All’ aeroporto di Marrakech è frequente imbattersi in guide improvvisate che cercano di spillare qualche decina di euro ai visitatori in cambio di un giro turistico in città.
Non si possono riconoscere perchè non hanno segni distintivi e il loro approccio sembra solo di cortesia, come semplici viandanti.
Così è stato anche per noi, giunti in aereo a Marrakech l’ultima settimana di settembre. Non appena ci avviamo con l’auto noleggiata la guida si affianca in motorino per indicare la strada verso la città. Poi, si propone di salire in macchina e così, in poche ore, visitiamo insieme i mercati, le botteghe, assaggiamo i sapori della tavola e accettiamo di vedere i dromedari in un arido palmeto subito fuori il centro urbano.
Durante il Ramadan, la città, interamente musulmana, è più lenta. Le botteghe chiudono prima e così anche Place Djemaa el Fnaa, nel cuore della Medina (città vecchia) è meno affollata del solito. Ma nell’area coperta dei Souq, verso nord, i mille e più negozi di tappeti e ceramiche sono sempre aperti, in vie strette e quasi buie per la folla di persone e cose esposte.
Qui le compere, e non solo per i turisti, seguono un rituale unico, perchè le cose non hanno mai un valore. La contrattazione è estenuante: il negoziante fa il primo prezzo, sempre altissimo. Il compratore ribatte per la metà. Il negoziante non accetta, però sembra pensarci su. Allora arriva la controproposta, ma non va bene, troppo alta... Finché uno dei due cede, e generalmente i bottegai possono andare avanti ore.
Il caos che regna nella piazza, soprattutto al tramonto, quando vengono allestiti tavoli per cenare all’aperto e l’intera area si popola di cantastorie, musicanti, giocolieri, elemosinanti, non deve evidentemente intaccare la spiritualità della moschea Koutubia, a sud della piazza, che purtroppo rimane ancora inaccessibile ai visitatori europei. Dall’omonimo minareto alto 69 metri, gemello della Giralda di Siviglia per età e stile ( risalgono entrambe al XII secolo ), il Muezzin richiama alla preghiera i fedeli cinque volte nelle ventiquattro ore. Le sue sono parole tonanti, che svegliano nella notte entrando perfino nel nostro Riad, a qualche centinaia di metri di distanza. I Riad, (in arabo “giardino”) un tempo erano ricche dimore di signori locali. Oggi sono hotel anche lussuosissimi, che offrono ai visitatori riparo dalla rumorosa vita cittadina. L’abitazione si sviluppa attorno ad un cortile centrale aperto, senza vista sui vicoli attorno, isolata dal mondo esterno.
All’interno lo scenario è in molti casi splendido. Pareti coperte da mosaici in maiolica, pavimenti rivestiti di tappeti, mentre nel cortile un rivolo d’acqua scorre in una fontana di terracotta.
Per contrapporla a Casablanca, città industriale sull’Oceano Atlantico, gli abitanti la chiamano “Città rosa”. Il colore degli edifici, soprattutto nella Medina, è quello delle terre che circondano la città, un rosa tiepido che accompagna la memoria di ogni istante vissuto a Marrakech.
Per secoli è stata definita “Porta del Sud”, luogo di incontro delle carovane di dromedari provenienti dal Nord, con stoffe e tappeti, e di quelle provenienti dal meridione, con oro, avorio e schiavi neri.
Oggi Marrakech è il punto di partenza per chi vuole avventurarsi nel “Grande Sud”, oltre le montagne dell’Atlante, fino alle prime dune di sabbia, a pochi chilometri dal confine sahariano con l’Algeria.
In questa regione vivono le popolazioni marocchine di etnia berbera, ancorate a stili di vita antichissimi. Sono le popolazioni originarie del NordAfrica, spinte nelle aree più interne del Continente dalle invasioni arabe, che si sono succedute nel primo Medioevo diffondendo l’Islam e la lingua araba. Ma i berberi hanno mantenuto e tramandato la loro cultura, prevalentemente orale, e la loro lingua, basata su un proprio alfabeto che conta ben tremila anni.
Così, attraversando le campagne montuose dell’Atlante, nella direzione di Ouarzazate, il Marocco diventa più inafferrabile, i paesaggi si fanno sensazionali, i villaggi sono rari e nascosti. Dalla strada si possono intravedere delle costruzioni in argilla incastonate nelle montagne.
Poi, se un villaggio sterrato non dista troppo dalla strada asfaltata e il terreno è agibile, si può tentare di raggiungere le case di pietra che si raccolgono attorno al solito Minareto, per scoprirne gli abitanti. Almeno una persona nel villaggio parla francese, gli altri il tamazight (per noi “berbero”).
E mentre conosciamo gli uomini adulti che lavorano alla costruzione di una piccola moschea in pietra, i bambini escono alla spicciolata dalle case. Dapprima, con sospetto, restano fermi davanti agli usci, poi ci approcciano con una palla per giocare insieme. Ci chiedono anche delle penne per scrivere (dicono “bic”). Così, ci facciamo indicare la scuola, che scopriamo incredibilmente in ottime condizioni in contrasto con la povertà del villaggio.
Intanto delle donne ci chiamano verso le loro case. Vogliono offrirci del tè verde zuccherato al sapore di menta, autentico segno dell’ospitalità delle popolazioni berbere. Un rito che si ripete sulla strada rettilinea verso Zagora, ultima città da attraversare prima di immergersi in un paesaggio rarefatto, dove all’orizzonte le ultime montagne nere bruciate dal sole sembrano crateri, finché la natura si spegne e lascia il posto al deserto.
Dario Augello
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