Le periferie delle grandi città italiane si somigliano molto una con l’altra, accomunate da devastanti colate di cemento iniziate negli anni ’60 per la necessità di fornire alloggi popolari nel boom economico, un’esigenza che ha portato negli anni ’80 a complessi abitativi che oggi appaiono fuori da qualunque schema urbanistico accettabile.
Eppure questi immensi palazzi oggi sono ancora in piedi, a pochi minuti di macchina dai centri storici delle città, presi d’assalto dai turisti: gioielli di arte, cultura e architettura che rendono l’Italia meta di turismo internazionale. Città come Milano e Roma, dallo sviluppo lineare, sono state nel corso del ‘900 vittime di un più alto rischio di cementificazione, rischio che infatti ha portato all’edificazione di immensi quartieri dormitorio (Gratosoglio e Corviale ad esempio). Il caso ligure è diverso e peculiare. Chiunque percorra l’autostrada della Liguria nel tratto genovese nota la cementificazione selvaggia che ha aggredito le colline attorno alla città, ma non si tratta esclusivamente di case popolari dallo scarso valore. Le famigerate “lavatrici” di Prà, palazzoni a terrazze con le finestre a forma di grandi oblò, possiamo trovarle nei libri di architettura eppure vengono comunemente additate come eco-mostri, simboli di degrado. Perché si arriva a questo? E’ davvero possibile che gli architetti che hanno pensato, disegnato e approvato queste costruzioni abbiano volutamente deturpato la bellezza di una regione territorialmente fragile e delicata come la Liguria? Avremo modo di riparlarne più avanti, quando gli elementi di analisi a nostra disposizione saranno più numerosi.
Le “lavatrici” le lasciamo alle spalle, prendiamo lo svincolo autostradale della Val Polcevera, che risale verso l’Appennino. Una valle ecologicamente ricca, devastata però dalla ferrovia prima e dall’autostrada poi: infrastrutture, queste, che hanno portato l’industrializzazione nella valle, risalendo lungo la Milano - Genova (che prima era una camionale e prima ancora una strada tortuosa che saliva tornante dopo tornante sino al Passo dei Giovi, unico valico verso la pianura), con gli insediamenti petrolchimici di Busalla e di Serra Riccò. L’autostrada la lasciamo presto e saliamo verso un quartiere che prende il nome da una delle fortezze che difendevano la città di Genova, ovvero il Forte Begàto, da cui il quartiere di Begato, non molto distante dall’avamposto militare edificato sul crinale dell’alto colle che sovrasta la città.
Il quartiere si presenta spettrale e vi regna un silenzio innaturale. Il paesaggio è quello tipico delle periferie suburbane popolari delle grandi città italiane di cui parlavamo precedentemente, però in questo quartiere i grandi casermoni grigi sono aggrappati direttamente alle pareti dei colli, quasi ad appoggiarsi stancamente ad essi. Oltre al silenzio che permea questo luogo e all’ombreggiante presenza dei palazzi che si stagliano minacciosi, colpiscono lo sguardo le tante carcasse di automobili bruciate o smantellate. Non c’è nessuno in strada e gli autobus qui non arrivano: si fermano lungo il vialone principale un po’ più a valle. Ma questo non è un quartiere abbandonato, qui la gente vive ancora, e non si tratta di poche famiglie: sono 3500 i residenti di Begato. Se procediamo lungo la strada ci troviamo ad osservare il complesso del Diamante, più noto come “Le Dighe”, che fuori da ogni metafora e da ogni demagogia sembra creare un senso di angoscia e un’ombra cupa su tutto ciò che lo circonda, una paura remota e indefinibile. “Le Dighe” sono due palazzi gemelli, la Diga Rossa e la Diga Bianca, di 19 piani ciascuno, che occupano lunghi e stretti tutto il vasto spazio da una parte della vallata all’altra, aggrappandosi direttamente alle pareti della collina e lasciando uno stretto passaggio per la strada carrabile tra i due complessi.
Trovandosi davanti a questo cupo monumento alla cementificazione selvaggia, a questo irreale silenzio, a questo degrado che non si tenta nemmeno più di nascondere, ritornano alla nostra mente le domande sospese, quei punti interrogativi velati dalla rabbia lasciati alle spalle. “Come?” “Perché?” “Perché si è arrivati a questo?”.
Si è arrivati a questo nel 1984, quando l’esigenza di fornire alloggi popolari in una città senza spazi come Genova ha trovato una soluzione nella cementificazione “verticale”, incardinando questi pesanti complessi popolari direttamente alle pareti delle vallate, e salendo piano dopo piano sino ad altezze vertiginose. Non è uno scandalo, lo facevano anche nel XVII, nel XVIII e XIX secolo. Però in quei secoli il cemento armato non esisteva, e i grandi palazzi mostravano una opulenta eleganza degna del nome di “Superba” di cui Genova si è orgogliosamente fregiata. Begato 9, ovvero il Diamante, è nato in seguito all’ambizioso progetto di creare una città nuova a pochi chilometri dalla città vera e propria, probabilmente con qualche ambizione di alto profilo. Dovremmo immaginare le Dighe non come palazzi ingombranti, ma come quartieri autosufficienti dotati nel loro interno di ogni genere di servizio, dai negozi ai cinema alle scuole. Non per niente lungo tutto lo sviluppo orizzontale delle Dighe vi sono ampi corridoi comuni con spazi per vetrine predisposti all’attività commerciale. Le Dighe sono state costruite, ma i servizi non sono stati dati. Questa poteva essere la chiave di uno sviluppo secondo il modello tipicamente italiano del quartiere-dormitorio, ovvero case popolari a basso costo senza adeguati servizi e senza l’ultimazione delle aree verdi circostanti e delle infrastrutture previste dagli architetti (perché chi ha disegnato gli eco-mostri ha previsto quei servizi che poi la cattiva politica e la cattiva amministrazione hanno negato, deviando lo sviluppo previsto e progettato). A Begato è andata anche peggio.
Quartiere già socialmente decomposto e degradato a pochi anni dalla sua costruzione, è stato individuato come ideale indirizzo di insediamento delle persone uscite dalle prigioni, dei malati di mente rilasciati dai manicomi dopo la loro chiusura, dalle famiglie povere e operaie che lasciavano il centro storico genovese (un altro ghetto, risanato a partire dal 1992). Le Dighe offrivano (e offrono ancora, con i loro 400 appartamenti vuoti su un totale di circa 1000) alloggi abbordabili da qualunque tasca, gestiti dall’Arte, la società regionale che si occupa delle case popolari. Eppure, nonostante il silenzio spettrale, le carcasse delle automobili nei cortili, i rottami di motorini dentro i corridoi delle Dighe dove fino a qualche anno fa si facevano gare di velocità, nonostante lo spaccio e la delinquenza, a Begato la gente vive ancora. Qui le difficoltà sono straordinariamente grandi, basti pensare agli ascensori delle Dighe quasi sempre guasti che costringono gli anziani che vivono agli ultimi piani a non poter uscire di casa. Si viene a creare però una socialità interna che porta con sé grande speranza, perché la speranza è l’ultimo sentimento rimasto a tante persone di Begato.
Ma davanti a questa sofferenza e solitudine, le Istituzioni dove sono? Ci sono, nonostante tutto, e bisogna riconoscerlo. Molti progetti sono stati finanziati da Comune e Regione, sempre in collaborazione con le associazioni sul territorio, e hanno reso possibile l’apertura di un ambulatorio medico assolutamente indispensabile in un quartiere anche fisicamente così separato dal resto della città. C’è una farmacia, dove i medicinali più venduti sono gli psicofarmaci, c’è un supermercato più a valle, c’è un piccolo bar gestito dalla polisportiva. Le associazioni di volontari, Caritas in testa, insieme alle Istituzioni portano avanti da anni progetti pilota di recupero dei ragazzi del quartiere, coinvolgendoli in attività pregevoli come la ristrutturazione del campo da basket, che ora è a loro disposizione. Nel 2009 sono state abbattute le due passerelle che collegavano a mezz’aria le Dighe, con grande soddisfazione dei residenti, che hanno visto finalmente una soluzione materiale all’attività di spaccio che su quelle passerelle è sempre stata notoriamente molto frequente. Però all’ultimo piano delle Dighe le porte degli appartamenti sono murate per impedire l’occupazione abusiva (che si verifica ugualmente in molti altri appartamenti del complesso), e nei corridoi sono ammassati rottami, travi, macerie e siringhe.
Gli abitanti delle Dighe lamentano continuamente di infiltrazioni d’acqua, di caduta di calcinacci, di crepe alle pareti di cartongesso. Eppure il Diamante, un nome ambizioso quanto lo erano le idee dello studio di architettura che lo ha progettato, non crolla e non è in procinto di essere demolito come molti vorrebbero. La giunta di centrosinistra ha promesso molto a Begato, vuole “imporre” la ripopolazione sana del quartiere obbligando le persone nella graduatoria per le case popolari a non rifiutare l’assegnazione di alloggi a Begato pena lo spostamento in fondo alla lista. Insieme a questo, sono stati stanziati moltissimi fondi per la riqualificazione del Diamante, che verrà consegnato alle coraggiose mani di architetti giovani e ricchi di idee in modo da ristrutturare completamente le Dighe, abbatterne una porzione per alleggerire la cupa incombenza del complesso, realizzare finalmente tutte le infrastrutture di cui il quartiere ha bisogno. Però questi progetti, apprezzabili, avranno bisogno di molto tempo prima di essere avviati e intanto a Begato il degrado resta, i disagi anche. Quartieri-ghetto come questo non sono comuni a tutte le periferie, e non ci si aspetterebbe di trovarne in una città come Genova, così bella ed elegante. Una città riscoperta e risanata come nessun’altra in Italia negli ultimi anni, protagonista di un rilancio che l’ha portata sulla strada dell’emulazione della sorella Barcellona (un traguardo alla portata di Genova, senza dubbio) e in cui il Porto Antico ridisegnato da Renzo Piano ne è la faccia presentabile da rivolgere all’Europa. E Begato non sarebbe il solo quartiere genovese dal destino così infelice, sennonché in altri (ad esempio il CEP) possiamo osservare percorsi di rinascita urbana e riqualificazione sociale additati come modello da esportare in altre realtà Italiane di periferia.
Abbiamo iniziato la nostra riflessione osservando “Le Lavatrici” di Prà e chiedendoci se fossero il frutto della mente di un architetto dalle idee distruttive verso il territorio. Dopo aver osservato le Dighe di Begato credo che possiamo rivalutare questi mostri se non dal punto di vista dell’impatto ambientale, quanto meno da quello delle intenzioni a monte della loro costruzione. La soluzione all’esigenza di alloggi popolari è delegata dalla politica all’architettura, la quale fornisce un progetto funzionale che viene poi snaturato dalla parzialità della sua realizzazione: parzialità da imputare alla politica, non all’architettura. Le Dighe di Begato sono esteticamente brutte, se non orrende, angoscianti, claustrofobiche. Però in Califorina ci sono palazzi identici, costruiti sulla spiaggia, con appartamenti che valgono milioni di Dollari. Non è l’architettura brutale in sé che crea il degrado, ma l’abbandono e l’incuria in cui vengono lasciati questi progetti mastodontici, molto più grandiosi di quanto il basso profilo dell’amministrazione pubblica italiana non consenta.
Angelo Turco