Caratteristica della Triennale di Milano è il rimanere disorientati di fronte al dinamismo e all’ecletticità delle sue mostre. In concomitanza con il Week-end del Design, la celebre istituzione meneghina ha concesso l’ingresso gratuito ai milanesi, molti dei quali non conoscono la propria città e le sue eccellenze. Sarebbe infatti un peccato perdersi una delle neonate esposizioni che ospita il Palazzo dell’Arte: quella dedicata al design italiano. I suoi ambienti, ben visibili da parte dello spettatore grazie al ponte sospeso sulle scalinate, ospitano due collezioni permanenti e una mostra annuale che quest’anno è stata curata da Alessandro Mendini ed è intitolata “Quali cose siamo”.
Appena entrati ad accogliere i visitatori si presentano subito alcuni oggetti bizzarri: una copia del David di Michelangelo, una replica del celebre sandalo di Ferragamo e un’Ape. Già da questi “indizi” si capisce subito che le nostre coordinate sono inadeguate per capire la dimensione in cui ci troviamo. Poco più in là, ad attendere, dentro una teca di plexiglass, ci sono i “Gormiti”. Prende qui forma il dubbio: come può un Gormite essere l’espressione del design italiano nel mondo? Tra i 796 oggetti reperiti in tutta Italia, disposti su enormi basamenti, si trovano inoltre delle protezioni “Dainese” vicine a una copia di un’armatura sabauda, porcellane antiche e vasi di terracotta prodotti con i medesimi processi di cinquecento anni fa, plastici curiosi come il “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, libri di celebri architetti e designer italiani.
Ma sono presenti anche degli oggetti di design tradizionale, come la celebre “Lettera 22”, il primo prototipo della “Moka” Bialetti e la Panda della Bertone.Per il visitatore che, con in sottofondo un ticchettio martellante, cercasse di risolvere l’enigma legato alla logica della mostra, agli accostamenti e ai criteri di scelta degli oggetti, la chiave di lettura è a portata di mano: l’idea stessa di design. Silvana Annachiarico, direttore del Triennale Design Museum, definisce la “mission” del museo e della mostra: la base è un concetto di design dinamico, non monolitico, visibile da diversi punti di vista, dove gli oggetti si confondono.
Alessandro Mendini riprende queste parole e afferma, nella videointervista finale, che non si è basato su una definizione istituzionale di design: il suo intento era trovarne una nuova. Tutti gli oggetti sono importanti, come chi li ha usati: egli è in qualche modo descritto da questi; i metodi produttivi sono fondamentali, perché conferiscono unicità al prodotto. Non è il tempo la dimensione principale della mostra, ma le situazioni e gli accostamenti che lo spettatore, mai passivo, è chiamato a creare, scegliendo secondo una propria concezione di design.
C’è ora un nuovo polo che giuda la bussola del visitatore: il situazionismo, la valenza simbolica del prodotto e una nuova lettura inconscia. Credere che solo certi oggetti facciano parte del design solo perché belli o utili non è un errore, ma una lettura limitante, la base di tutti gli integralismi artistici. Tutta l’Italia è un grande museo e noi stessi siamo il metro con cui decidere se un “Gormite” può essere espressione del design. Ma forse fra trent’anni questo non sarà un problema per i “puristi” del design: allora il gusto comune li avrà accettati e riabilitati, come è successo per i vari Mazinga e Goldrake, dei “cult” contemporanei.
Davide Contu
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