22 luglio 2009

IL MÀRE MÀGNUM DELLA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI:

LA CHIUSURA DELLE SSIS E IL PROGETTO ISRAEL

Le Ssis non esistono più. Da cosa saranno rimpiazzate?
La camera dei deputati il 5 agosto 2008 ha approvato in via definitiva la conversione del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 che prevede, al comma 4 ter dell’articolo 64, la sospensione delle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario, le Ssis, per l’anno accademico 2008-2009.
Questo significa che il decimo corso del ciclo Siss non ha potuto vedere la luce, lasciando un numero consistente di aspiranti insegnanti a interrogarsi sul proprio destino.
La Siss, in attività dal 1999, prevedeva l'avvio di corsi su base regionale (per esempio la scuola lombarda, conosciuta con l’acronimo di SILSIS), calcolando l'entità di posti disponibili. Dopo due anni e 1200 ore di lezione, gli specializzati potevano accedere alle graduatorie attraverso cui era stabilita l'assegnazione delle supplenze e delle cattedre. Con la sua cancellazione non è molto chiaro cosa succederà.

Qualche mese fa, Il ministro Maria Stella Gelmini ha dato vita a una commissione, presieduta dal professore Giorgio Israel e composta da docenti universitari e funzionari del ministero, con lo scopo di elaborare un regolamento per la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, atta a riempire il vuoto lasciato dalla cancellazione della precedente normativa. Il risultato ottenuto è una bozza di regolamento che dovrebbe diventare legge al più presto.
Il testo prevede un percorso formativo diversificato per la scuola dell’infanzia e primaria e per la scuola secondaria di primo e secondo grado. Nel primo caso si tratta di un corso di laurea magistrale quinquennale a ciclo unico a numero programmato, comprensivo di tirocinio da avviare nel secondo anno di corso. Per le secondarie invece è previsto un corso di laurea magistrale biennale (a numero programmato per quanto riguarda l’insegnamento alla scuola media inferiore), successivo alla laurea triennale generalista, più un tirocinio della durata di un anno. Per le classi di abilitazione all’insegnamento alla scuola di secondo grado, l’accesso al tirocinio è a numero chiuso e programmato dal MIUR, che comunicherà periodicamente agli Uffici Scolastici Regionali il fabbisogno di personale docente, per riceverne il numero di posti da attivare per ciascuna classe e da assegnare a ogni ateneo.
Di grande rilevanza è il tirocinio formativo attivo, consistente in tre gruppi di attività:
Insegnamenti di scienze dell’educazione;
Tirocinio svolto a scuola sotto la guida di un insegnante affidatario (il cosiddetto tutor);
Insegnamento di didattiche disciplinari.
I docenti tutor e i docenti coordinatori dei percorsi di tirocinio sono scelti dal Consiglio di laurea magistrale tra un novero di candidati proposti dai dirigenti scolastici. Il tirocinante, a conclusione del proprio percorso formativo, deve essere in grado di integrare a un livello culturale e scientifico le competenze acquisite nell’attività svolta in classe e in materia psicopedagogia.

Attorno al progetto, come emerge dal nostro colloquio con la professoressa Silvia Pizzetti, è sorto immediatamente un fervido dibattito, in è evidenziato lo spazio preponderante dato all’Università nella formazione dei docenti. Il mondo accademico però è distante dal mondo della scuola, soprattutto per quanto riguarda la formazione sul campo e la gestione delle classi. È necessaria dunque una riflessione su cosa sia fondamentale apprendere per interagire in modo efficace con i ragazzi, per questo la scuola ha chiesto maggiore partecipazione nel metodo formativo. Inoltre il percorso di formazione annuale insiste con forza sugli aspetti di contenuto e sui saperi, riaprendo una vecchia controversia tra disciplinaristi e pedagogisti sull’impronta da attribuire, evidenziando la necessità di “avere contenuti fondamentali per avere reali competenze”.

In ambito accademico però, il timore sorto è che l’attuazione del progetto passi nel silenzio, a causa della combinazione negativa di alcuni fattori, primo fra tutti l’esistenza di un precariato “storico” che non si può eliminare e che necessita di collocazione. Infatti, bloccando la possibilità d’accesso alla formazione del futuro corpo docente, si potrebbe avere il tempo di assorbire i “vecchi” precari, soprattutto gli insegnanti di materie umanistiche, i cui posti scarseggiano, a differenza delle domande che sono in continuo aumento. Anche questa soluzione però deve fare i conti con la politica di bilancio governativa, che ha l’ultima parola su qualsiasi decisione.
In secondo luogo c’è la necessità di ridurre gli alti costi dell’istruzione pubblica attraverso una consistente diminuzione del corpo docente. Progetto già messo in atto con la finanziaria 2008 che prevede un turn-over molto rigido, che riduce a sua volta la possibilità degli attuali precari di trovare collocazione.
Infine, la mancata concretizzazione del progetto, comporterebbe una ridiscussione dello stesso e la possibile reintroduzione del vecchio concorso nazionale. Ipotesi, quest’ultima, che è vista con favore dalle associazioni di rappresentanza professionale, che tornerebbero ad avere un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dei precari, grazie al peso politico detenuto.
Completamente diversa invece la situazione se la bozza fosse approvata dal consiglio dei ministri: in questo caso, nell’arco di pochi mesi, il progetto Israel avrebbe attuazione già nell’anno accademico 2010/2011 e la formazione degli insegnanti riprenderebbe a pieno ritmo.
Non ci resta che attendere…attendere che dall’alto qualcuno risponda a un sempre più pressante interrogativo di mucciniana memoria: “Che ne sarà di noi?”

Michela Giupponi

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