28 dicembre 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.13


Ma in fondo a noi, ma soprattutto a voi, matricole della Beneamata Università Statale, cosa ve ne frega degli anni ’80? Per voi che siete nati nell’88, quando il 47° governo Goria cadeva, (la Repubblica nasce nel 1946, questo è il 61° governo, o il 62° dipende quando uscirà il giornale: 61 maggioranze parlamentari in 51 anni. La Germania dal ’49 ha eletto 9 cancellieri. E non si può dire che il popolo tedesco non abbia avuto i suoi problemini), il decennio in questione non è stato altro che pappine-cacchine-ruttini, ruttini-cacchine-pappine. Sembra la vita di Rutelli, vero?
E allora, cari post-liceali, forse vorreste sentir parlare di banchi di scuola, di cose che conoscete.
Per venire incontro a voi, o classe dirigente del futuro, è pronto un dossier sulla "Terza C". Il 13 gennaio 1987 su Italia1 parte un progetto, "I ragazzi della Terza C", un telefilm che ambiva a raccontare una generazione di studenti ritratti nell’approssimarsi della maturità.
Il successo è colossale, non paragonabile ad altre serie americane degli anni Novanta o Duemila.
A parte l’utilizzo di personaggi estremamente stereotipati (cosa rimasta nella politica italiana, vedi Casini-Prodi-Luxuria: il bello, il comunista, il transgender) ed una recitazione imbarazzante (ancora: Bertinotti, Berlusconi, Gabriella Carlucci), è interessante la leggerezza narrativa e la costruzione degli intrecci, basate su dinamiche del periodo.
La parodia è quasi sempre il carattere della vicenda, sono riproposti i film o i personaggi dell’attualità: il pavido Bruno Sacchi (Fabrizio Bracconeri, oggi guardia giurata di Forum) interpreterà Rambo, oppure Chicco Lazzaretti, pluriripetente, praticamente trentenne, partecipa alla trasmissione Superstrike, condotta da Marco Columbro, vero reuccio della TV.
Ma c’è anche la cronaca che penetra nella fabula: durante una festa in casa di Sharon Zampetti, figlia di un industriale milanese, Camillo Zampetti (Guido Nicheli, da poco scomparso), irrompe la polizia tributaria. Il successo è talmente penetrante che le grandi marche trasformano intere scene in spot veri e propri. E’ il caso dell’Algida, che impone agli attori lo slogan "cuore di panna" mentre trangugiano un cornetto. Oppure la Opel che fa dire a Chicco, di fronte alla sua Corsa: "Che auto spaziosa, e che motore!".
La seconda serie è addirittura sponsorizzata dallo snack Raider. Un concorso si basava sulla presenza dello snack all’interno della puntata. La terza stagione vede i ragazzi all’università. Alcuni attori si stufano, se ne vanno o vengono cacciati: l’università fa questi scherzi. Il prodotto crolla nell’89.
Come il comunismo ha regalato sogni: il sogno di una televisione stupidissima, non volgare, coraggiosa, che lascia il posto a quella degli anni ’90: intelligentissima, volgare e pavida. E’ giusto che alcune cose non siano uscite vive dagli anni Ottanta.
Fabrizio Aurilia

22 dicembre 2007

MUSICA DAL MONDO: IL CASO TINARIWEN

Sono stati ribelli Tuareg, ma oggi hanno sostituito il Kalashnikov con la chitarra. Vengono dal Mali e sono amati alla follia da Robert Plant.

Assistere ad un loro concerto è un’esperienza folgorante. Il bassista suona tutto avvolto in un turbante che lascia scoperti solo gli occhi. La corista si muove ritmicamente, cantando e gridando con voce lamentosa e cristallina. Il cantante Ibrahim Ag Alhabib indossa un velo ampio e colorato e imbraccia una Gibson Les Paul. Se hai la fortuna di vederli, i Tinariwen, non te li dimentichi facilmente.
La loro musica, è un atto (l’ultimo solo in ordine cronologico) di rivolta: nel 1963, infatti, i Tuareg del Mali si ribellarono al potere del Nuovo Governo Indipendente che si era sostituito all’autorità Francese. La rivolta, repressa nel sangue, fu seguita da una terribile siccità che causò la fuga di migliaia di profughi, dal Mali e dal Niger verso l’Algeria e la Libia. Fu allora che le chitarre dei Tinariwen iniziarono a suonare, raccontandoci così del dolore per l’esilio. Il loro suono si eresse presto a documento di affermazione dell’esistenza Tuareg e della sua necessità di evolversi. Un’evoluzione, quella dei Tinariwen, prima di tutto musicale, (ai classici strumenti tradizionali come tamburi tindè o violino imzad vengono affiancati strumenti di derivazione occidentale, come chitarre e basso elettrico) ma anche culturale in senso più dilatato. La band, attiva dal 1979 ha infatti migliorato il tasso tecnico delle proprie esibizioni e la qualità lirica delle canzoni.

La svolta, per i nostri Tinariwen avviene circa quattro anni fa, quando decidono di partecipare al Festival au Dèsert di Essakane, vicino Timbuktu. Il loro nome ha varcato le porte del deserto, riuscendo a diffondersi anche fuori dai confini africani. Ascoltando le loro canzoni si è colpiti dalla somiglianza che queste hanno col blues, anche se non si tratta proprio delle consuete dodici battute. A parte gli ovvi richiami al blues di un altro grandissimo musicista originario del Mali come Ali Farka Tourè, i Tinariwen sembrano rievocare la musica del diavolo soprattutto nel mood, molto bluesy, appunto, e nella vocazione a costruire dei testi tesi all’espressione sociale di condivisione. Il loro motto: "Siamo ancora nomadi…ma in senso musicale" mi sembra il miglior invito all’ascolto di questi ribelli armati di chitarra. Magari in occasione di uno dei concerti che i Tinariwen terranno nel nostro paese, nel corso del mese di Luglio.

"…fratelli Tuareg abbiamo una vita sepolta ed è tutto ciò che ci unisce. Ciò che è accaduto non può essere accettato da colui che ama la sua gente. Questa verità è stata occultata e l’ignoranza ha preso il sopravvento…"

Davide Zucchi

21 dicembre 2007

MATTATOIO DARFUR

Nel nostro Paese giungono solo flebili echi dal Sudan. Espressioni come “sterminio etnico” e “genocidio” accostati a questo stato africano, compaiono sporadicamente nei nostri telegiornali e sui quotidiani, quasi sempre con scarsa contestualizzazione. Il 26 febbraio ricorreva l’anniversario dello scoppio del conflitto in Darfur. E’ passato pressoché inosservato, un giorno come tanti, inglobato da news e gossip sulla notte degli Oscar.

LA TERRA DEI FUR
Il Darfur (in arabo “Paese dei Fur”) è una regione che si estende ad Ovest del Sudan, occupata per lo più da un vasto altopiano, tra sabbia, montagne e savana. Il cuore di questa regione rappresenta ancora l’Africa profonda, millenaria, di sole, sabbia e villaggi, non ancora raggiunta dalla frenesia del progresso.
In questa zona i conflitti hanno origini remote e, contrariamente a quanto molti pensano, in alcun modo collegate a motivi religiosi. In realtà l’intera popolazione è di credo musulmano e le ostilità sorgono da ragioni prettamente razziali. In Africa infatti gli scontri tra etnie, legati brutalmente al colore della pelle, non sono affatto rari e tra le genti di stirpe araba e la popolazione nera spesso non corre buon sangue. In Darfur questa ostilità è particolarmente accesa: i rapporti tra la popolazione nera dei Fur, stanziale ed agricola, e la minoranza araba, nomade e dedita alla pastorizia, non sono mai stati di ottimo vicinato e il governo locale ha finito per sfruttare questa rivalità già profonda e radicata, alimentata da due stili di vita e due culture completamente agli antipodi.

26 FEBBRAIO 2003
E’ la data che convenzionalmente sancisce l’inizio del conflitto. Il gruppo autoproclamato fronte di Liberazione del Darfur (FLD) rivendica pubblicamente un attacco compiuto mesi prima contro il quartier generale di Golo nel distretto di Jebel Marra. In realtà già da qualche anno si andava costituendo una schiera di ribelli, che avevano dato luogo ad una serie di attacchi a stazioni di polizia, avamposti e convogli militari. Il fronte ribelle si era costituito intorno al 21 luglio 2001, quando i gruppi Zaghawa e Fur si incontrarono nel villaggio di Abu Gamra e stipularono sul Corano un vero e proprio giuramento di collaborazione reciproca per difendersi dagli attacchi che già allora venivano perpetrati contro i loro villaggi. Dopo il 26 febbraio la risposta dell’esercito del governo di Khartoum non si è fatta attendere e col tempo la strategia si è articolata sull’azione di tre gruppi distinti: l’Intelligence militare, l’aeronautica e le milizie Janjaweed, reclutate tra i pastori nomadi di etnia Baggara, di cui il governo si era già servito in precedenza. Queste ultime furono poste al centro della nuova tattica governativa per reprimere le rivolte.
Le milizie Janjaweed volsero subito la situazione a proprio favore, agevolati dal fatto che i loro attacchi erano (e sono) sostanzialmente rivolti contro villaggi inermi, contro una popolazione, i Fur, che, ad esclusione del FLD, è composta quasi esclusivamente da agricoltori.
Gli attacchi si svolgono sempre alle prime luci dell’alba. Durante il giorno i nomadi di etnia Baggara svolgono la loro attività di pastori, necessaria al proprio sostentamento, di notte diventano i Janajaweed, i demoni a cavallo. Attaccano un villaggio appena prima dello spuntare del giorno, massacrando gli abitanti, talvolta portando via con loro ragazzi e bambini.
Malgrado il sostegno del governo (totalmente di etnia araba, nonostante sia la minoranza del Paese), i gruppi nomadi combattenti non sono ben equipaggiati come si potrebbe pensare. Spesso il loro armamento si riduce a un cavallo e un kalashnikov. E’ una guerra tra poveri. Si tratta di piccoli attacchi, per quanto efferati, e questo ci porta al reale dramma del Darfur: la questione dei profughi.



L’ABBANDONO DEI VILLAGGI
Contrariamente ad un altro luogo comune molto diffuso, quando si parla di stermino, o addirittura di genocidio per la popolazione Fur, non si pensa principalmente alle vittime dirette degli attacchi.
Il vero dramma che il Paese sta affrontando è la questione dei profughi, ancora oggi ben lontana da una soluzione.
Gli abitanti dei villaggi, come reazione ai continui attacchi, privi di mezzi per difendersi, iniziarono a migrare verso le città, dove si sentivano più protetti. Il loro numero raggiunse subito dimensioni impressionanti. Furono organizzati centri di accoglienza, totalmente inadeguati a fronteggiare la situazione, per mancanza di mezzi e per le condizioni ambientali e climatiche sfavorevoli. Condizioni sanitarie inesistenti (in un campo profughi non si può certo avere un sistema fognario), 50 gradi di temperatura, niente acqua e un’enorme concentrazione umana non potevano che portare ad una diffusione capillare di un gran numero di malattie come il colera, causa principale di mortalità per i bambini darfuriani. Nonostante l’emergenza sanitaria e le scarsissime possibilità di sopravvivenza i profughi, terrorizzati, si rifiutano categoricamente di fare ritorno ai propri villaggi, creando il problema del loro mantenimento. Costretti ad abbandonare la microeconomia rurale dei loro villaggi, nei campi di accoglienza essi dipendono interamente dalle forme di aiuto provenienti da organizzazioni come l’ONU, una soluzione che non può che essere temporanea.
In realtà il loro ritorno è ostacolato in parte anche dall’azione governativa che ha varato delle leggi sulla rioccupazione dei villaggi abbandonati, impedendo di fatto il ritorno degli abitanti originari.
Col pretesto di difendersi dai gruppi ribelli, il governo di Khartoum (una repubblica presidenziale retta però da una giunta militare) ha sostanzialmente appoggiato un sistematico genocidio, parzialmente già in corso, attuato da parte di un’etnia numericamente inferiore ma rappresentata al governo, nei confronti della maggioranza della popolazione. La minoranza araba d’altra parte, sente di agire in virtù di una superiorità razziale apertamente conclamata e proclamata ufficialmente già nel 1987. Una superiorità che campeggia addirittura sui teleschermi, veicolanti pubblicità di creme schiarenti per la pelle, specularmente a ciò che avviene sui nostri nella bella stagione con le creme abbronzanti.
Una nota particolarmente amara merita il fatto che, nell’intolleranza culturale, viene invece largamente tollerata una delle pratiche più agghiaccianti ancora diffuse in alcuni stati africani.
Il 90% delle donne del Darfur subisce ancora l’infibulazione, nonostante la leggi la vieti espressamente e preveda severe penali per chi la pratica. La mutilazione dei genitali femminili è diffusa in tutto il Paese, indipendentemente dal ceto sociale e nulla di concreto viene fatto dalla popolazione araba per estirpare questa pratica.

L’INTERVENTO INTERNAZIONALE
L’intervento dei contingenti di pace internazionali si è reso complicato fin dall’inizio, in particolare per la scarsa collaborazione del governo sudanese. Il 31 Agosto 2006 si è attuata parzialmente una svolta: nonostante l’opposizione del governo sudanese, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’invio di un contingente di ‘caschi blu per sostituire le truppe dell’Unione africana, fino a quel momento preposte a vigilanza del conflitto. In realtà l’apporto delle Nazioni Unite si è configurato in maniera più limitata rispetto ai piani originari. All’espressione “genocidio” si è preferito “crimini contro l’umanità” e il decisivo voto della Cina per l’invio del contingente è venuto a mancare a causa degli interessi petroliferi nutriti dalla nazione nella zona sudanese affacciata sul Mar Rosso. Questi fattori hanno notevolmente ridimensionato il ruolo dei Caschi Blu che devono tuttora sottostare parzialmente all’autorità del governo di Khartoum.

Secondo l' Organizzazione Mondiale della Sanità la guerra civile ha causato, da marzo 2003, la morte di circa settantamila persone e ha ridotto più di un milione e ottocentomila individui allo stato di profughi, rifugiati nei campi di accoglienza gestiti dalle organizzazioni umanitarie.
Pekka Haavisto, inviato dell'UE in Sudan, ha affermato che l'esercito sudanese sta “bombardando la popolazione civile”.
Tutto ciò basterebbe per fare del Darfur una delle grandi priorità mondiali, e difatti già nel 2003 doveva essere il grande obbiettivo internazionale. Poi è arrivato l’Iraq.

Laura Carli

Uno speciale ringraziamento al dott. Rodolfo Rossi per le foto e le preziose informazioni fornite.

11 dicembre 2007

CONVERSANDO CON ELIO FIORUCCI

Di grigio, sul tavolo d’ufficio dello stilista Elio Fiorucci, c’è solo una calcolatrice. Il resto è tutto colorato. C’è una serie di pupazzetti che lo guardano in faccia mentre lavora. C’è uno gnomo con una mano in tasca, c’è Margot senza Lupin, c’è una pecora nera di peluche. Poggiate sulle carte e vari post-it ci sono un paio di scarpe in vernice rosa col tacco azzurro e un fiocchettino.
Sotto alcune buste da lettera fa capolino l’abbonamento dell’Atm. Guardo tutti questi oggetti mentre Fiorucci è al telefono. Sta parlando degli anni 70 per una mostra sul tema, aperta fino al 30 marzo alla Triennale. Lo sento raccontare dei suoi incontri con Madonna, Keith Haring, Jean Michel Basquiat “…Quando erano ancora ragazzini”. Rievoca l’ondata rivoluzionaria che quegli anni si portarono dietro, lo dice all’interlocutore al telefono, forse un giornalista: “Chi avrebbe potuto immaginare, allora, che dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, che le ragazze russe avrebbero indossato jeans attillati Fiorucci, e che in Europa ci sarebbe stata la moneta unica. Non è occorsa una terza guerra mondiale”. S’interrompe e riprende: “Non mi chieda di politica. Non mi piacciono le cose politiche. Mi piacciono i ragazzi, le ragazze, le minigonne…”. Le sue parole al telefono viaggiano verso New York, salgono sulla Torre di Pisa a rievocare quella volta che conobbe il fotografo Oliviero Toscani, tornano a Milano all’inaugurazione del suo primo negozio, nel 1967. La telefonata si chiude. È il turno di Vulcano. Tocca a me. M’interessa l’anno 2007 e la moda degli studenti universitari.

Come ci si veste per andare a discutere una tesi di laurea?
Se vuole le parlo degli anni 70.
No grazie. Parliamo dei giorni di oggi.
Gli anni 70 hanno portato una libertà fra gli uomini fino ad allora sconosciuta. E dunque la liberazione da valori imposti dalla società.
Come suggerisce di andare vestiti, il giorno della laurea?
Non suggerisco nulla. Io sono uno spirito anarchico, la mia filosofia è quella della libertà. Ognuno si veste come gli pare. A me piacciono gli occhiali con la montatura rossa [Ne indossa un paio proprio in quel momento ndr] ma non per questo mi verrebbe da imporli agli altri. Questo è lo spirito degli anni 70.
Ma io non voglio parlare degli anni 70. Voglio parlare del 2007.
È incredibile come lo spirito degli anni 70 sia vivo ancora oggi.
Proviamo a entrare nella macchina del tempo. Cosa ci ricorderemo nel 2060 del 2007?
Degli anni 70.

Scoppio in lacrime. Fiorucci mi porge prontamente un pacchetto di fazzoletti. Il principe del marchio con gli angioletti, stupito dalla mia reazione mi dice: “Non sono cattivo”. Continuo a singhiozzare. Mosso a compassione mi fa: “E va bene, se vuole le dico come andare vestiti alla laurea”.

Me lo dica.
Io andrei vestito con un pullover. E scarpe comode. Ma come è vestita lei va bene lo stesso [jeans e camicetta bianca ndr]. Perché si può essere eleganti nella semplicità.
Il capo di maggior successo di sempre?
I jeans. Un tessuto magico. Quando smise di essere trattato come abito di lavoro.
Quando andò nel New Mexico scoprì le perline di vetro che diventarono i bijoux più gettonati dell’estate. Dalla Cina importò le ballerine: ne vendette diecimila solo in un anno. Come ha fatto a riconoscere il potenziale successo?
Io non ho mai pensato che sarebbero stati un successo. Li ho scelti perché mi piacevano.
E il marketing?
Io non mi occupo di marketing. Faccio le cose perché mi piacciono e perché mi fanno star bene.
Ma le scelte del marchio Fiorucci, le campagne pubblicitarie, non sono frutto di uno studio?
È l’amore per le cose che le fa uscire bene. La mia filosofia non prevede norme. Lei ha avuto un’educazione rigida.
Nella vita ha conosciuto tante personalità, tra cui Andy Warhol. Chi si nasconde dietro un talento?
Una persona rilassata. Serena. Mossa da passione. [Mi guarda negli occhi umidi] Non da rabbia e sofferenza.
Perché il suo tavolo è pieno di oggetti decorativi e alle pareti non c’è niente?
Ma non lo so! [Vede che sto per rimettermi a piangere]. Preferisco appoggiare piuttosto che appendere.
Lei una volta ha detto: “Gli oggetti devono essere belli e sinceri”. Che voleva dire?
Belli perché ti piacciono. Sinceri perché sono schietti.
Continuo a non capire.
Perché cerca un ragionamento dietro tutte le cose?

Chiuso il block notes, Fiorucci chiama la segretaria dicendo di prendere una borsetta: “Diamo un po’ di regalini alla ragazza”. Ma non l’aspetta. La precede e va verso un armadio dal quale comincia ad estrarre pacchettini colorati. Mettendomi in mano un portachiavi a forma di gnomo mi dice. “E lei adesso mi chiederà perché ho scelto lo gnomo? Non lo so. Faccio le cose che mi piacciono.”
Mentre scendo le scale dell’edificio che ospita gli uffici Fiorucci penso che anche io d’ora in poi farò solo cose che mi piacciono. Al primo semaforo ho lasciato l’Università per andare in Madagascar, al secondo vado in Cina a fare la ballerina, al terzo mi compro una parrucca perché mi sono sempre piaciuti i capelli blu. Sulla soglia di casa già il mio pensiero torna allo studio. L’esame di Glottologia. Devo prendere 30. Perché la media, il voto di laurea, i concorsi…Ci vuole coraggio per fare le cose che ci piacciono.

Diana Garrisi

22 novembre 2007

COS'E' LA DESTRA, COS'E' LA SINISTRA?

Momenti di ordinaria lottizzazione politica in Statale. Come ogni anno, le diverse associazioni, schierate e non, si riuniscono per decidere in quali aule svolgere le varie riunioni.
Viene applicato, nella suddivisione degli spazi disponibili, un criterio laico e pragmatico? Naturalmente no, e così vediamo sorgere aule marchiate a fuoco, ideologizzate, destinate a priori a gruppi di centro-destra o di sinistra.
Vulcano, per continuare a costruire il suo giornale presso la tradizionale auletta A che oramai lo ospita da 5 anni, è stato sommariamente inserito nell’elenco "pro gauche". Intendiamoci, si tratta di dettagli. E del resto la linea editoriale del periodico, nata sempre dal dibattito redazionale, è nitida e non teme equivoci. Come la sua indipendenza. Piccolezze tuttavia interessanti per comprendere l’andazzo di una università bloccata, ferma a logiche anacronistiche e conflittuali. Quando sono i vecchi baroni che masticano il passato e seminano misoneismo ce ne facciamo una ragione. Se però sono i ventenni ad applicare criteri antichi ed antifunzionali lo stupore cresce. Insieme alla disillusione più malinconica.
Gregorio Romeo

20 novembre 2007

INTERVISTA A GIAN ANTONIO STELLA

“così i politici italiani sono diventati intoccabili”


Probabilmente il suo libro è stato il veicolo di socializzazione più efficace degli ultimi mesi.
Nelle spiagge, come presso le fermate dei mezzi pubblici, crocchi di manzoniana memoria si affannavano a esporre il proprio sdegno contro la politica dei privilegi, delle tasse, dei tempi moderni nefasti che fanno rimpiangere l’odiata prima repubblica.
Qualunquismo? Forse. Tuttavia corroborato da solidissime e imbarazzanti cifre.
Come quelle che indicano i finanziamenti destinati alle comunità montane: 170.175.114,72 euro per organismi di governo locale a volte posti, magicamente, in piena pianura.
Viatici per garantire poltrone o semplici sgabelli a politici, peones e consulenti di ambigua derivazione.
Un esercito che tocca, dai consiglieri circoscrizionali ai senatori a vita, la quota di 179.485 anime.
Nessun paese, sbirciando in giro per il mondo, gode di una classe dirigente così maggiorata.
Un’ ipertrofia di genti e di cose, se si pensa alle 40.000 auto blu che sfrecciano per le strade italiane.
Ancora una volta, un primato mondiale.
Neppure le vetuste monarchie europee cedono, al contrario dei politici nostrani, al richiamo del fasto. Buckingam Palace, dove vive la regina benedetta dal Signore, spende quattro volte meno del Quirinale, base del “compagno” Napolitano.
224.000.000 euro tondi tondi sono i soldi spesi dallo Stato per finanziare la presidenza della repubblica.
Solo per motivi di spazio (e pietà), da tale elenco vengono omesse le cifre, spropositate, delle indennità pubbliche garantite ai politici, gocce di euro rispetto agli sprechi che contano, ma sintomatiche per intuire la forma mentis di chi ci governa.
Ed in questo fiume di danaro, che la politica spende e guadagna per nutrire se stessa, il paese annega.


Gian Antonio Stella, noto giornalista del “Corriere della sera” e autore del libro “La Casta”, è stato intervistato da Vulcano. Un’occasione per discutere delle anomalie proprie del sistema politico italiano e dell’insofferenza che emerge nel paese.

I pesanti strali di Beppe Grillo, le inchieste che evidenziano i lussi dei politici fra voli di stato e case acquistate a due lire, gli elettori colti da una profonda sfiducia nei confronti della classe dirigente. Gian Antonio Stella come valuta il clima di antipolitica che sembra dilagare nel paese?
“Mi trovo assolutamente d’accordo con l’opinione pubblica che si scaglia contro una certa gestione della politica. Non credo si tratti di un clima di puro qualunquismo. Il sentimento che attraversa oggi l’Italia non è di antipolitica, ma di consapevolezza, sia a destra che a sinistra, riguardo la cattiva gestione del potere. I metodi con cui operano oggi i politici non sono più sopportabili, né economicamente né moralmente.”

Lei non crede che l’inefficienza e la corruzione riscontrabili nel sistema politico siano rintracciabili anche negli altri segmenti di società? Spesso il mondo imprenditoriale o la pubblica amministrazione operano con le stesse logiche e la stessa superficialità delle classe politica…
“Certo, è così. Molti atteggiamenti deteriori sono presenti nella società italiana. Ma non bisogna dimenticare che la classe dirigente deve essere migliore della società, altrimenti perde la sua ragion d’essere. Non parlo di una politica elitaria, però il compito dei politici deve essere quello di guidare la società.”

Quando si parla di costi, i politici spesso affermano che è piuttosto necessario incrementare l’efficienza. Non crede si debba certamente aumentare l’efficienza dell’amministrazione, abbattendo, in ogni caso, i costi?
“Assolutamente si. I politici discutono di efficienza per spostare il tema e non occuparsi dei privilegi e dei costi astronomici.
Del resto, l’efficienza dipende sempre e comunque dalla classe che ci governa. Le leggi vengono varate in parlamento.”

Condivide le proposte di Beppe Grillo riguardo la riforma dei meccanismi di elezione della classe dirigente?
“Non del tutto. Il tetto delle due legislature per i deputati è forse eccessivo. Magari è giusto imporre solo una percentuale di seggi che vadano rinnovati dopo ogni legislatura. In questo modo, dentro il parlamento, verrebbe garantito il ricambio generazionale e ideale ma anche l’esperienza. Riguardo l’impossibilità di accedere alle cariche pubbliche se condannati, dipende dal tipo di reato commesso. Anche io sono stato condannato per aver scritto che Totò Cuffaro (presidente della regione Sicilia. n.d.r) applicava una politica di tipo clientelare. Poi mi hanno assolto in appello, con le scuse dello stesso Cuffaro.”

Oggi la diffidenza nei confronti della classe dirigente è alta. Secondo lei maggiore o minore rispetto ai tempi di tangentopoli?
“Secondo me l’insofferenza è superiore. Quando scoppiò tangentopoli almeno l’elettorato di sinistra continuava a nutrire una certa fiducia nei confronti dei propri rappresentanti. Adesso, credo che nessun italiano sia convinto che esistano politici al di sopra di ogni sospetto. Intendiamoci, non parlo di corruzione. Mi riferisco alla sensibilità su alcuni temi.
Oggi i sondaggi dicono che siano più i partiti di sinistra ad essere penalizzati da questo clima. Questo perché l’elettorato di sinistra è più sensibile riguardo determinate questioni. A destra l’indulgenza degli elettori nei confronti dei propri eletti è maggiore. Un personaggio come Lunardi, che da ministro ha affidato i lavori della tangenziale di Mestre a suo nipote, se fosse stato di sinistra sarebbe stato “crocifisso” dal suo stesso popolo.”

Quali sono, secondo lei, i tre interventi principali che andrebbero operati per rendere più trasparente e meno cara la politica?
“In primo luogo è necessario costringere tutti, al di là delle chiacchiere sull’autonomia, a compilare lo stesso tipo di bilancio. Questo garantirebbe effettiva trasparenza. Tutti i cittadini hanno il diritto di capire con semplicità come vengono spesi i soldi dalle istituzioni.
Poi, organismi inutili come le province vanno definitivamente aboliti. Il loro ruolo può essere ugualmente svolto da un sistema istituzionale più snello.
Infine, è fondamentale interrompere l’adeguamento automatico, in relazione all’inflazione, delle indennità dei parlamentari. Per adesso, alla Camera e al Senato, hanno semplicemente sospeso questo privilegio. Deve, piuttosto, essere cambiata definitivamente la legge.”

Come valuta la sensibilità dei giornalisti riguardo questi temi? Lei, ad esempio, dopo aver scritto “La Casta”, che rapporti ha con il potere politico?
“Ci vorrebbe certamente più coraggio. I giornalisti non si occupano a sufficienza di questi temi. Dopo la pubblicazione del libro per me non è cambiato proprio niente: io ho sempre avuto rapporti buonissimi con la persone per bene e pessimi con quelle che non sono per bene. Senza distinzioni fra destra e sinistra.”

Personaggi corrotti dalla finanza, pronti a disegnare leggi su misura per interessi privati o per la ricchezza della “casta”. Organismi istituzionali, di controllo e di servizio pubblico, monopolizzati dai partiti che nominano chi vogliono senza lasciare spazio alla meritocrazia. Politici in prima linea intenti a difendere con protervia e nessun pudore privilegi trasformati in diritti. A destra come a sinistra. Nel suo libro, scritto insieme al giornalista Marco Rizzo, viene esposto un quadro simile. Ma lei, alle prossime elezioni, andrà a votare?
“Io sono assolutamente contrario all’astensione dal voto come metodo di dissenso. Esiste sempre una soluzione meno peggiore di altre. Purtroppo, data la legge elettorale a liste bloccate attualmente in vigore, non è facile scegliere.
Però il mio voto vale quanto quello di persone che disprezzo profondamente. E per questo non lo butterò mai via.”


Gregorio Romeo

11 novembre 2007

EDITORIALE NOVEMBRE 2007


Oggi in Italia i neolaureati guadagnano in media 23 mila euro l’anno, cioè come un operaio. Lo riporta una ricerca di Od&M Consulting. Qualche settimana fa alcune migliaia di ragazzi sono scesi in piazza per protestare contro il numero chiuso che veniva definito "un sopruso antidemocratico e discriminatorio". Erano consapevoli di difendere un sistema che li consegnerà, statisticamente, a titoli-cartastraccia e a stipendi da fame? La svalutazione della laurea non è una fatalità o una congiura dell’orco capitalista. Avremmo potuto evitarla. Come? Con test d’ingresso selettivi, tempistiche contingentate (leggi: se vai fuoricorso ti raddoppio le tasse), commissioni severe. Insomma estirpando l’idea che l’università sia un diritto e non una conquista riservata ai migliori. Misure a costo zero, anche se impopolari in un paese buonista, conservatore e visceralmente antimeritocratico. Molto meglio il dormitorio di stato su cui troneggia l’insegna ideale: "laureatevi e farete gli operai".
Luca Gualtieri

10 novembre 2007

CARTOLINA DAL MAROCCO


All’ aeroporto di Marrakech è frequente imbattersi in guide improvvisate che cercano di spillare qualche decina di euro ai visitatori in cambio di un giro turistico in città.
Non si possono riconoscere perchè non hanno segni distin­tivi e il loro approccio sembra solo di cortesia, come semplici viandanti.
Così è stato anche per noi, giunti in aereo a Marrakech l’ulti­ma settimana di settembre. Non appena ci avviamo con l’auto noleggiata la guida si affianca in motorino per indicare la stra­da verso la città. Poi, si propone di salire in macchina e così, in poche ore, visitiamo insieme i mercati, le botteghe, assaggia­mo i sapori della tavola e accettiamo di vedere i dromedari in un arido palmeto subito fuori il centro urbano.
Durante il Ramadan, la città, interamente musulmana, è più lenta. Le botteghe chiudono prima e così anche Place Djemaa el Fnaa, nel cuore della Medina (città vecchia) è meno affolla­ta del solito. Ma nell’area coperta dei Souq, verso nord, i mille e più negozi di tappeti e ceramiche sono sempre aperti, in vie strette e quasi buie per la folla di persone e cose esposte.
Qui le compere, e non solo per i turisti, seguono un rituale unico, perchè le cose non hanno mai un valore. La contratta­zione è estenuante: il negoziante fa il primo prezzo, sempre altissimo. Il compratore ribatte per la metà. Il negoziante non accetta, però sembra pensarci su. Allora arriva la contropro­posta, ma non va bene, troppo alta... Finché uno dei due cede, e generalmente i bottegai possono andare avanti ore.

Il caos che regna nella piazza, soprattutto al tramonto, quan­do vengono allestiti tavoli per cenare all’aperto e l’intera area si popola di cantastorie, musicanti, giocolieri, elemosinanti, non deve evidentemente intaccare la spiritualità della mo­schea Koutubia, a sud della piazza, che purtroppo rimane an­cora inaccessibile ai visitatori europei. Dall’omonimo minare­to alto 69 metri, gemello della Giralda di Siviglia per età e stile ( risalgono entrambe al XII secolo ), il Muezzin richiama alla preghiera i fedeli cinque volte nelle ventiquattro ore. Le sue sono parole tonanti, che svegliano nella notte entrando per­fino nel nostro Riad, a qualche centinaia di metri di distanza. I Riad, (in arabo “giardino”) un tempo erano ricche dimore di si­gnori locali. Oggi sono hotel anche lussuosissimi, che offrono ai visitatori riparo dalla rumorosa vita cittadina. L’abitazione si sviluppa attorno ad un cortile centrale aperto, senza vista sui vicoli attorno, isolata dal mondo esterno.
All’interno lo scenario è in molti casi splendido. Pareti coperte da mosaici in maiolica, pavimenti rivestiti di tappeti, mentre nel cortile un rivolo d’acqua scorre in una fontana di terra­cotta.
Per contrapporla a Casablanca, città industriale sull’Oceano Atlantico, gli abitanti la chiamano “Città rosa”. Il colore degli edifici, soprattutto nella Medina, è quello delle terre che cir­condano la città, un rosa tiepido che accompagna la memoria di ogni istante vissuto a Marrakech.
Per secoli è stata definita “Porta del Sud”, luogo di incontro delle carovane di dromedari provenienti dal Nord, con stoffe e tappeti, e di quelle provenienti dal meridione, con oro, avo­rio e schiavi neri.
Oggi Marrakech è il punto di partenza per chi vuole avventu­rarsi nel “Grande Sud”, oltre le montagne dell’Atlante, fino alle prime dune di sabbia, a pochi chilometri dal confine saharia­no con l’Algeria.

In questa regione vivono le popolazioni marocchine di etnia berbera, ancorate a stili di vita antichissimi. Sono le popola­zioni originarie del NordAfrica, spinte nelle aree più interne del Continente dalle invasioni arabe, che si sono succedute nel primo Medioevo diffondendo l’Islam e la lingua araba. Ma i berberi hanno mantenuto e tramandato la loro cultura, prevalentemente orale, e la loro lingua, basata su un proprio alfabeto che conta ben tremila anni.
Così, attraversando le campagne montuose dell’Atlante, nella direzione di Ouarzazate, il Marocco diventa più inafferrabile, i paesaggi si fanno sensazionali, i villaggi sono rari e nascosti. Dalla strada si possono intravedere delle costruzioni in argilla incastonate nelle montagne.
Poi, se un villaggio sterrato non dista troppo dalla strada asfaltata e il terreno è agibile, si può tentare di raggiungere le case di pietra che si raccolgono attorno al solito Minareto, per scoprirne gli abitanti. Almeno una persona nel villaggio parla francese, gli altri il tamazight (per noi “berbero”).
E mentre conosciamo gli uomini adulti che lavorano alla co­struzione di una piccola moschea in pietra, i bambini escono alla spicciolata dalle case. Dapprima, con sospetto, restano fermi davanti agli usci, poi ci approcciano con una palla per giocare insieme. Ci chiedono anche delle penne per scrivere (dicono “bic”). Così, ci facciamo indicare la scuola, che scopria­mo incredibilmente in ottime condizioni in contrasto con la povertà del villaggio.

Intanto delle donne ci chiamano verso le loro case. Vogliono offrirci del tè verde zuccherato al sapore di menta, autentico segno dell’ospitalità delle popolazioni berbere. Un rito che si ripete sulla strada rettilinea verso Zagora, ultima città da attraversare prima di immergersi in un paesaggio rarefatto, dove all’orizzonte le ultime montagne nere bruciate dal sole sembrano crateri, finché la natura si spegne e lascia il posto al deserto.

Dario Augello

1 novembre 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.12



Siamo arrivati alla dodicesima puntata di questa rubrica, undici scritte da me, una da Nicola Spagnuolo, redattore di Vulcano di provenienza oscura, quanto quella degli Etruschi, e sparito pochi mesi fa, senza farci sapere più nulla di sé, proprio come non si sa niente degli Etruschi.
Fatto sta che una puntata la scrisse lui, precipitando in questo modo al penultimo gradino della scala etica, che vede agli ultimi tre posti: il futuro segretario della "cosa rossa", l’autore della rubrica anni 80 e, all’ultimo posto, il lucumone, appellativo del re degli Etruschi, che godeva di scarsissimo potere.
Per Nicola fu un’infatuazione a cui non seppe resistere, come accadde nel 1981 al popolo musicale italiano, quando permise al bel cantante belga Plastic Bertrand di scalare le classifiche con ben due raffinati successi: Hula Hoop, una sorta di pop-new-wave-punk-trash, e Ping Pong.
Ping Pong partecipa a Sanremo nel 1982 raggiungendo la finalissima. La lirica rappresenta la summa poetica di Plastic, spiccando per profondità di introspezione e acutezza nell’analisi di un rapporto di coppia oramai frusto: la relazione tra i due amanti non è altro che una dolorosa e faticosa partita a ping pong. Sì proprio così, un botta e risposta snervante, senza soluzione di continuità, e alla fine chi vince, chi dei due amanti ha la meglio, resta con in mano una piccola racchetta di legno e una pallina leggera e bianca, quasi trasparente.
La morale? Senza una persona con cui giocare a ping pong cosa sarebbe la vita, cosa l’amore? Puoi giocare a ping pong contro il muro, certo si può, ma non è, in fondo, più ripetitivo della masturbazione?
Quanto era importante quello scambio serrato di colpi tra te e qualcuno che si muoveva: e non un muro. Sarebbe bello un muro che si muove… ma non esiste. E’ del tutto inutile continuare a sperare che un muro si muova, che prenda una racchetta in mano; i muri non hanno le mani. I muri sono senza mani, maledizione!
Ecco, questo è pressappoco ciò che il belga Plastic Bertrand voleva dirci quando è calato in Italia tra l’81 e l’82, conquistando con la sua filosofia comportamentale migliaia di ragazzine.
Cinque anni dopo il ragazzone parteciperà all’Eurofestival quale rappresentante del Lussemburgo (paese celebre per la sensibilità nei confronti dello struggimento amoroso), con il pezzo Amour amour, che letteralmente significa un muro un muro. Ma l’incanto era rotto: si piazza penultimo.
Mi piacerebbe concludere con il solito "e di lui non si seppe più nulla come per gli Etruschi" ma non posso perché nel 2002 conduce Star Academy, una specie di Amici di Maria de Filippi belga, ma che non riscuote alcun successo. Lettore, se arrivi fin qui, pensaci: potevi occupare meglio gli ultimi 90 secondi? Il tempo è importante.


Fabrizio Aurilia

20 ottobre 2007

CAMBOGIA: ASIA IN TRANSIZIONE

Impegnato in un lungo viaggio per l’Asia, il nostro collaboratore Marco Bettoni ci racconta la Cambogia, la sua storia, le sue dolenti contraddizioni.


Stretta tra la Tailandia e il Vietnam, due paesi in corsa per recuperare terreno nel sistema economico globale, la Cambogia cammina in ginocchio. Fatta eccezione per le sproporzionate speculazioni, edilizie in particolar modo, legate al turismo e l’esportazione illegale di legno pregiato, lo sviluppo del paese è fermo.
Durante gli anni sessanta le premesse per una rapida crescita c’erano tutte: scuole funzionanti, sistema sanitario tra i migliori del sudest asiatico, economia in movimento. Ma la guerra del Vietnam infuriava ai confini e gli sforzi di Re Sihanouk – figura emblematica che attraversa tutta la storia contemporanea del paese – per mantenere la Cambogia non allineata, non furono sufficienti per evitare il catastrofico coinvolgimento. Il nuovo governo, instaurato con un colpo di stato, schierandosi a fianco degli Stati Uniti dichiarò guerra al Vietnam, venendo così invaso dalle milizie nemiche.

Scivolando verso l’abisso.
La “guerra segreta” di Nixon e Kissinger - il bombardamento a tappeto dei villaggi di Laos e Cambogia all’oscuro degli americani stessi e del mondo intero- diede forza e credibilità al movimento armato degli Khmer rouge, che riuscirono a conquistare il potere con un colpo di stato nel 1975, l’Anno Zero. Il regime comunista di Pol Pot perpetrò un sistematico “autogenocidio” per quattro anni, fino ad una nuova invasione da parte del Vietnam e la successiva occupazione militare, durante la quale le Nazioni Unite hanno ben pensato di foraggiare le sopravvissute milizie di Pol Pot in funzione antivietnamita.
Se edifici ed infrastrutture sono stati distrutti dalle bombe, i valori, speranza nel futuro in primis, sono stati annichiliti da uno fra i più folle regimi che la storia contemporanea abbia mai conosciuto. L’abolizione del sistema educativo, sanitario ed informativo del paese e l’eliminazione fisica di insegnanti, dottori ed intellettuali erano parte centrale dell’attuazione della rivoluzione in Cambogia. Queste scelte condannarono la nazione a rimanere in ginocchio ben oltre la caduta del regime. Se l’amministrazione del paese, secondo una politica di stampo maoista, non ha risparmiato nessun cambogiano (eccezion fatta, ovviamente, per gli alti dirigenti del regime) le persone specializzate venivano considerate come primi obiettivi da eliminare. Dei più di novecento dottori di cui il paese disponeva prima dell’Anno Zero, solo cinquanta sopravvissero ai quattro anni di regime.

Nazioni Unite in arrivo.
Dopo dodici anni di occupazione venne disposta la più imponente e fallimentare missione internazionale sotto l’egida dell’Onu, che si concluse con le elezioni del 1993. Gli obiettivi che la comunità internazionale si era posta erano ambiziosi e gli strumenti di cui si era dotata i più forti mai affidati ad una missione internazionale: mantenere legge ed ordine, disarmare le milizie, salvaguardare i diritti umani, favorire la riconciliazione nazionale, organizzare e svolgere libere elezioni. Il tutto, attraverso il diretto governo del paese, affidato nei suoi aspetti fondamentali all’UNTAC, acronimo di United Nation Transitional Authority in Cambodia. L’unico obiettivo davvero raggiunto, le libere elezioni, si e’ dissolto in pochi anni, non essendo sostenuto da nessun altra condizione di sopravvivenza per una democrazia.
Le milizie degli Khmer rouge continuavano a dominare parte del paese; il Partito del Popolo Cambogiano, di diretta derivazione vietnamita, perse le elezioni ma trovò comunque il modo di continuare a governare, grazie al controllo delle forze armate. Fino al colpo di stato del 1998, che fissò definitivamente il potere nelle mani del PPC, sotto le mentite spoglie di una democrazia costituzionale.
In parallelo, l’esercito di tanto inutili quanto lautamente pagati “consulenti” marchiati UN ha contribuito all’incrostazione definitiva di uno dei più corrotti sistemi politici ed economici del mondo. Il diffuso rifiuto da parte dei membri della missione UNTAC di utilizzare la moneta locale ha portato il dollaro ad essere seconda moneta del paese e, di fatto, alla perdita del controllo sui movimenti interni di denaro. Dal primo ufficiale di frontiera, dal più insignificante dipartimento di polizia, ai vari ministri, fino allo stesso Re, la corruzione e’ il sistema. Non si entra in ospedale senza passare “under the desk”, non si sporge una denuncia senza pagare l’agente che hai di fronte, non si apre un’attività economica qualsiasi (ne’ la si conduce) senza “stabilire buone relazioni con le autorità”.
D’altronde, poliziotti, militari, dottori, funzionari turistici, impiegati di ogni genere del settore pubblico (facendo sempre eccezione per la leadership) sopravvivono con uno stipendio di 20 dollari americani al mese, spesso con una famiglia numerosa alle spalle.


Cambogia oggi.
Se la Cambogia turistica sopravvive nonostante queste condizioni, il resto del paese arranca. Mentre le catene alberghiere internazionali e compagnie aeree locali influenzano direttamente le scelte degli amministrazione del paese (fino a impedire la costruzione di strade quando sia ritenuto nocivo al loro interesse), la fame e la mancanza di servizi sanitari fondamentali affliggono
la maggior parte della popolazione.
Con il 65% di cambogiani affetti da tubercolosi -altra eredità raccolta dal delirio suicida del regime degli Khmer rouge attraverso la citata abolizione del sistema sanitario e la deportazione dell’intera popolazione nella campagna in condizioni inumaneil 90% della popolazione al di sotto della soglia di povertà e la corruzione come unico mezzo per ricevere l’assistenza necessaria, ciò che non termina la fame lo conclude la malattia.
Proprio ora, mentre l’attenzione sanitaria mondiale e’ rivolta al raffreddore dei polli, la Cambogia affronta la più devastante epidemia di dengue che abbia mai colpito il paese. Il clima umido della stagione delle piogge rende questa malattia, letale specialmente per i bambini, di facilissima diffusione.
L’assoluta inconsistenza degli interventi del governo e la politica sanitaria dell’Organizzazione mondiale della sanita’ (“paese povero, medicine povere” che, tradotto nel dizionario cambogiano, significa l’autorizzazione a vendere medicine per la tubercolosi vietate nei paesi più sviluppati in quanto inefficaci e dannose per la salute) lasciano le uniche speranze nelle mani delle ONG che operano nel paese.


Volontari all'opera.
Nell’inferno della vita comune in Cambogia, solo l’intervento imponente di numerose organizzazioni non governative, di estrazione locale o di carattere internazionale, ha portato il paese a compiere piccoli passi avanti dalla fine dell’occupazione ad oggi.
Gli unici ospedali funzionanti, l’alfabetizzazione diffusa nell’entroterra, il reinserimento dei disabili il cui numero cresce quotidianamente (minare i campi di riso è stata la strategia preferita dell’ultimo decennio di guerra civile), sono alcune tra le tante attività svolte dalle associazioni che, gratuitamente, sostituiscono governo e istituzioni internazionali.
Dieci anni fa si scriveva che per la Cambogia: “la speranza risiede nelle persone non ancora nate”. Oggi la speranza per la Cambogia sta negli eroi sconosciuti che si assumono la responsabilità delle scelte di altri. In quelle persone che lottano quotidianamente contro la fame e le malattie in un paese dove il senso della comunità -un tempo carattere distintivo della nazione e’stato sotterrato da troppo tempo. Persone che ritengono che “Aspettando Godot” non si arrivi da nessuna parte.





Il complesso dei templi di Angkor Wat, meraviglia del mondo di eccezionale impatto, il turismo sessuale e la diffusione della droga sono i tre punti focali attorno i quali si muove il turismo internazionale e che hanno indotto un crescente interesse verso il paese.
Il governo guadagna moltissimo da questo turismo, sia in via ufficiale -attraverso i costosissimi biglietti di ingresso per i templi, di cui il 75% del ricavato finisce direttamente nelle mani del ministro delle finanze- sia in via non ufficiale, attraverso le varie procedure sottobanco. Catene alberghiere internazionali, in particolare provenienti dalla vicina Tailandia, pagano a caro prezzo la possibilità di agire su un terreno che offre spazio per le più grandi speculazioni. La comunità guadagna un po’ meno, spaccata tra strade colorate, luminose e tranquille, e il resto delle città, abbandonate al più totale degrado.
L’ingresso di questi grandi capitali ha contribuito alla formazione di una diffusa microcriminalità che fa dei turisti il proprio punto di riferimento, come vittime o come clienti.

Marco Bettoni

10 ottobre 2007

EDITORIALE OTTOBTRE 2007

Va bene. Il Quirinale, con il suo folcloristico codazzo di corazzieri e ciambellani, costa 235 milioni l’anno e un volo di stato preso di straforo manda in fumo 20 mila euro. L’indignazione dell’onesto contribuente ci sta e bene fanno i tribuni di turno a darle visceralmente sfogo. Però. Però se ci entusiasmano le cifre, ne possiamo spulciare di migliori. I cosiddetti statali "fannulloni", quelli che contribuiscono con qualche sbadiglio al progresso economico-culturale del paese, costano 14 miliardi l’anno, l’equivalente di 60 Quirinali, di 700 voli di stato e di una discreta manovra finanziaria (dati Eurisko). Non ho ancora visto cortei contro di loro. Gli evasori fiscali, che viaggiano in Porsche e dichiarano un reddito da garzoni, costano 200 miliardi ogni 12 mesi, cioè 870 Quirinali e 10 mila voli di stato. E la piazza sembra snobbarli. Ma oltre ai fardelli attuali, ci sono anche quelli futuribili. Uno studio dell’Agici segnala che l’immobilismo infrastrutturale (leggi: No-Tav e No-Mose), nei prossimi 15 anni costerà ai cittadini altri 200 miliardi. E tanto per restare tra le quattro mura. Per uno studente fuoricorso lo Stato sborsa 20 mila euro l’anno. Voi quanti fuoricorso conoscete?
Luca Gualtieri

13 agosto 2007

CRITICA ROSA SHOKKING

“Voglio un mondo rosa shokking” sembra essere il libro dell’estate, o almeno di questo inizio di stagione. A giudicare dal presenzialismo del volume nelle vetrine di tutte le più grandi librerie e mediastore della città, e considerato anche la velocità con cui scompare dagli scaffali ci potrebbe far pensare che il romanzo (di ciò stiamo parlando) di Virginia Fiume e Rossella Canevari ( in rigoroso ordine alfabetico inverso) possa essere accostato a quegli instant book su commissione, di cui le case editrici si servono per rientrare dalle spese: un po’ come succedeva negli anni ’90, e forse ancora oggi, quando una casa discografica prendeva cinque giovanotti, li strapazzava un po’, dava loro dei ruoli che il pubblico riconosceva, e via; avevi fatto i Five. Eppure il libro non è questo. Il progetto nasce da un’esigenza che dalla lettura emerge chiaramente. Le due autrici vogliono scrivere un libro; probabilmente non importa come. Basta sfondare nel mercato libraio. La spinta al racconto non nasce dal desiderio di svolgere proprio quella storia. Il discorso del testo è paradossalmente in secondo piano: nel momento in cui consideriamo come obiettivo di un autore la scrittura, diviene non necessario giudicare la trama, o per dirla meglio, la fabula. “Voglio un mondo rosa shokking” sembra essere il racconto di come sia possibile costruire un prodotto editoriale con grande impegno, talento, astuzia, veicolando un messaggio, (non importa quale) con sempre bene in mente il pubblico, o meglio, il lettore ideale. Il racconto di un breve ma intensissimo lasso di vita di due giovani donne milanesi, più o meno in carriera, che lottano, in modo diverso, ogni santissimo giorno, contro una società gerarchicamente governata dall’uomo, dove però alla fine è la donna che sceglie sempre e comunque, è il mezzo (e il fine insieme) a cui hanno teso, con successo e grande merito le due autrici. Sì perché la storia è bella, è veloce e soprattutto parla di cose: se durante la lettura vi aspettate che le due protagoniste vadano al supermercato, bè ci andranno, e andranno in quello che avete immaginato voi; sì esatto: L’Esselunga. Il libro è pieno di spie adatte all’immedesimazione più completa: non è possibile immaginare una Milano diversa da quella descritta soprattutto nei capitoli di Camilla, la studentessa laureanda. Il punto di vista è sempre interno al testo sia nelle sezioni di Camilla, sia in quelle di Sofia, la sorella maggiore trentenne. Per diciassette fitti capitoli le due narratrici-personaggio si palleggiano l’esposizione, tentando a volte di sfruttare le qualità del narratore postmoderno: la reticenza, le focalizzazioni su altri personaggi, e la continua manomissione del tempo del discorso. Nei capitoli di Camilla sappiamo cose già successe, ma che poi ci spiegherà meglio Sofia quando verrà il suo turno. Dal piccolo si giunge al grande, dal particolare al totale. Sembra che la costruzione dell’intreccio dipenda esclusivamente dal punto di vista delle narratrici, ma alla fine scopriamo che non è così: il capitolo chiamato Epilogo si chiude con un post-scriptum che strania la vicenda, togliendola dalle mani delle protagoniste. In questo brano non si sa chi parli, (un terzo narratore? Sofia? Camilla?) ma, benché il testo sia stato totalmente aderente ad un contesto reale, questo punto di vista nuovo si rivolge al lettore, ricordandogli che è tutto finto: è tutta fiction, invenzione. Un finale quasi borgesiano, addirittura crudo, se il lettore ideale ha seguito le indicazioni delle narratrici: ma se non le ha seguite, allora avrà già capito che nulla è reale nel mondo rosa shokking.

Fabrizio Aurilia

1 agosto 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.11


Cari lettori e care lettrici, abbiamo di fronte a noi un altro interminabile agosto di studio, tremendo, innaturale e coatto studio. Gli esami di settembre sono vicini, più vicini di quanto non crediate. Ma non preoccupatevi, il Vostro Affezionatissimo ha preparato per voi una succulenta, quanto superficiale puntata di questa rubrica, che, appare chiaro oramai, si trascina da undici puntate lungo il cammino di una lentissima agonia: come la carriera del Barone Franco Causio, che dopo aver fatto le fortune alla Juve, nell’86 va a svernare a Lecce, cercando di ritrovare lo scatto dei tempi d’oro, ma racimolando solo risatine di scherno, e qualche commento del tipo: eh, si vede che non è più quello di una volta. Lo so benissimo che anche voi, là fuori, la pensate così riguardo questa rubrica. Ma io me ne frego e vi parlerò di un gadget che ha cambiato, in parte, il modo di giocare di noi piccoli bimbi anni ottanta, persi come eravamo tra le superfetazioni berlusconiane, di una televisione oramai dai costumi corrotti, e il terrore dei parchi. Quel subdolo brivido che si faceva subito sgomento, quando qualcuno, più avvezzo di noi al mondo, ci diceva che nei parchi c’erano quelle cose che si chiamavano "I Drogati". Erano quelli che posizionavano le siringhe infette proprio accanto allo scivolo, oppure lì nel recinto con la sabbia. La parola "siringa", negli anni ottanta, era orrendamente legata al parco. Forse è per questo che in Italia non esiste uno straccio di pensiero ecologista che prescinda da Pecoraio Scanio: siamo stati istigati ad odiare i parchi. Ma una siringa l’avevamo e l’amavamo. Più che una siringa era una cannuccia, la mia era azzurra: era la cannuccia del Crystal Ball (ora il lettore affezionato dirà: ah! il Crystal Ball, che bello!). Il gioco era quello di prendere della "pasta" e stenderla accuratamente, poi imboccare la cannuccia e soffiare: a quel punto la "pasta" si trasformava in un palloncino colorato trasparente, e più soffiavi, più diveniva grande, poi lo si staccava e si ripeteva l’operazione, fino a che non ci si ritrovava in un mondo di colori, fatto di rotondità leggere, che si libravano nell’aria, assecondando i nostri movimenti. Noi intellettualoidi di Vulcano molte volte ci ritroviamo a maneggiare della "pasta", per poi avere a che fare con dei piccoli tubicini, soffiando nei quali, dopo un po’, il mondo torna ad essere pieno di colori, a riempirsi di leggerezza, di spensieratezza anni ottanta. Eppure, in anni di riunioni di redazione, il Crystal Ball non l’ho mai visto.

Dedicata ad una lettrice che, circa un anno fa, mi chiese di parlare del Crystal Ball.
Fabrizio Aurilia

30 luglio 2007

"NIENTE DANTE AD AGOSTO" Parola dei Prof.


L’Alighieri è il grande escluso dai docenti della Statale. Dal piano di studio estivo. Il piano di studio estivo non si trova nei dipartimenti universitari, ma si tratta di una speciale raccolta di titoli che i professori hanno stilato, dietro richiesta di Vulcano, per gli studenti che desiderano leggere un libro compatibile con i contesti vacanzieri. In particolare, un testo da leggersi sotto l’ombrellone, con la concentrazione messa a repentaglio dai vari "Cocco bello…cocco bello", e poi da bambini che piangono per mangiare un pezzo di focaccia e poi piangono perché non possono fare il bagno dopo aver mangiato la focaccia, e ancora piangono quando è ora di uscire dall’acqua.
Paolo Bosisio è stato il primo a rispondere. Giovanni Iamartino ha preliminarmente consigliato di non smettere di pensare, durante le vacanze, e ha ricordato che il pensiero è uno dei passatempi più disponibili sul mercato. Elena Dagrada ha indicato un racconto di Salinger, che, a detta sua, è migliore del Giovane Holden. Amedeo Vigorelli, dopo aver premesso che in spiaggia occorre fare silenzio ‘interiore’, ha chiesto a noi cosa gli consigliavamo per le vacanze. Stefano Allovio ha dichiarato che, con una bambina piccola, di tempo sotto l’ombrellone ne ha poco perché: «Lo passo a fare buche nella sabbia, formine, secchiellate e rastrellate di varia natura». Maria Teresa Cattaneo, invece, ha segnalato un libro di Fruttero che: «Farà guardare con occhio diverso i propri vicini di ombrellone».


STEFANO ALLOVIO. Antropologia culturale
M. Aime, L. Tokou, Gli stranieri portano fortuna, Epoché
F. Remotti, Contro l’identità, Laterza


PAOLO BOSISIO. Storia del teatro e dello spettacolo
H. Khaled, Il cacciatore di aquiloni, Piemme
S. A. Hornby, Boccamurata, Feltrinelli


MARIA TERESA CATTANEO. Letteratura spagnola
E. V. Matas, Il viaggio verticale, Voland
F. Fruttero, Donne informate sui fatti, Mondadori


ELENA DAGRADA. Teoria e analisi del linguaggio cinematografico
G. Parise, Sillabari, Adelphi
J. D. Salinger, Nove racconti, Einaudi


FRANCA CAVAGNOLI. Teoria e Tecnica della traduzione inglese
P. Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi
R. Matteucci, Cuore di mamma, Adelphi


GIOVANNI IAMARTINO. Storia della lingua inglese
J. Swift, I viaggi di Gulliver, Feltrinelli
D. Lodge, Scambi, Bompiani.


MARIA GIULIA LONGHI. Letteratura francese
G. de Maupassant, Racconti di vita di provincia, Einaudi
J. C. Izzo, Vivere stanca, E/O


AMEDEO VIGORELLI. Filosofia morale
O. Pamuk, Il mio nome è rosso, Einaudi
L. Fest, Io no. Memorie d’infanzia e di gioventù, Garzanti


Diana Garrisi

22 luglio 2007

DIRITTI DISTRATTI

Dietro il fronte, amaramente trasversale, che in Italia intende negare diritti alle coppie di fatto ed omosessuali, non vive solo una depressa e atavica ignoranza. La crisi è più profonda e si inserisce a pieno titolo nel fenomeno che vede decrescere il potere politico, in virtù di una sempre più accentuata anarchia di interessi corporativistici e finanziari. In questo modo, le autorità governative tradizionali, incapaci di rispondere alle sfide cruciali che la contemporaneità presenta, riflettono sulle libertà individuali i propri interventi normativi. Il bigottismo, l’instabilità e la piacioneria tutta italiana spiegano gli imbarazzanti ritardi, in termini di diritti civili, del nostro Paese rispetto al resto d’Europa. Così, mentre si dovrebbe discutere di riforme istituzionali, welfare-state, integrazione e clima, da noi, a giorni alterni, si dibatte della tanto ostentata quanto insignificante castità prematrimoniale del ministro Mastella, dei lifting dell’onorevole Luxuria, dell’harem del presidente Berlusconi. Insomma, come scriveva Piero Gobetti: "senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico".
Gregorio Romeo

20 luglio 2007

EDITORIALE LUGLIO 2007

Su un noto blog letterario di cui vi consiglio la lettura (ilgiudicesulmulo.blogspot.com), c’è un amaro ma reale aforisma: "La legalità è per gli italiani come la pastasciutta per gli svedesi: un contorno". Me ne sono accorto una volta di più leggendo le isteriche reazioni di alcuni studenti alla nostra inchiesta – pubblicata sul numero di Vulcano di giugno e leggibile sul nostro blog – riguardo all’esame di letteratura tedesca. Si va da chi ci definisce dei "rastoni che farebbero meglio a pensare a studiare invece che a scrivere" a chi ci insulta accusandoci di aver messo a rischio la facilità di uno degli ultimi baluardi degli esami fuffa dentro la Statale. Il fatto che su questa inchiesta noi ci abbiamo lavorato per ben 3 mesi e che ogni riga da noi scritta è documentata dalle prove che abbiamo raccolto, ovviamente passa in secondo piano. Visto che a quanto pare siamo noi a doverci sentire nel torto per aver denunciato una situazione di manifesta illegalità.

Gli insulti a Vulcano da un certo punto di vista non mi meravigliano nemmeno troppo. Rientrano in un atteggiamento più generale, e tipicamente italiano, nei confronti della legalità. Quello ad esempio del cittadino indignato che stabilisce lui se e quante tasse pagare, credendosi pure nel giusto perché lo Stato è arrogante e poi i politici sono tutti ladri. Quello delle donne che tirano i sassi alla polizia mentre arresta i camorristi, perseguitati eroi che lottano per combattere la disoccupazione nei quartieri degradati di Napoli; quello di Gustavo Selva il cui deretano resta saldamente incollato allo scranno del Senato perché sono i cittadini – dice lui - a chiedergli di restare; quello infine di tutta una classe politica tangentopolitana (e post-tangentopoli) che si è autoassolta dapprima "perché tanto rubavano tutti e allora perché solo io dovrei pagare, i problemi sono altri" e poi con il motto "la magistratura vuole fare un colpo di stato". L’illegalità quando fa comodo a tutti, nel nostro Paese viene spesso placidamente accettata, condivisa e difesa come un diritto sacrosanto. D’altronde è fastidioso avere un mondo dove esistono le leggi. E dove per passare agli esami non basta solo comprarsi dei libri, ma bisogna anche studiarli. E’ triste constatare che gli ancestrali vizi italici si insinuano di già nella mente di molti studenti. Ragazzi che si apprestano a divenire parte attiva della società di domani. Persone che continuando a difendere con orgoglio il diritto all’illegalità andranno ad aumentare la solita vetusta zavorra che appesantisce l’Italia da tempo immemorabile.
Beniamino Musto

15 luglio 2007

DUE E TRE QUARTI


Adolescenti isterici inebriavano l’aria di motti natalizi. Un bambino biondissimo getta un guanto per terra per poter tirare meglio il cappotto della madre. Fidanzati facchini. Una famiglia di indiani accompagna la figlia a cercare un regalo di fidanzamento, forse. Un bigle lascia la sua traccia vicino ad una rossa cabina telefonica e l’anziana padrona arrossisce e sa che dovrà provvedere alla vergogna.

Il primo sorso.
Poliziotti agli angoli delle strade che non battono ciglio. Skaters. Un ragazzo vestito elegantemente con i capelli lunghi e biondi raccolti in una coda con una custodia di un sax.
Una ragazza pallida con i capelli neri lucidissimi raccolti dietro. Un giovane che fuma una pipa in strada! Bambini incollati alle vetrine del Disney Shop.
Un altro sorso.
Una madre che pulisce con un tovagliolino gli angoli della bocca della figlia.
Finito.

"Non è certo il buon caffè che posso bere in Italia, ma non si rinuncia mai ad una sana dose di caffeina allo Starbucks". Pensava, mentre appallottola con entrambe le mani -facendo attenzione a non far cadere il "The Times" da sotto il braccio - la tazza cartacea e la getta nel primo cestino che trova.

Non odiava la folla, era abituato ad averne a che fare in preparazione dei concerti, ma voleva dedicarsi alla lettura nel parco. Si riversa nell’Hyde Park. Indeciso se sedere su una sedia bianca di fronte alla tensostruttura con il palco o dividere una panchina con qualche senza tetto, si dirige altrove. Apre il giornale e lo adagia sull’erba, vicino ad un laghetto.
Si passa una mano fra i capelli e apre la cartelletta di pelle.
"Troppe scartoffie!" Ride compiaciuto della confusione che si porta appresso: è il miglior allenamento per mantenere l’equilibrio in tutto quello che fa.

L’aveva sfogliato un paio di volte. La prima il pomeriggio stesso in cui l’aveva trovato, abbandonato o dimenticato nell’erba posticcia su quel grattacielo di Milano. Si era però limitato ad ammirarne incantato la calligrafia e non sapeva se fosse giusto o no leggerne il contenuto. La seconda quand’era in aeroporto, ma l’aveva richiuso subito perché intendeva celebrare il rito della lettura da solo e in silenzio.
Lo teneva sul palmo della mano. Era di forma rettangolare e piuttosto allungato in verticale. Aveva una copertina marrone rigida.
Lo apre.
Sulla prima pagina due sigle in inchiostro dorato, scritte a mano con una calligrafia ottocentesca " I. D. ". Poco più sotto un sottotitolo: " l’abaco della cifra mnemonica delle mie esperienze mute ".

Eva Dolce

catsonthetales.splinder.com

UNO E MEZZO


L’acre odore di vernice cominciava a dargli alla testa.
Si passa una mano fra i capelli mentre cerca avidamente di decifrare l’ora dal pendolo della hall. Quarantasei minuti di attesa e nessuno ancora sembra essersi fatto vivo per venire a prenderlo.

Fa stretching con le braccia per poi portarsi il polso destro sotto al naso. Il ticchettio dell’orologio sembra infastidirlo ancora di più dell’odore di vernice.
Si alza dal divanetto della hall e si dirige sbuffando verso la reception. Appoggia il gomito sinistro al bancone e affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni.
"Posso esserle d’aiuto?".
"Sì, volevo sapere se è permesso fumare in questa stanza".

L’addetto vorrebbe permettere ai propri muscoli facciali un’espressione contratta e stizzita ma sa bene quanto questo genere di clienti faccia comodo al proprio capo: si limita ad un "no", facendo però notare che l’entrata dell’hotel non è poi così distante.

Sorride e ringrazia, e si dirige verso l’uscita, come uno scolaretto al suono della campana.
Sta per sistemarsi la giacca quando scopre un tiepido inverno. Un insolito nevischio affievolisce l’aria Milanese.
Solo qualche passo per sgranchirmi le gambe.. Mormora, mentre si smarrisce in improbabili elucubrazioni.
Il farraginoso insieme di fumetti, evapora poco a poco dalla sua mente facendo però sempre spazio a nuovi pensieri.

Passa i navigli più volte. A ridosso del canale si rallegra della neve che viene a bussare indistintamente sui chiostri, sui passanti, sui tetti, ma nessuno sembra voler rispondere al tiepido richiamo dell’inverno.

Ride dalla sua strategica posizione: in piedi, vicino all’uscita. Alla sua destra un bambino che gioca con la condensa all’interno del tram a lasciare scritte sul vetro. Sorride e si passa una mano fra i capelli.
Scende ad una fermata a caso, percorre una strada non conosciuta e si ritrova davanti ad un grattacielo.

Non ha freddo. Se ne avesse sarebbe entrato in una qualsiasi caffetteria. Se entra in quell’edifico è per curiosità. Lo fa per l’amore di perdersi. Ormai ha perso un appuntamento importantissimo, ha smarrito il senso dell’orientamento, ha preso un tram senza pagare il biglietto: non resta che farsi cacciare da un edificio. Nessuno sa chi sia e può riprovare l’ebbrezza di sentirsi trattato come un invasore qualunque. Una volta cacciato si sentirà in dovere di tornare ai suoi affari.
Entra.
Nessuno sembra avere voglia di notarlo, tanto meno di richiamarlo per cacciarlo. Sembrano tutti presi nei loro inutili e prolissi scartafazzi.

Il pensiero di essere meno importante di un addobbo natalizio stiracchia un sorriso sul suo volto.

Spalanca la porta che trova al termine delle scale.
Nota un giardino artificiale al centro di questo improbabile terrazzo.

Siede sulla fredda panchina e stiracchia le gambe. Cerca il pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni, ma gli cade maldestramente ai piedi. Con fare distratto abbassa la mano sinistra per setacciare nella finta erba e raccogliere il pacchetto.
Quello che raccoglie però è, inaspettatamente, un libretto.
L’umidità lo stava rovinando ma è ancora leggibile. La prima cosa che lo colpisce è una grafia che sa di antico.
Eva Dolce

UNO


Tamburella freneticamente i polpastrelli della mano sinistra sulla scrivania, sguardo fermo sul monitor.
Il titolo della relazione e un inizio accennato.
Cancella tutto.
Scrive in bella grafia "torno subito" e attacca l’avviso sul primo monitor che trova, ma non si accorge che il foglio cade sul pavimento. Aria, mi serve aria, pensa, mentre allenta la cravatta e sbottona il primo in alto della camicia. Sale a passo veloce le scale, ascolta il ticchettare dei tacchi. Toglie le forcine dai capelli per farli riversare briosi ed energici sulle spalle. Allunga il braccio per spingere il maniglione antipanico. Si trova in cima all’edificio adesso. Toglie le scarpe e affonda i piedi nel prato posticcio del grattacielo. Siede sulla fredda panchina. Getta uno sguardo al pavimento. Non può fare a meno di sorridere. Chiude gli occhi. Ricorda di quando, dieci anni prima, ciondolava dal melo della cascina, poco distante da casa sua. Adorava affondare i denti fra quel succoso verde…
Si ritrova la cravatta in mano: l’abbandona poi per terra, con leggerezza. Conta con la voce i metri quadrati del terrazzo… 10 20 30… e parallelamente la sua mente volge alla conta dei giochi infantili che era solita fare nella "Curt dal fräs"…
Si alza. Percorre con lentezza il terrazzo. Si stiracchia. Abbraccia la ringhiera e osserva dall’alto le auto scorrere.
E sente ruscelli, i passi veloci di due persone che vanno allo stesso ritmo, la pelle che traspira, il caldo estivo e l’odore della terra del bosco. Torna verso la panchina. Raccoglie la cravatta e come da copione la risistema. Non dimentichiamoci del bottone, che oltraggio sarebbe! Cerca in un taschino della giacca interna altre forcine ma estrae un libello che non ricordava di aver portato dietro. Toglie il tappino della penna che tiene sempre nel taschino. Fa qualche annotazione.
Un nuovo messaggio. Prende svogliatamente in mano il cellulare ma si ritrova ad allargare un sorriso alla lettura del ricevuto.
"La stanno aspettando in ufficio!".
Vira lo sguardo verso la porta ma il contatto con il freddo pavimento le ricorda delle scarpe.
Le cattura, per poi sparire in un dedalo di scale, e poi di documenti di ufficio, e poi di cartelle e poi di colleghi e poi di riunioni, e di avvisi,…
Un solitario e buio rincasare. "Puoi rimediare al cigolio della porta ma non al senso di freddo quando entri nel tuo appartamento" pensa, mentre cerca con avidità il termostato.
Tre brevi telefonate si susseguono fra di loro, tutte soppresse con un gentile ringraziamento da parte sua.
Come da copione apparecchia per due, benché la consapevolezza di essere sola non è mai appannata. Abitudine? Forse. Nostalgia? Dicono gli altri.
Cerca nelle stanze il convitato che lei si aspetta di ritrovare, ma come ogni sera, da qualche tempo, si ritrova seduta sulla sedia della sua poco illuminata cucina, smarrita fra le camere di un anacronismo.
Stiracchia le braccia, le allunga, per poi stropicciarsi sul tavolo, guancia contro la tovaglia. Amba le palpebre.
Un improvviso colpo sulle gambe la fa sobbalzare, così come un imprevisto vento può sorprendere delle persiane non bloccate.
Un afono gatto non ha altri modi per richiamare l’attenzione altrui se non con un felino balzo sulle gambe della padrona!
Accarezza dolcemente il corpo dell’animale. In quel venerato silenzio, si fa coraggio la tiepida voce di lei:
"ventisette anni...ventisette anni… E lui non si sarà neanche ricordato…".
Vorrebbe fare la solita breve annotazione sul suo libello, ma non lo trova. Chissà dove sarà finito, in quel disordine che si porta sempre appresso...
Eva Dolce

LA CORTE DEI MIRACOLI DI DELHI



Quando le automobili si fermano e si accalcano in file caotiche davanti ai perentori occhi rossi. Quello è il momento. Lesti, si alzano dai marciapiedi e si spargono tra gli spazi lasciati dai veicoli. E cominciano a picchiettare sui vetri. Cartelli lungo la carreggiata come sentinelle dicono: "non incoraggiare i mendicanti". Eppure sono tanti quelli che abbassano il vetro della loro auto condizionata e tendono una moneta a quest’umanità derelitta. Bambini luridi, vestiti di stracci e polvere, ex lebbrosi che hanno perso dita, mani, piedi e storpi che si trascinano sui bastoni o su assi di legno con rotelle. I casi più disperati affollano le vie dei mercati o le zone più turistiche. Qui l’orrore prende il sopravvento sulla compassione. Volti dalle labbra tagliate, corpi senza arti superiori, corpi senza arti inferiori che si fanno largo, issandosi sulle braccia, o corpi ridotti al solo tronco, senza più né braccia né gambe, che si servono della bocca per raccogliere le elemosine.
Quanti sono i mendicanti di Nuova Delhi? Una recente inchiesta parla di 60.000, per la maggior parte emigrati dalle zone più povere degli stati vicini, l’Uttar Pradesh e il Bihar. Bambini, adulti, vecchi. Pare che abbiamo optato per l’accattonaggio data l’impossibilità di trovare lavoro. E il mestiere del mendicante sembra rendere, in certi casi, quanto quello di un salariato giornaliero, tra le 50 e le 100 rupie (1-2 euro) al giorno. Fare l’elemosina incentiva senz’altro la pratica del mendicare e sicuramente fomenta uno scomodo parassitismo, ma viene da chiedersi, se davvero c’è un surplus di manodopera e trovare un impiego risulta impossibile, che alternativa resta a questa gente che si è lasciata alle spalle una vita di stenti nelle campagne. E ancora, che alternativa resta agli storpi e agli sfigurati? Quante possibilità concrete hanno di trovare lavoro?
Questi derelitti accorrono nella città simbolo del boom, in vertiginosa espansione, e pretendono anche loro qualche briciola del benessere dilagante.
Una tragedia umana, che non sembra però porsi come questione sociale. E che solo ora diventa problema concreto. Da risolvere il più presto possibile. Prima del grande evento dei Giochi del Commonwealth che la capitale del subcontinente ospiterà nel 2010. Le vie della città andranno rastrellate e i mendicanti chiusi in appositi ostelli-prigione. Questa la soluzione proposta dal governo. Nascondere la polvere sotto il tappeto.


Chiara Checchini

10 luglio 2007

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI '80 N.10



Oggi c’è la possibilità che io faccia un discorso serio. No, va bene, l’opzione è remota, ma giunti alla decima puntata di questa trasparente rubrica forse è il caso di tirare un po’ le somme. Come già dissi, questo spazio nasce da un’esigenza di un ex direttore di Vulcano che, trovandosi improvvisamente senza l’intervista a Giovanni Paolo II, causa morte del capo dei cattolici, entrò in una spirale di disperazione che io seppi risolvere proponendo il lancio di una rubrica: parlare degli anni ottanta in un momento di crisi morale e ideologica della società italiana. Mi sembrava il modo migliore per alimentare questa crisi. Subito la mente corre a quanto diceva Vico riguardo la Storia che si ripete secondo cicli di ascesa e declino: noi siamo palesemente in declino, proprio come lo eravamo negli anni ottanta. E guarda caso c’è un anno, il 1981, che fa al caso nostro per una serie di esempi. Il 2007 è identico all’81: è lunare che nessuno prima del vostro affezionatissimo non ci abbia pensato. Rimanendo in tema cattolico pochi giorni fa abbiamo assistito al tuffo spettacolare di un tizio dalle transenne di piazza San Pietro, per atterrare sulla Papamobile, e insidiare la vita del Santo Padre (o comunque ammaccare la bianca carrozzeria della vettura). Con esiti ben più drammatici nel maggio dell’81 Giovanni Paolo II subisce l’attentato ad opera di Alì Agca, che, questa volta senza tuffo, spara e ferisce il Papa. La morale sarebbe che non basta lanciarsi nelle cose per avere quello che si vuole, ma che è comunque sempre meglio avere una pistola?
Mah… Sebbene questa coincidenza non lasci ulteriori dubbi, ve ne presento delle altre. Viene scoperta la P2, la loggia massonica guidata dal Maestro Venerabile Licio Gelli (quello che poi fonda Forza Italia, mi pare). Oggi si fanno congetture, si disegnano scenari, che vedrebbero un’altra loggia del potere occulto, che permeerebbe i servizi segreti, i giornali, le reti di telecomunicazione, la Guardia di Finanza e la neonata "Tv delle Libertà", il personalissimo spazio della delfina di Berlusconi, quella Brambilla che guiderà il futuro del centrodestra da uno schermo televisivo: che follia, non vi pare? Sempre nell’81 cade il governo e nasce il Pentapartito: una specie di grande coalizione in cui "si fa un po’ quel cazzo che ci pare". Ora, quante possibilità ci sono che questo governo (già mezzo sbilenco) crolli, e venga sostituito da un esecutivo di larghe intese? Già in passato questa rubrica fu profetica.


Fabrizio Aurilia

5 luglio 2007

INCHIESTA: DAL REDATTORE AL CONSUMATORE. L'ESAME DI LETTERATURA TEDESCA AI RAGGI X

Per un sistema universitario trasparente assicurare la preparazione, il diritto allo studio, una valutazione giusta, dovrebbe essere il principio fondamentale di ogni esperienza didattica.

Tale trasparenza a volte viene macchiata da tracce di illegalità ed evasione, in un iter che parte da libri fantasma e si conclude con esami, sembrerebbe, troppo spesso a lieto fine.


Domanda: di cosa stiamo parlando?

Stiamo parlando dell’esame di Letteratura Tedesca (1 & altri CdL) e del Professore che detiene queste cattedre, il Vicedirettore del Dipartimento di Germanistica Fausto Cercignani.

Dialogando con molti degli studenti che hanno sostenuto l’esame, non poteva non essere evidenziato uno schema comune.


Lo studente (non frequentante il corso e non di linguistica) interessato a sostenere la prova di Letteratura Tedesca deve necessariamente concordare con il Professore Cercignani il programma d’esame. Durante questo incontro se ha una proposta su qualche particolare argomento inerente la materia viene sollecitato ad esporla, altrimenti si affida al professore riguardo i testi utili per l’esame. In entrambi i casi, il docente consegna e firma il programma, indicando alcuni brani e saggi necessari per lo studio. Il professore è anche così gentile da informarlo che alcuni di questi libri, essendo di difficile reperibilità, sono, ancora imballati, disponibili nel suo ufficio. Quindi, si offre di vendere i testi allo studente il quale, nella generalità dei casi, accetta di buon grado. Il giorno dell’esame, il candidato consegna il programma concordato e firmato da Cercignani, il quale gli rivolge le domande di rito. Proviamo ad analizzare i fatti più da vicino.


Come mai i testi sono di così difficile reperibilità mentre il nostro professore ne ha più copie, ancora imballate, nel suo ufficio?

Risulta chiaro che questi libri vengono venduti agli studenti, direttamente dal docente, al “prezzo di copertina” in mancanza di una qualsiasi specie di fattura.


Uno studente di lettere mi racconta:

Ciao, sono XXXXX, per la vicenda di Cercignani questo è il riassunto:

Era la penultima settimana di gennaio quando, informato di un esame “fuffa” da superare, mi sono recato al ricevimento del professore Cercignani. Un esame “fuffa” è un esame per il quale studiando poco si ottengono voti abbastanza alti. Il professore Cercignagni occupa la cattedra di Letteratura tedesca presso la statale sezione germanistica. Io, dopo aver aspettato il mio turno (al suo ricevimento c'è sempre la coda: gli studenti sono attirati dagli esami “fuffa”), mi sono consultato con il professor Cercigniani per concordare un programma d’esame relativo al mio piano di studi (lettere).Il professore, senza nemmeno aver approfondito la mia collocazione all'interno del ramo letterario, si è affrettato a prendere il suo programma e a cancellare tutta la bibliografia li scritta. Sopra ha scritto a sua volta il mio nome e cognome e il programma sostitutivo da studiare per l’esame. In tutto quattro manuali dei quali mi avrebbe detto solo successivamente (nel caso li acquistassi) quali pagine studiare. In seguito, su un altro foglio di carta, ha scritto in fila il prezzo di ogni libro e sotto la somma. Dopo aver scalato da questa la percentuale che solitamente la CUEM (libreria interna all'università) detrae come sconto agli studenti, il professore, mostrandomi il foglio, mi ha chiesto la cifra di 64€ (per un esame da sei crediti). Io, sconcertato della velocità con la quale aveva sbrigato il tutto e per il fatto che, così su due piedi, mi domandasse dei soldi, ho chiesto al professore dei metodi alternativi per reperire i testi (prenderli in prestito alla biblioteca, comprarli di seconda mano, acquistarli in una libreria competente). Il professore Cercignani, prima ha riposto nel cassetto il foglio contenete il conto della somma da dare, poi ha tentato di persuadermi a tornare un'altra volta con i soldi, perché riteneva che i libri da lui forniti per sostenere (e superare) l'esame fossero introvabili fuori dal suo ufficio. Io ho insistito perché lui mi desse la possibilità di ricopiare i titoli (visto che anche il foglio del programma era stato nascosto nel cassetto). Alla fine me li ha fatti ricopiare, dicendomi, però, che le pagine da studiare le avrei concordate con lui solo dopo aver acquistato i libri. Salutai il professore con la promessa di ritornare con i soldi e andai alla CUEM. Lì trovai i libri di Cercignani per giunta usati. La settimana dopo ritornai al ricevimento per concordare le pagine da studiare, e il professore mi disse che i testi per l'esame non erano più quelli che mi aveva lasciato trascrivere ma che , per mancanza di fondi, i libri erano degli altri. Così io mi procurai 64€ e comprai i volumi. Appena consegnati i soldi il professore li mise in una busta con su scritto il mio cognome, e aggiunse un ok più firma sul foglio compilato con il programma, dicendomi di portarlo all'esame. Quando mi presentai all'appello il professore interrogava da solo, senza assistenti o altro. Mi fece due domane, una delle quali a scelta. Mentre rispondevo alla seconda, mi scrisse il voto sul libretto. Un trenta. Presentandomi all'appello riscontrai, inoltre, che tutti coloro i quali, come me, dovevano sostenere un esame da sei crediti avevano pagato al professore 64€ per la bibliografia e tutti avevano raggiunto come voto finale trenta, alcuni addirittura con lode. Ottenuto anche io il trenta, salutai il professore e mi recai alla CUEM (che compra i testi usati degli studenti) per vendere a mia volta i libri. La CUEM, inspiegabilmente mi disse che non li potevano comprare, almeno per quella sessione dell'anno. Questo è quanto accadde.”


Dinamiche sospette

Elemento ancora più interessante è che non si sa da dove vengano questi libri, né chi li stampi. L’editore è la Cuem., ma non si tratta di una semplice edizione Cuem. Un’edizione Cuem presenta un tipo di formato riconoscibile, quella dei libri in questione ne ha un’altro (beh, è vero il formato può cambiare). Un’edizione Cuem è stampata dalla “Global Print”, invece la tipografia di tali libri rimane sconosciuta. Il perché in qualsiasi testo venga indicato, con delle formule base, chi stampa il libro (stampato da …, stampato su carta … da … , stampa: …) e che questi volumi, utili per l’esame di Letteratura Tedesca, non abbiano una simile dicitura, resta un mistero.



Inoltre, questi stessi testi, una volta utilizzati, non potranno essere rivenduti e quindi essere ricomprati come usati. Parlando con un lavoratore della Cuem, scopriamo che tali libri non vengono “acquistati” poiché non c’è richiesta da parte degli studenti. Eccezione a questo la fanno i tomi delle ultime annate (del 2005,del 2006) segnalate nel programma in corso del Professore Cercignani. Ma delle tante persone con cui ho parlato, pochi hanno dovuto comprare dei libri dell’ultima annata. La maggior parte ha utilizzato edizioni (di “Prima Stampa”) del 1999, del 2000, del 2001, del 2002, del 2003, del 2004.

Tra l’altro, cercando qualche informazione su internet, scopro che esistono interi forum che discutono di questo argomento.

Per esempio: (da www.studentistatale.it) A e B

A: fermi tutti.
io non so una parola di tedesco a parte weiss bier.
vado da Cercignani, mi vende dei libri(se non ho capito male x la modica cifra di 60-80 euro)io studio qualche saggio e l'esame si passa?
XXX mi conferma che l'esame di letteratura straniera x lettere si passa cosi?
wowwwwwwwwww

B: no aspetta. non è proprio così.
ok, tu non sai una parola di tedesco a parte weiss bier.
ok, tu vai da Cercignani e ti vende i libri.
e poi stop però!
tu ti presenti (avendo letto mezza pagina di un saggio mentre aspetti che firmi il libretto alle 350 persone prima di te), ti fai firmare il 30 e lode che ti è costato 80 euro e poi torni a casa.
ciao!
ps. ti consiglio di fare questo esame solo se:
hai fretta di laurearti
o sei obbligato da qualcuno a fare l'università e non ne hai alcuna voglia
o ti sei già venduto l'anima al diavolo e perciò non rischi alcun tracollo di coscienza, nè di autostima.

Delle decine di studenti con cui ho parlato, tutti raccontano la stessa storia, nessuno ha stipulato una sorta di contratto di compravendita denaro-merce, tutti hanno ottenuto un voto alto.

A questo punto, dopo tante letture ed interviste, decido di verificare di persona se quello che mi è stato detto è vero o se si tratta di un altro lamento gratuito degli studenti. Arriva il giorno del colloquio. Comunico al docente che vorrei sostenere il suo esame, che sono della facoltà di.., e che mi piacerebbe occuparmi di.., ed in questo lasso di tempo il professore è li che cancella , scrive e si appunta su una copia del curricula d’esame il “mio” programma. Poi mi dice che ha una “proposta”(che non potrei rifiutare) e cioè di ordinare i testi da lui, il quale li potrebbe fare arrivare senza problemi (poi scoprirò dell’esistenza di scatoloni interi di libri sigillati nella biblioteca). Io chiedo: “ma è possibile trovarli in Cuem o da qualche altra parte?”. Il professore risponde che in Cuem dovrei “aspettare” e che tra l’ordine dei libri e il loro arrivo perderei un sacco di tempo, mentre qui a Germanistica potrei ritirarli subito o il venerdì successivo. Nonostante ciò, chiedo di poterli cercare in giro prima di comprarli da lui. Allora il professore, gentilmente, riscrive l’elenco dei libri necessari per l’esame su un post-it e me lo consegna, inserendo il programma concordato nel primo cassetto della sua scrivania. Mi dice di avvisarlo nel caso in cui non dovessi trovare i libri: al massimo ci può pensare lui. Solo quando avrò tutti i testi mi riconsegnerà il foglio del programma concordato, tanto per non incorrere in qualche pasticcio al momento dell’esame.

Continuando la ricerca e parlando con molti studenti che hanno sostenuto questo esame, scopro che esistono due standard di accesso:

  • 6 crediti: 64.00€ per 4 libri;

  • 9 crediti: 84.00€ per 6 libri.

(I testi: Studia Austriaca n°, Studia Theodisca n°, saggi e studi vari, tutti riportanti il codice identificativo isbn 88-7090-xxxx)

Naturalmente senza fattura Naturalmente i libri vengono acquistati dal professore perché è l’unico ad averli e, sostanzialmente, è l’unico a venderli (se escludiamo le poche copie che ci sono in Cuem e i passa mano da studente a studente).

Inoltre, confrontando il numero degli studenti che sostengono un esame di una qualsiasi letteratura (durante l’appello dell’aprile scorso), si palesa un dato eloquente.


Letteratura Inglese 1: Prof. Rossi n°18 studenti …………………………..Prof. Paschetto n°17 studenti …………………………..Prof. Iannaccaro n°21 studenti

Letteratura Francese 1: Prof. Modenesi n°17 studenti

Letteratura Russa 1: Prof. Rossi n°20 studenti

Letteratura Italiana 1: Prof. Cabrini n°51 studenti ………………………....Prof. Spera n°45 studenti …………………………Prof. Mari n°18 studenti …………………………Prof. Milanini n°4 studenti

Letteratura Tedesca 1: Prof. Cercignani n°157 Studenti

(dati del 10 aprile 2007)

Infine, sostando davanti all’ufficio del Professore durante il suo orario di ricevimento, è sempre possibile incrociare numerosi studenti che ne escono con dei libri nuovi di zecca. In questi frangenti ho ascoltato anche degli studenti lamentarsi del fatto che “la Voce” la conoscevano in troppi e che si poteva rischiare di non poter dar più un esame del genere. Incredibile!

Facendo presente che negli ultimi appelli il docente avrà esaminato circa 500 studenti, ci rendiamo conto che le dinamiche legate alla reperibilità del materiale inerente l’esame di Letteratura Tedesca (1 & altri CdL), curato dal prof. Fausto Cercignani, sono a dir poco misteriose dal punto di vista economico e fiscale. Un circolo di denaro di cui non esiste una prova scritta, una fattura, uno scontrino, niente, se non una voce che gira tra i corridoi, tanti studenti che ne parlano, si lamentano (pur essendo carburanti primi del sistema opaco) e incrementano la media.


a cura di Aramis



L'INTERVISTA


“E’ certamente possibile che per tale questione si interessino quelli di striscia o delle iene”. “Siamo in maggioranza iscritti di filosofia. La “soffiata” riguardo questo esame deve essere giunta solo a noi”. Questo è il clima che ci accoglie al ricevimento del prof. Cercignani.

Fra gli studenti, le voci di un esame rapido e indolore circolano, incredibilmente insistenti, anche a pochi passi dallo studio del docente di Letteratura tedesca.

Incontrato nella sua stanza, Fausto Cercignani, vicedirettore del dipartimento di Germanistica, si apre alle nostre domande con cordialità e franchezza.

“Sapevo fin dall’inizio che vendere i libri non fosse una cosa giusta. Tuttavia il mio comportamento nasce dall’esigenza, per gli studenti non frequentanti, di reperire i testi per l’esame in poco tempo.

Avevo già stabilito che alla prima rimostranza avrei terminato con questo sistema, sbagliato ma necessario, e così da ora non venderò più alcun libro. In questo modo, tuttavia, chi vuole sostenere l’esame incontrerà certamente molte difficoltà nel rintracciare i manuali adatti. I volumi normalmente ordinati dalle librerie sono di tiratura nettamente maggiore rispetto ai testi che propongo io per l’esame di letterature tedesca.”

Alla nostra obiezione, verificata, che numerosi testi consigliati dal professore sono effettivamente disponibili presso la libreria universitaria Cuem, Cercignani risponde.

“Si tratta di un episodio fortunato. Gli altri studenti protestano perchè non trovano i libri.”

In ogni caso, il vincolo di emettere regolare ricevuta fiscale esiste per legge.

“Lo so, difatti, come le ho detto, non utilizzerò più questo metodo. Gli studenti si arrangeranno.

Così avrò anche meno lavoro. I miei ricevimenti sono sempre affollatissimi. Il mio spazio di ricevimento potrebbe concludersi in un paio d’ore. Invece, come vedete, sono qui da tutta la mattina.”

Ed in effetti il compito di un docente dovrebbe esaurirsi nell’aiutare lo studente insicuro, risolvendo i suoi dubbi e sciogliendo eventuali quesiti. L’attività di vendita dei testi, né richiesta né consentita ai professori, è riservata alle librerie.

Ma perché, considerata la difficile reperibilità (più che difficile, strana reperibilità: tanti libri disponibili nel suo ufficio, pochi presso le rivendite autorizzate) dei saggi da studiare, e dal momento che dei sei libri venduti per un esame da 9 crediti (al prezzo di 84 euro circa) fanno parte del programma soltanto brani ridotti, non può essere pubblicata una dispensa che raccolga tutti gli scritti in un unico testo?

“Non è fattibile perché questi libri hanno un valore globale e trovano diffusione non solo fra gli studenti. Inoltre, avere un volume completo, rispetto al solito manualetto, è un vantaggio per gli stessi studenti. Comunque, i libri posso essere acquistati anche di seconda mano”.

Appare, tuttavia, singolare che il professore, dopo aver sottolineato le difficoltà nel rintracciare i testi, consigli di recuperare i volumi di seconda mano.

Le dinamiche certamente anomale che caratterizzano la reperibilità e l’acquisto dei tomi, l’alto numero di iscritti ad ogni appello (in antitesi alla scarsa affluenza per gli altri insegnamenti di letteratura straniera), l’impressione generalizzata che la prova sia poco impegnativa e il buon voto assicurato, nutrono la voce e il pensiero di numerosi studenti che ritengono l’esame di letteratura tedesca più che semplice. “Fuffa” per l’appunto.

“L’alto numero di iscritti dipende anche dal fatto che, per il mio esame, non è necessaria la conoscenza della lingua straniera. Se uno studente legge Goethe, perché lo interpreti, non è necessario che parli il tedesco. In generale poi, gli studenti di lettere e filosofia sono più preparati rispetto ai pari di lingue. Hanno un approccio più consono al profilo saggistico della materia”.

Al quesito riguardo chi, concretamente, stampi i libri, Cercignani risponde: “Questo non lo so. Io curo solo la parte scientifica, teorica, dei manuali. Non so chi stampi concretamente i testi.

I libri vengono ritirati e trasportati nel mio ufficio da un camioncino, non quello della Cuem, che arriva a Milano dal luogo in cui i volumi vengono stampati. In ogni caso mi rendo conto che tale sistema possa essere frainteso. Per questo non lo farò più. Si ricreerà tuttavia il vecchio problema della reperibilità dei testi. Se gli studenti mi riferiranno delle difficoltà per trovare i libri io dirò loro di rivolgersi a Vulcano.”

Dopo aver ricordato al docente che l’impossibilità di vendere testi direttamente dal redattore al consumatore, in totale assenza di validi documenti fiscali, non dipende da un articolo del giornale universitario Vulcano ma da una importante legge dello Stato, ci congediamo.

Il professore Cercignani saluta, assicurandoci che abbandonerà definitivamente l’attività di libraio improvvisato. Tutto ciò, con la consueta cordialità.


a cura di Aramis e Gregorio Romeo