tutti: Capezzone ha detto che ho dato il peggio di me nella sua imitazione! E di Gasparri che devo dire? Se uno per convenienza o per autenticità si diverte all’imitazione che uno gli fa, beh, buon per lui e per qualsiasi modo la si voglia vedere.
Ma quindi ti senti artefice di una sorta di irrisione bonaria? Pensando alla tua recente imitazione della Binetti tanto bonaria non sembrerebbe...
Forse io posso confondere un po’, perché non ho uno stile aggressivo. Ma un conto è essere aggressivi e un conto è essere banali. Penso che si possa non essere aggressivi ma allo stesso tempo risultare efficaci, edificanti. È giusto avere dei toni più civili e smorzati, ma questo non significa essere più banali o democristiani.
Quindi satira graffiante o più bonaria? Insomma, meglio i Simpson o South Park (visto che li hai doppiati entrambi)?
Sono due tempi diversi, non si può scegliere, si è al cospetto di due modi intelligenti di fare satira o comicità. Perché insomma non tutti e due?
Alla manifestazione per la libertà di stampa hai letto un brano molto bello della Democrazia in America di Alexis de Toquieville, che diceva tra le altre cose: “Moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa, cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi” e qui credo che il collegamento con il presente sia lapalissiano. E ancora: “Il padrone non ti dice più: "Pensa come me o morirai"; ma dice: "Sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resterà, ma da questo istante sei uno straniero fra noi". Puoi dirci qualcosa a proposito di questa citazione?
Beh, innanzitutto descrive un ricatto vigliacco perché dice “tu non pagherai per questa cosa ma ne subirai le conseguenze” che è molto più strisciante e meno diretto. E seconda cosa: le degenerazioni legate alla democrazia – perché di quello parlava appunto, della dittatura della democrazia – valgono al di là di qualsiasi tempo e di qualsiasi personaggio abbia il potere in quel momento.
È ovvio che leggendole adesso pensiamo a Berlusconi, però è proprio perché Berlusconi non rappresenta soltanto lui, ma tutte le possibili anomalie. Insomma, questo è un testo che ha 300 anni e quindi… se già a quel tempo o nell’antica Grecia c’erano testi che mettevano in guardia rispetto a queste possibili degenerazioni, vuol dire che questa cosa può succedere, che ci sono degli strumenti, delle dinamiche che fanno sì che questo avvenga e quindi che la Storia deve ancora una volta insegnare, che i saggi e i filosofi ci aiutano a riconoscere meglio le situazioni e ci forniscono un appoggio per decodificare meglio il presente. E poi dice anche che il popolo a cui si mettano a disposizione beni materiali sarà lui stesso per primo a rinunciare alla propria libertà e indipendenza, perché riesce comunque a ottenere la cosa per lui più importante: il benessere. Rinuncia spontaneamente perché dice “c’è qualcuno che provvede a me”.
A proposito di ruolo della cultura. Si parla di chiusura per il tuo programma di Rai 3 di "Per un pugno di libri". Confermi? Ennesima sconfitta della cultura in televisione?
Il programma non chiuderà, almeno non quest’anno. Io non mi sono stufato: l’ho condotto per nove anni, pensavo di farlo per un altro anno ancora e poi passare il testimone per dedicarmi a qualcosa di nuovo. Ma la rete, per logiche che non sta a me spiegare, mi ha detto che il programma non andrà avanti a lungo. A ottobre ricominceremo ma quanto possa avere vita non lo so. Personalmente, e parlo anche come spettatore, mi auguro che in TV possano continuare programmi che parlino di letteratura. “Per un pugno di libri” è un modo non noioso per farlo, spero non lo si voglia cancellare per fare spazio a un nuovo reality perché non ne sentiamo la mancanza!
Parliamo di cinema. Come attore hai rappresentato ruoli molto diversi: dal Papa all’angelo, passando per l’autistico e il gran seduttore. Come scegli i tuoi ruoli e i personaggi?
Un po’ anche in base a quello che non ho fatto. Dopo “Il cuore altrove”, per esempio, (il film del 2003 di Pupi Avati che ha rivelato il suo talento drammatico, ndr) mi sono arrivate molte proposte di personaggi simili. Secondo me sarebbe stato un errore accettarli, anche se potevano essere ben scritti. A fossilizzarsi su un solo tipo di personaggio poi la paghi. Una delle cose a cui cerco di stare più attento è proprio quella di smarcarmi, di non mettere mai due cose dello stesso colore vicine. Poi ovviamente decido anche in base a quanto è scritta bene una cosa, guardando non soltanto il mio personaggio ma l’insieme. Un personaggio può avere successo all’interno di un film solo se anche il film è scritto bene e recitato da attori bravi.
Quanto ti senti libero di esprimere il tuo lato comico e il tuo lato drammatico?
Non c’è un limite, mi vanno bene entrambi perché come nelle cose della vita, il comico e il drammatico sono sempre mescolati insieme, non ha senso dividerli. Un film eccessivamente drammatico sarebbe una noia mortale e uno solo comico sarebbe di una superficialità mortale. È quello che ci insegnavano i grandi maestri della commedia italiana: loro parlavano di un Paese con dei problemi forti, ma vi sapevano accostare situazioni leggere e battute. Quella è la nostra tradizione, è il motivo per cui molti film anche adesso hanno successo, perché anche adesso c’è chi sa fare bene questo lavoro.
Hai da poco finito di girare “La scomparsa di Patò”, puoi darci qualche anticipazione?
La storia è ambientata nel fine ‘800 e io faccio Patò, che scompare all’inizio del film; lo si vede solo in flashback e in pochi minuti all’inizio, ambientato nel presente. Non si sa se sia morto o no, lo si scopre alla fine.
Mi è sembrato un progetto interessante, la sceneggiatura era scritta da Camilleri (autore del romanzo da cui è tratto il film, ndr) e anche col regista Rocco Mortellitti mi sono trovato. Poi ho lavorato con Nino Frassica, Maurizio Casagrande… è stato un bel modo di coniugare tante cose positive insieme.
Nel rispondere, tra le righe, probabilmente senza nemmeno accorgersene, Neri Marcorè si lascia scappare quale potrebbe essere la condizione del povero Patò. Ma è talmente bravo che lo perdoniamo!
Laura Carli e Elisa Costa
Fotografie di Francesca Di Vaio
Uao Laura, direi che come intervista a 4 mani e' venuta benissimo... complimenti per avere shakerato il tutto!
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