Con “Gran Torino” Clint Eastwood s'allontana ulteriormente dalla società occidentale. L'ispettore Callahan era un autistico cui era stata inculcata la convinzione che il proprio dovere fosse uccidere (nota il biografo Christian Authier); Bronco Billy McCoy, il cowboy circense protagonista di Bronco Billy, regalava ai bambini il sogno dell'epopea del Far West; John Wilson, il regista (ispirato a John Huston) protagonista di “Cacciatore bianco, cuore nero” lottava contro l'industria cinematografica. Walt Kowalski infine scopre che la propria famiglia non sono i volgari parenti, ma i vicini che disprezza in quanto stranieri. Crede di doversi difendere dagli asiatici, scopre di voler difendere loro dalla vacuità con cui è convissuto - ma alla quale non s'è mai arreso. Una vacuità perfettamente emblematizzata dai superficiali parenti SUV-muniti di Walt e dalla patetica baby gang.
La stessa società occidentale, che ha ritenuto per decenni Eastwood un proprio prodotto, non si è accorta d'essere l'oggetto della critica del suo cinema.
L'apertura di Eastwood sta nell'essere repubblicano e citare il pericolo della paura paventato del democratico Franklyn Delano Roosevelt. La diversità di spessore tra Walt Kowalski, pronto a mettere in discussione le proprie convinzioni fino a un gesto estremo, e il figlio yuppie di questo, che gli telefona solo per avere biglietti per il football può essere paragonata al contrasto tra un cinema improntato sulla conoscenza dell’altro e una realtà in cui troppo spesso il diverso è aggredito a priori.
Gran Torino è un'appendice, un miglioramento di “Million Dollar Baby”: è meno commosso (grazie anche a uno humour più acceso) e ancora più scarno (e “Million Dollar Baby” lo era molto). Ci sono ancora il contrasto nettissimo tra personaggi magnifici e orrendi, la scoperta d'una famiglia al di fuori di quella di sangue, la risolutezza ad assumersi le proprie responsabilità, il pessimismo. Se però ne “Gli spietati”, “Mystic River” e “Million Dollar Baby” la redenzione non esiste, in Gran Torino è possibile - pur con sacrifici immani. Il cinema di Eastwood affronta il mondo senza rimpianti né utopie: un mondo migliore non è possibile, ciò che va fatto è meritare ciò che si ha o si vuole avere. Nella società che non vuole soffrire, dominata dai media che esorcizzano le tragedie mostrandole accanitamente per farne mero spettacolo, il cinema di Eastwood prende atto del Male e lo affronta.
La grandezza dei contenuti si accompagna a un valore artistico enorme: Eastwood è maestro nella regia e nella recitazione, per la quale si serve al meglio del proprio volto scarnificato e della propria imponenza fisica, spaziando senza problemi dal delirio - i pugni alla credenza - alla calma imperturbabile - il dialogo col prete subito dopo. Orchestra bene la storia, tra momenti di controllato umorismo a drammi gravissimi, andando molto al di là del compito ben fatto: per sua stessa ammissione, il suo film più piccolo, ma per mezzi, non per ambizioni. Un film trascurato dagli Oscar... ma nel 1982 lo fu “Blade Runner” .
Un'opera sorprendente, conclusa dalla bellissima canzone in cui la voce di Jamie Cullum è introdotta da quella di Clint stesso, quasi a rappacificarsi con la storia appena narrata e vissuta: un film cui non si sopravvive.
La stessa società occidentale, che ha ritenuto per decenni Eastwood un proprio prodotto, non si è accorta d'essere l'oggetto della critica del suo cinema.
L'apertura di Eastwood sta nell'essere repubblicano e citare il pericolo della paura paventato del democratico Franklyn Delano Roosevelt. La diversità di spessore tra Walt Kowalski, pronto a mettere in discussione le proprie convinzioni fino a un gesto estremo, e il figlio yuppie di questo, che gli telefona solo per avere biglietti per il football può essere paragonata al contrasto tra un cinema improntato sulla conoscenza dell’altro e una realtà in cui troppo spesso il diverso è aggredito a priori.
Gran Torino è un'appendice, un miglioramento di “Million Dollar Baby”: è meno commosso (grazie anche a uno humour più acceso) e ancora più scarno (e “Million Dollar Baby” lo era molto). Ci sono ancora il contrasto nettissimo tra personaggi magnifici e orrendi, la scoperta d'una famiglia al di fuori di quella di sangue, la risolutezza ad assumersi le proprie responsabilità, il pessimismo. Se però ne “Gli spietati”, “Mystic River” e “Million Dollar Baby” la redenzione non esiste, in Gran Torino è possibile - pur con sacrifici immani. Il cinema di Eastwood affronta il mondo senza rimpianti né utopie: un mondo migliore non è possibile, ciò che va fatto è meritare ciò che si ha o si vuole avere. Nella società che non vuole soffrire, dominata dai media che esorcizzano le tragedie mostrandole accanitamente per farne mero spettacolo, il cinema di Eastwood prende atto del Male e lo affronta.
La grandezza dei contenuti si accompagna a un valore artistico enorme: Eastwood è maestro nella regia e nella recitazione, per la quale si serve al meglio del proprio volto scarnificato e della propria imponenza fisica, spaziando senza problemi dal delirio - i pugni alla credenza - alla calma imperturbabile - il dialogo col prete subito dopo. Orchestra bene la storia, tra momenti di controllato umorismo a drammi gravissimi, andando molto al di là del compito ben fatto: per sua stessa ammissione, il suo film più piccolo, ma per mezzi, non per ambizioni. Un film trascurato dagli Oscar... ma nel 1982 lo fu “Blade Runner” .
Un'opera sorprendente, conclusa dalla bellissima canzone in cui la voce di Jamie Cullum è introdotta da quella di Clint stesso, quasi a rappacificarsi con la storia appena narrata e vissuta: un film cui non si sopravvive.
Tommaso de Brabant
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