Uno sguardo disincantato dalle vette piemontesi
Già dalle prime pagine del nuovo libro di Giorgio Bocca, “Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco”, appare subito chiara la ragione delle polemiche che si sono intrecciate intorno al romanzo prima ancora della sua uscita nelle librerie. Il riferimento all’attualità è immediatamente dichiarato, con amarezza, nella nota introduttiva, e la schiettezza senza mezzi termini che da sempre accompagna il suo lavoro come le sue dichiarazioni, non si fa attendere nemmeno in quest’ultima opera, in cui la condanna al fascismo, ed in particolare alla scellerata iniziativa della guerra, si rende palese già dalle prime pagine. Il romanzo ripercorre, attraverso capitoli brevi, con una struttura “a quadri” che si susseguono come cassetti della memoria, la sua avventura partigiana, incominciando il racconto quando, nel giugno 1940, l’esercito italiano attaccò la Francia sul confine alpino. L’aggressione viene subito presentata dallo scrittore in tutta la sua assurdità: attaccare un paese già sconfitto, abitato da confinanti incontrati ogni anno nei rifugi per le vacanze. Come se non bastasse (e come a tutti è bene noto) l’Italia non disponeva nemmeno lontanamente dei mezzi e dell’organizzazione sufficienti per fronteggiare una guerra e Bocca ce lo ricorda con le immagini efficaci e sarcastiche di un “regime di cartapesta” che “vuole conquistare il mondo avendo le toppe ai pantaloni”. Si susseguono nei capitoli, mano a mano che ci si avvicina ai racconti delle avventure partigiane vere e proprie, le evocazioni dei vecchi compagni di Giorgio, alcuni divenuti veri e propri eroi della Resistenza. Vengono ricordati con partecipazione, ma non in modo celebrativo, anche perché il libro è ben lontano dal risultare un’apologia della Resistenza. E’ una cronaca tratta da sprazzi di vita vissuta e lo sguardo non poteva essere che profondamente soggettivo, come prescrive la natura autobiografica del testo e come dichiara già in anteprima l’aggettivo possessivo del titolo. Lo sguardo è quello disincantato di chi ha un ricordo molto vivido del passato e una lucida panoramica sul presente, uno sguardo inevitabilmente e doverosamente di parte, d'altronde è insito nell’etimologia stessa della parola “partigiano” l’atto di schierarsi, di non rimanere nell’indeterminatezza. Questo mi porta a una riflessione sul concetto stesso di memoria storica e memoria personale. La Storia, ormai è assodato, è scritta dai vincitori, le singole storie invece, i casi particolari che sul grande sfondo del contesto storico si intrecciano, possono costituire testimonianze più sentite e, nel loro piccolo, più ricche di verità. Da questa storia in particolare, emergono fatti, nomi e termini dialettali che l’autore non si preoccupa di spiegare o contestualizzare, li cita dandoli per scontati, come in una chiacchierata tra amici, a riprova ancora una volta che l’intento non è didascalico né tanto meno di indottrinamento. Il suo modo di esprimersi schietto, senza peli sulla lingua, l’atteggiamento secco e perentorio con cui comunica le sue idee, il frequente uso del sarcasmo sono secondo me imputabili, più che a un preciso intento polemico, a una forte ansia di comunicare. La fretta di comunicare al mondo contemporaneo un sistema di valori che egli ormai sente prossimo al disfacimento. E non si può dire che i suoi timori siano infondati o la sua visione pessimistica se consideriamo con sguardo oggettivo la società italiana come la conosciamo. Di fronte a uno spettacolo deludente cosa può fare un uomo che ha costruito la sua carriera sulla carta stampata? Naturalmente scrivere un libro, in cui tentare di trasmettere i valori che per lui sono stati importanti, attraverso il racconto della sua esperienza. Il risultato è un tono animoso e partecipe che pervade tutto il libro e che trova le sue ragioni nel passato, nel profondo coinvolgimento con cui ha vissuto gli eventi della sua giovinezza e nel futuro, o meglio in una speranza per il futuro. Non dovete però pensare, dopo tutti questi discorsi sulla memoria storica, il legame con l’attualità, che il libro sia un concentrato di storia e politica. Emergono molti squarci di memoria pura e semplice, che non di rado sconfinano in veri e propri frammenti di assoluta poesia, che si integrano perfettamente nell’economia del romanzo. Si va dai ricordi di Cuneo, borgo natio, alle descrizioni del paesaggio montano e, soprattutto, dei suoi abitanti, “presenze quasi faunesche” , che interagiscono spesso con i partigiani, offrendo loro riparo e aiuto e verso i quali Bocca nutre molta simpatia e percepisce grande affinità. I lunghi momenti di pausa dall’azione guerresca non sono dunque momenti morti nella narrazione che si nutre di episodi, come le bevute in compagnia dei montanari con il vino ristoratore, e di squarci lirici, come quello, bellissimo, riportato in quarta di copertina. Ci si domanda come sia possibile che in un momento così delicato si possa trovare il tempo per godersi lo spettacolo della natura. “E’ l’unico momento in cui ho guardato la natura in vita mia” confessa Bocca a Fabio Fazio, ed è proprio questo il punto. Forse la nostalgia non riguarda solo l’impegno politico, l’orgoglio nazionale, ma anche il sapore che dava alla vita questa lotta risoluta in nome degli ideali. Perché, “se non sei un pastore che si è alzato all’alba” o un partigiano, lo spettacolo della fioritura dei ranuncoli ti può solo essere descritto, magari in un libro.
Laura Carli
Già dalle prime pagine del nuovo libro di Giorgio Bocca, “Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco”, appare subito chiara la ragione delle polemiche che si sono intrecciate intorno al romanzo prima ancora della sua uscita nelle librerie. Il riferimento all’attualità è immediatamente dichiarato, con amarezza, nella nota introduttiva, e la schiettezza senza mezzi termini che da sempre accompagna il suo lavoro come le sue dichiarazioni, non si fa attendere nemmeno in quest’ultima opera, in cui la condanna al fascismo, ed in particolare alla scellerata iniziativa della guerra, si rende palese già dalle prime pagine. Il romanzo ripercorre, attraverso capitoli brevi, con una struttura “a quadri” che si susseguono come cassetti della memoria, la sua avventura partigiana, incominciando il racconto quando, nel giugno 1940, l’esercito italiano attaccò la Francia sul confine alpino. L’aggressione viene subito presentata dallo scrittore in tutta la sua assurdità: attaccare un paese già sconfitto, abitato da confinanti incontrati ogni anno nei rifugi per le vacanze. Come se non bastasse (e come a tutti è bene noto) l’Italia non disponeva nemmeno lontanamente dei mezzi e dell’organizzazione sufficienti per fronteggiare una guerra e Bocca ce lo ricorda con le immagini efficaci e sarcastiche di un “regime di cartapesta” che “vuole conquistare il mondo avendo le toppe ai pantaloni”. Si susseguono nei capitoli, mano a mano che ci si avvicina ai racconti delle avventure partigiane vere e proprie, le evocazioni dei vecchi compagni di Giorgio, alcuni divenuti veri e propri eroi della Resistenza. Vengono ricordati con partecipazione, ma non in modo celebrativo, anche perché il libro è ben lontano dal risultare un’apologia della Resistenza. E’ una cronaca tratta da sprazzi di vita vissuta e lo sguardo non poteva essere che profondamente soggettivo, come prescrive la natura autobiografica del testo e come dichiara già in anteprima l’aggettivo possessivo del titolo. Lo sguardo è quello disincantato di chi ha un ricordo molto vivido del passato e una lucida panoramica sul presente, uno sguardo inevitabilmente e doverosamente di parte, d'altronde è insito nell’etimologia stessa della parola “partigiano” l’atto di schierarsi, di non rimanere nell’indeterminatezza. Questo mi porta a una riflessione sul concetto stesso di memoria storica e memoria personale. La Storia, ormai è assodato, è scritta dai vincitori, le singole storie invece, i casi particolari che sul grande sfondo del contesto storico si intrecciano, possono costituire testimonianze più sentite e, nel loro piccolo, più ricche di verità. Da questa storia in particolare, emergono fatti, nomi e termini dialettali che l’autore non si preoccupa di spiegare o contestualizzare, li cita dandoli per scontati, come in una chiacchierata tra amici, a riprova ancora una volta che l’intento non è didascalico né tanto meno di indottrinamento. Il suo modo di esprimersi schietto, senza peli sulla lingua, l’atteggiamento secco e perentorio con cui comunica le sue idee, il frequente uso del sarcasmo sono secondo me imputabili, più che a un preciso intento polemico, a una forte ansia di comunicare. La fretta di comunicare al mondo contemporaneo un sistema di valori che egli ormai sente prossimo al disfacimento. E non si può dire che i suoi timori siano infondati o la sua visione pessimistica se consideriamo con sguardo oggettivo la società italiana come la conosciamo. Di fronte a uno spettacolo deludente cosa può fare un uomo che ha costruito la sua carriera sulla carta stampata? Naturalmente scrivere un libro, in cui tentare di trasmettere i valori che per lui sono stati importanti, attraverso il racconto della sua esperienza. Il risultato è un tono animoso e partecipe che pervade tutto il libro e che trova le sue ragioni nel passato, nel profondo coinvolgimento con cui ha vissuto gli eventi della sua giovinezza e nel futuro, o meglio in una speranza per il futuro. Non dovete però pensare, dopo tutti questi discorsi sulla memoria storica, il legame con l’attualità, che il libro sia un concentrato di storia e politica. Emergono molti squarci di memoria pura e semplice, che non di rado sconfinano in veri e propri frammenti di assoluta poesia, che si integrano perfettamente nell’economia del romanzo. Si va dai ricordi di Cuneo, borgo natio, alle descrizioni del paesaggio montano e, soprattutto, dei suoi abitanti, “presenze quasi faunesche” , che interagiscono spesso con i partigiani, offrendo loro riparo e aiuto e verso i quali Bocca nutre molta simpatia e percepisce grande affinità. I lunghi momenti di pausa dall’azione guerresca non sono dunque momenti morti nella narrazione che si nutre di episodi, come le bevute in compagnia dei montanari con il vino ristoratore, e di squarci lirici, come quello, bellissimo, riportato in quarta di copertina. Ci si domanda come sia possibile che in un momento così delicato si possa trovare il tempo per godersi lo spettacolo della natura. “E’ l’unico momento in cui ho guardato la natura in vita mia” confessa Bocca a Fabio Fazio, ed è proprio questo il punto. Forse la nostalgia non riguarda solo l’impegno politico, l’orgoglio nazionale, ma anche il sapore che dava alla vita questa lotta risoluta in nome degli ideali. Perché, “se non sei un pastore che si è alzato all’alba” o un partigiano, lo spettacolo della fioritura dei ranuncoli ti può solo essere descritto, magari in un libro.
Laura Carli
Ottimo articolo. Mi permetto di fare sinceri complimenti all'autrice.
RispondiEliminaDz
laura complimenti!! scritto molto bene! In bocca al lupo per i prossimi articoli (che sicuramente saranno numerosi!)
RispondiEliminada Laura dell'uni
Me lo ricordavo bene...hanno ragione è un ottimo articolo, nn è semplicemente un analisi del libro ti invoglia anche a leggerlo..complimenti!!
RispondiEliminasivy
p.s.:per i prossimi articoli cerca di scriverne uno in cui possa usare l'aggettivo "tagliente" nel commento...