5 aprile 2011

Terremoti S.P.A.

Il buisness della ricostruzione in Italia, dal 1908 ai giorni nostri

In Italia la speculazione edilizia sembra quasi un marchio di fabbrica, tant’è che la possiamo ammirare in moltissime sfaccettature diverse. Dal 1931 ad oggi il Vesuvio ha brontolato 42 volte (in media ogni 8 anni), eppure si è continuato a costruire migliaia di case nelle zone considerate pericolose, sul fianco del cratere. Ma non si tratta di un caso isolato: dopo il terremoto del 1980 venne varato un “piano Napoli” che consentì la realizzazione di 20 mila alloggi nella zona rossa, come ricorda Marco Di Lello, ex assessore regionale. Per quanto riguarda il recente terremoto aquilano invece, sono previsti, secondo il Giudice dell'Udienza Preliminare Giuseppe Grieco, ben 18 anni per giungere ad una sentenza definitiva per aver costruito senza rispettare le norme di sicurezza. Lo stesso lasso di tempo è previsto anche per l'erogazione dei 22 milioni di euro di risarcimento da parte della protezione Civile, accusata di non aver preso misure adeguate per evitare la tragedia. Ma i fattori concorsi nel determinare la morte di ben 308 abruzzesi non si fermano qui. Dal 1996 al 2008 sono state varate quattro ben norme sull’edilizia antisismica. Perché non sono servite a limitare i danni? Il problema risiede anche nel controllo della qualità delle costruzioni. Sono crollati infatti anche edifici nuovi, vecchi al massimo di 40 anni, come l’ospedale o la casa dello studente, costruita negli anni sessanta, oppure la chiesa di Tempera, a sette chilometri dall’Aquila, anch’essa edificio moderno, non certo centenario. La maxi-inchiesta sui crolli, avviata dalla Procura della Repubblica dell'Aquila, ha messo in luce 22 mila edifici irregolari ,costruiti con una percentuale di ferro inferiore alla norma. Di conseguenza l’indagine non si è concentrata solo sui progetti e materiali, ma anche sugli amministratori pubblici e locali che hanno concesso la costruzione.
Questo problema però non riguarda il solo Abruzzo: secondo le ultime stime, in Italia ci sarebbero ben 75-80 mila edifici pubblici da consolidare.
Nel nostro Bel Paese insomma, calamità naturale fa rima con business. Dopo l'iniziale entusiasmo per la solidarietà portata da vigili del fuoco e volontari emerge quella che è solo la punta dell'iceberg del giro d’affari che i grandi terremoti italiani mettono in moto. Secondo una stima approssimativa, dal sisma del Belice nel 1968 ad oggi, il giro di denaro ammonterebbe a circa 140 miliardi di euro. Ciò senza considerare il terremoto dell’Aquila, che il direttore del commissariato per la ricostruzione Gaetano Fontana stima attorno a 10 miliardi di euro per il solo capoluogo di provincia. La domanda sorge spontanea: perché si continuano a versare soldi per tamponare i danni delle catastrofi quando invece, non solo si dovrebbe, ma sarebbe possibile intervenire preventivamente? E dove finisce il denaro investito per la ricostruzione e il rilancio economico delle zone colpite?
Nel sisma dell’Irpina (1980) i miliardi di lire destinati e gestiti dall’entourage di Ciriaco De Mita hanno dato solo 380 posti di lavoro anziché i 3.500 promessi.
Un esempio recente invece è costituito dalle dichiarazioni del governo Berlusconi che esplicitano la volontà di costruire una nuova città dell’Aquila, una new town.Sembrerebbe quasi sensato, se non fosse che il problema principale ritorna sempre al pettine: le norme antisismiche italiane non hanno riscontro pratico, nonostante anche il Guardian abbia dichiarato, dopo il sisma aquilano, che il nostro Paese è l’area geologicamente più instabile d’Europa.
Secondo Franco Barberi, presidente della commissione grandi rischi, oggi indagato per mancato allarme, un sisma come quello abruzzese, in Usa, non avrebbe fatto nemmeno un morto. In Giappone, dove ogni anno avvengono 400 terremoti ed è previsto nei prossimi 30 anni un Grande Terremoto si verificano periodiche esercitazioni antisismiche e sono attive segreterie telefoniche per far comunicare le famiglie ipoteticamente divise dal sisma. Inoltre, come già specificato, non mancano solo adeguate norme, ma anche e soprattutto i controlli.
Solo l’esemplarità dei soccorsi e delle ricostruzioni dopo il sisma del Friuli (1976) ci indica come debba realmente essere gestita una calamità. L’allora presidente del Friuli-Venezia Giulia, Antonio Comelli, decise che per ricostruire in fretta bisognava affidare la gestione degli aiuti europei e statali agli enti locali, accompagnati da severi controlli. L'altra faccia della medaglia è costituita invece dal sisma del Belice, modello di appalti truccati, imprese fantasma, ritardi, sprechi e promesse non mantenute. Un esempio su tutti: i numerosi cantieri fantasma aperti da alcuni residenti per intascare i fondi e costruirsi villette al mare. Finì che l’inchiesta sul “sacco di Belice”, avviata nel 1978 dal procuratore di Trapani Giangiacomo Ciaccio Montalto (ammazzato dalla mafia il 25 Gennaio 1983), si concluse solo nel 1990 con l’assoluzione di tutti gli imputati.
E il terremoto che colpì Messina nel 1908? Troppo indietro? Tutt’altro. Secondo il censimento di Legambiente, nel 2009 le baracche risultavano ancora 3.336 con 3.100 famiglie abitanti, nonostante le autorità ne dichiarassero non più di mille. Mentre nell’Agosto 2010 l’assessore del Risanamento Giuseppe Rao ha inviato una lettera al Presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, per sollecitare i finanziamenti, a più di cent’anni dalla catastrofe generazioni di persone hanno vissuto in baracche, con tutto ciò che ne consegue.

Cronologia dei grandi sismi italiani:
Messina 1908;
Belice 1968;
Fiuli 1976;
Irpina 1980;
Abruzzo 2009.

Francesca Gabbiadini

2 commenti:

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