5 maggio 2010

Da rileggere per la prima volta, 2: Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij

I filtri di lettura didascalici e moralistici sono, forse, i più invadenti strati di polvere che possano mai depositarsi sui libri. Delitto e castigo ne è pieno: un po' come i quaderni delle scuole elementari abbandonati in soffitta. L'idea di inoltrarsi nella sua lettura può dare la sensazione di un terribile esercizio di vecchiume pedantesco tale da indurre, nel medio e comune lettore, all'immediata remissione del proposito senza che poi ci si lasci invadere più di tanto da crucci intellettuali.

Ma le precomprensioni, si sa, sono all'ordine del giorno in letteratura. E sono tanto più frequenti quanto più chi fraintende ha letto di meno le opere in questione. E, infatti, inoltrarsi nella lettura di questo grande classico, apre un vasto ed inaspettato mondo.

Un giovane brillante ricco di intelligenza ed energie, Raskolnikov, abbandonati gli studi vive, nella Pietroburgo ottocentesca, in uno stato di estrema indigenza. Abita “una stanzuccia proprio sotto il tetto di un alto casamento a cinque piani” che somiglia a un armadio più che a un’abitazione. Intriso di velleità superomistiche, decide di uccidere una disgustosa e avida strozzina e di derubarla. Un delitto, dunque, dai moventi, non soltanto materiali, ma moralistici e, soprattutto, filosofici. Diversi mesi di gestazione – il cuore in panne – il giovane entra nell'abitazione della vecchia e la uccide (insieme alla mite sorella, sopraggiunta improvvisamente sulla scena del delitto) col dorso di una scure.

Ma superomismo e volontà di potenza naufragano nei rimorsi e nelle paure dell'animo tormentato di Raskolnikov, manifestandosi nei delirî e nelle febbri del giovane che, ormai isolato, troverà pace solo grazie alla dolce e remissiva Sonia Marmeladova, una giovane e malata prostituta figlia di un funzionario debole e ubriacone, che muore schiacciato dalle ruote di una carrozza.

La consapevolezza della propria irriducibile umanità e l’inanità dell'uomo e delle sue azioni sono resi ancor più tragici dall’ambientazione desolata, l’estrema povertà in cui vivono molti dei personaggi e dalla vita colma di angosce che conducono.

Innumerevoli sono i tipi umani che abitano le parole di Dostoevskij, sintomo di un’enorme conoscenza dell'uomo, espressivi della polifonia di un romanzo che naviga tra le pieghe dell'animo umano urtando le più minute piccolezze e sviscerando le miserie più terribili. Un’opera che riesce ad assorbire le idee del suo tempo – Naturalismo, Messianismo, Umanitarismo e Nichilismo– senza mai lasciarsi ungere o intridere.

Una di quelle letture, insomma, che possono anche tracciare delle svolte nella vita.

Danilo Aprigliano

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