Testimonianza di una passeggera bloccata a New York dalla nube del vulcano islandese
Solo poche ore prima avevo brindato al mio ultimo giorno di vacanza, commentato melanconica con una qualche frase da drammone sentimentale del tipo “vorrei che non finisse mai”. Ero struccata, in pigiama e mentalmente predisposta all’idea di trascorrere la notte seguente nel mio letto. Ma, controllato per scrupolo l’orario del volo, ho scoperto incredula che un vulcano islandese dal nome impronunciabile aveva eruttato una nube di gas, e che il vento l’aveva gentilmente trasportata proprio sulle due città europee in cui avrei dovuto fare scalo. Centinaia di voli erano già stati cancellati, compreso il mio. Non potevo tornare in Italia. Ero in trappola.
Urgeva rimboccarsi le maniche: una mail per avvertire la famiglia, e la mattina dopo ho trovato la prepaid card ricaricata. Un paio di calcoli col calendario in mano per realizzare di aver perso l’esame e sbattere in un angolo il libro da studiare. Un’occhiata sconvolta alla mia amica per assicurarsi altra ospitalità.
Riassumendo: avevo un tetto sopra la testa, ero piena di soldi e senza niente da fare. Ah, dimenticavo: ero a New York.
I giorni seguenti sono stati un assoluto e totale limbo. Tempo vuoto, regalato, senza la possibilità di sensi di colpa.
Ho fatto un giro a Central Park. Sorseggiato l’ennesimo frappuccino di Starbucks guardando America’s next top model. Sono arrivata fin sotto l’Empire State Building e realizzato perspicacemente che un grattacielo, per quanto alto, visto dal basso è uguale a un qualsiasi altro palazzo.
Il lunedì per scrupolo sono andata in aeroporto a capire se c’erano delle possibilità di terminare questo esilio forzato. Già immaginavo di trovare una sorta di campo profughi improvvisato, incontrare gente parcheggiata al JFK da giorni, accodarmi a una fila lunga quanto quella di H&M il primo giorno di saldi. Progettavo di raccogliere testimonianze e scrivere un reportage con citazioni da “The Terminal”; ma se l’unica cosa che ne ho ricavato è questa sorta di resoconto semiserio un motivo c’è. L’aeroporto era vuoto. Nessun sacco a pelo, nessuna famiglia in lacrime, nessun Tom Hanks con una lattina appresso… La coda c’era, ma ricordava piuttosto quella delle macchinette.
La verità è che, come me, anche gli altri si sono ingegnati. Hanno trovato dove andare e cosa fare. Hanno visitato posti e scoperto cose nuove o semplicemente si sono rilassati.
“Sono bloccato alle Hawaii… grazie Vulcano!” ha postato qualcuno su Facebook.
Sul volo di rientro una quindicina di italiani caciaroni scambiava allegramente i numeri di telefono: si erano conosciuti pochi giorni prima in albergo grazie al vulcano e progettavano una reunion al più presto.
La mia vicina di posto per tornare in Svizzera da Pechino ha cambiato tre voli. Sarà stato il jet leg ma lo raccontava serena: la ditta le copriva le spese e aveva visitato un po’ la Cina.
Mi hanno raccontato di gente che per rimpatriare dopo una visita al salone del mobile ha noleggiato un taxi e ne ha approfittat“It’s time for you to come home!”.
Elisa Costa
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