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Antonino Marsala
Chiara Checchini
Ci sono pochi dischi che riescono ad essere più attuali a distanza di vent’anni di quanto non lo fossero all’epoca della loro uscita. O perlomeno tanto attuali quanto lo erano allora.
London Calling dei Clash è probabilmente uno di essi.
Siamo nel 1979: sono passati poco più di tre anni da quando i Sex-Pistols scandalizzarono all’ora di cena la middle-class britannica con insulti e parolacce in tv. E’ dicembre e Margareth Tatcher è appena andata al governo. Sono profetici i Clash quando nella title-track del disco di cui stiamo parlando cantano: “See we ain’t got no swing except for the ring of that truncheon thing [Guarda, non c’è più niente di swinging a parte il roteare di quel manganello]”. Sta arrivando un’era di repressione che colpirà tutti: i minatori in sciopero, gli irlandesi, gli abitanti delle Falkland. E’ il clampdown, il giro di vite, il pugno di ferro.
Ma la rabbia che infiammava le strade tra il West End e Notting Hill Gate qualche anno prima nella furia del ‘77 non si è sopita. E’ una rabbia che discende da generazioni di sfruttati e di esclusi da sempre ai margini dell’Impero. E’ la furia del rudeboy che ha accompagnato i Clash nel ononimo film sulle loro tournè, e più indietro quella degli angry young men e di tutti i ribelli della storia inglese. Una rabbia anti-sistema che può farsi scorticante violenza (auto)distruttiva come nei molti gruppi punk di fine decennio o esuberante gioia vitale, ricerca di mescolanza, festa, condivisione. In fondo anche il Jimmy Porter di Ricorda con Rabbia di John Osborne, capostipite di tutti gli arrabbiati inglese, trovava pace tra un maltrattamento della povera moglie Alison e l’altro, suonando selvaggiamente la sua tromba e sognando il jazz dei neri americani.
Anche i Clash dopo due dischi di abrasive canzoncine punkettare -“Got no money, can’t get no power and so you are punk [Non hai soldi, non puoi aver potere e quindi sei punk]” - lasciano trapelare una cultura musicale per ora a stento trattenuta e un gusto per la contaminazione a 360° gradi. Le sonorità rozze e urticanti di appena un anno prima lasciano il posto a una girandola di suoni e stili provenienti da ogni dove.
C’e il reggae di Revolution Rock o di Guns of Brixton – canzone che rieccheggia gli scontri violenti tra polizia e immigrati giamaicani nell’omonimo quartiere londinese.
C’è il post-punk antithatcheriano di Clampdown e la new-wave sgargiante di I’m not down. E poi il roots-rock di Rudie can’t fail, il blues di Jimmy Jazz, lo shuffling ska di Wrong ’em boyo, le sonorità alla Blues Brothers di The Right Profile.
Ma anche il rock latin-sentimental-resistenziale di Spanish Bombs (canzone dedicata alla guerra civile spagnola) o il raffinatissimo pop “alienato” di Lost in the Supermarket (piccolo gioiellino sulla perdita d’identità dell’uomo contemporaneo nel mercato globale).
C’è di tutto in questo disco, da cui discende gran parte della musica che ascoltiamo ancora oggi, ma sopratutto c’è l’invito a scavalcare barriere e confini, geografie, e ghetti musicali, mentali e razziali, a lasciar interagire ad ogni costo musica e idee.
Al giro di boa col nuovo decennio i Clash regalano la perla della loro carriera. Pochi comprenderanno la loro lezione nel bailame consumistico dei primi anni ‘80. Solo poco per volta inariditisi i fiumi di elettropop decadente e new-wave plastificata che invadono l’Europa all’inizio del decennio rispunteranno qua e là i frutti del loro insegnamento.
Saranno a Parigi nelle notti “patchancose”, bagnate di birra e di suoni dalla Manonegra, tra il 15° arrondissement e Place Pigalle. O nell’Irland punk-folkettara dei Pogues. E poi più giù fino ai giorni nostri nella barricadera Tolosa degli Zebda, o nella Galizia variopinta degli Amparanoia o ancora nel cavanserraglio del Radio Bemba Sound System (alias Manu Chao). E poi, anche oltreoceano, a Città del Messico nello ska-rock latino dei Maldita Vecindad o a Buenos Aires, nella mezcla de estilos dei Fabulosos Cadillacs.
Ma la lezione di London Calling va oltre. Rispunta dovunque culture e musiche diverse si fondono insieme, nei corpi e nelle idee che si muovono senza sosta di paese in paese, nelle navi della speranza che superano dogane e trattati con il loro carico di esperienze umane da condividere.
Francesco Zurlo
E’ capitato tutto così. Un soffio di vite che in comune non avevano un bel niente. Di colpo legate, unite, una cosa sola.
-Avevo bucato. Con le gomme è sempre così. Le avevo bistrattate e forse dimenticate. Questa doveva proprio essere una loro vendetta.
-Nel fumo stantio del bar di paese, con ai muri la formazione dell’Inter 87’88 cercai solo di capire se ci fosse qualcuno e se quel qualcuno sarebbe stato in grado di aiutarmi o, meglio, tranquillizzarmi.
-Ero già entrato da parecchi secondi, almeno venti, quando sentii una voce. E forse solo allora mi scossi.
-Fu come svegliarsi. La luce filtrava con poca convinzione dalle finestre alle mie spalle, e la poca che arrivava al bancone illuminava pallide olive e salatini tristerelli.
-La voce mi fece sgranare gli occhi. E allora smisi di perdermi tra gli odori di bestemmie, bianchini e paginoni di Gazzetta. Davvero sembrava che nessuna legge antifumo fosse ancora giunta in quei luoghi.
-Sul bancone spuntavano posacenere colmi di cicche. Avevo gli occhi pieni di quel luogo. Forse li spalancai, credendo che altrimenti la voce non sarebbe mai potuta entrarci.
-Non risposi, né diedi cenno di intesa. Alla mia destra tra il fumo che si faceva più denso, indovinai la presenza di un’altra stanza.
-La cercai con strana convinzione. Notai che i miei passi non facevano alcun rumore. La cosa mi parve strana, perché il pavimento sembrava di legno.
-Eccola. Da subito trovai che la stanza avesse degli stucchi un po’ ridicoli. Almeno in alto, sul soffitto. Si intravedevano nonostante la nebbiolina. Le pareti, invece erano affrescate come oggi non si usa più. Quello che legava gli affreschi era il motivo del grappolo d’uva. Delle linee rosse, come fossero i nastrini che le bambine usano mettersi tra i capelli, collegavano i grappoli. Gli affreschi correvano su tutte le pareti della stanza e sembravano confluire in un punto che stava di fronte a me.
-Il camino attirava le linee, i grappoli e parte del mio sguardo. Io ero distratto dalle figure che si affollavano attorno ad un tavolino solitario. A lungo mi sembrò quasi che fossero disegnate.
-Quando mi avvicinai, capii quello che c’era da capire. Sul tavolo c’erano: un posacenere (al centro), una bottiglia di Fernet, una di Strega ed un’altra, senza etichetta.
-Sorrisi alle figure attorno al tavolo, e loro mi pregarono di accomodarmi accanto a loro. Continuavo a sorridere, senza curarmi dei miei occhi, di colpo lucidi.
- Il primo, alla mia destra, era robusto e rossissimo. Si vedevano le venine violacee tra gli occhi e le guance. I pochi capelli, bianchi, gli sparavano senza direzione sopra le orecchie. Il bicchierino che stringeva tra le dita tozze era sporco di Fernet sul fondo e scompariva nel suo pugno.
-Guardandomi, abbassò gli occhi, annegandoli in un sorriso amaro. Iniziò a parlarmi in dialetto. Io ero contento, perché lo capivo. Ma nel parlare sembrava che nemmeno avesse bisogno di muovere le labbra.
-Era preoccupato per il futuro, per la sconfitta definitiva dei suoi ideali. Aveva combattuto per una vita intera, e ora si ritrovava a dover ammettere di essere uno sconfitto.
-Il solo sentire certe cose, mi dava fastidio. Di discorsi pessimisti ne avevo sentiti fin troppi. Tuttavia capivo quanto questo vecchietto potesse soffrire. Sentii un’insanabile bisogno di trattenermi nell’accarezzare la sua pelle ruvida ma tolettata. Poi non le feci, ma forse cercai la sua mano. Volevo fargli coraggio. Partecipai col suo racconto al dolore per la sua casa data alle fiamme. Poi sentii di volergli solo un gran bene quando mi disse che anche lui aveva partecipato alla liberazione. Rimasi a guardare le sue mani gesticolare, senza riuscire a dire nulla, quando mi raccontò del suo amico Jonah, portato via e mai più ritornato.
-Fui invaso da dolcezza e leggerezza. Dalle macerie di una casa aveva salvato una ragazza. E su quelle macerie, nottetempo era tornato, e si era unito per sempre a lei.
-“Ho avuto anche io venti anni”
-Non seppi mostrargli quanto gli fossi grato.
-Di persone curiose ne ho viste davvero parecchie. Tuttavia, nelle occasioni in cui mi reputo una persona felice, so ancora stupirmi.
-La figura che si nascondeva dietro alla bottiglia di Strega iniziò a parlare presentandosi. “Mi chiamo Alda”, disse, “sono una persona molto anziana, perché ho più di 85 anni e fumare mi piace da morire”.
-Vestiva una camicetta a fiori, di quelle che io avevo visto sulla pelle di mia nonna e su qualche signora in estate. I capelli su quella testa canuta non avevano alcun senso, ma aveva degli occhi pieni di livore.
-Le sue parole erano dense e piene di ansia. Capii che aveva voglia di essere ascoltata. Mi ci misi di impegno. Mi accorsi in fretta che le sue parole danzavano, come farfalle coloratissime. Uscivano svolazzanti e senza direzione tra il fumo delle sigarette che si accendeva una dopo l’altra.
-Non saprei ripetere una singola cosa che mi disse. Ma la sua bocca sgranata e la sua voce ruvida mi facevano soffrire e avere rispetto insieme.
-La bottiglia senza etichetta si trovava a pochi centimetri dalla mano incerta dell’unica persona che non mi aveva ancora rivolto parola.
-Aveva due occhi enormi. Bagnati, umidi, inespressivi, impauriti. La mano era semichiusa.
-Subito pensai alla straordinaria bellezza che questa donna aveva dovuto possedere da giovane. La vedevo nella sua figura incerta ma elegante sbattere le palpebre e sorridere nutrendo le sue rughe.
-Mi guardava spaesata. Vedevo che le parole volevano uscire da quella bocca tesa ma proprio non ci riuscivano. Dannatamente a disagio, dissi, un po’ guardando lei e un po’ le altre due figure: “Sapete, ho bucato una gomma, ma mi riesce difficile tirar fuori anche solo un ragno da quel buco”.
-Nemmeno un sorriso. Nemmeno un gesto di comprensione.
-La splendida nonnina muta, senza dire nulla, riversò nelle mille rughe del suo viso tutte le lacrime di cui era capace.
-Il vecchietto col bicchierino sporco di Fernet mi mise una mano sulla spalla, (sentii che era una mano davvero stanca), e mi indicò un giradischi dalla parte opposta della stanza.
-Mi alzai deciso. Strinsi più mani possibile. Tutti cercavano di baciarmi, come fossi loro nipote.
-Non avevo mai visto un giradischi simile. Forse il nonnino aveva parlato di grammofono. Incerto, girai il disco e lessi sull’etichetta al centro del vinile: Glenn Miller Orchestra “Glenn’s Jive”.
-Posizionai il diamante dove l’incisione avevano inizio. Il disco, friggendo, mi diede coraggio.
-Prima fu buio. Poi il camino si mise a crepitare squarciando la tenebra. I grappoli d’uva, che non sembravano nemmeno più solo dipinti, presero un colore nuovo. E di colpo la stanza fu piena di gente.
-Ragazze giovani ed eleganti mi sfioravano. Ballavano. E con loro cavalieri in gessato. I miei jeans erano la cosa più stridente potessi indossare.
-Intravidi il tavolo. Sedeva solo la donna con la sigaretta. Era come un corpo altro. La musica non la interessava affatto. D’un tratto scriveva convulsamente su un tovagliolo.
-Poi, tra i frack e le scarpe di lucido vidi lui. Era il più scatenato. Ballava con una donna. Sembravano danzare a memoria, come se nulla dovesse essere aggiunto. Lei sorrideva, e lui, con i capelli pieni di brillantina faceva lo stesso. Ebbi il flash della sua mano sulla mia spalla, pochi istanti prima e fui confuso.
-Le mie All Star azzurre e arancione si accendevano come torce con il luccichio del camino.
-Ero buffo e ridicolo come un clown. Avevo i piedi grandissimi rispetto agli altri. Chi ballava me li pestava senza cura. Avrei preferito essere scalzo.
-Trovai una sedia. Levai le scarpe. Quando la vidi.
-Era proprio bella come l’avevo immaginata. Giovane. Gli occhi uguali. Pieni di tristezza e spessi di lacrime.
-Così, scalzo, andai sicuro da lei. Le toccai la mano. Abbassò gli occhi e si toccò la veste, che –ricordo- era bianchissima.
-Poi si lasciò cadere. La presi tra le braccia sfiorandole i seni. Cercai i suoi occhi.
-Candidi e dolci.
-Presi il suo viso tra le braccia. Provai il sentimento più naturale e privo di malizia. Desiderai la sua pelle giovane. Avvicinai le labbra al suo collo e lo sentii freddo.
-Non so raccontare con queste parole cosa si provi nel sentire una persona morire tra le proprie braccia. Di certo non posso dire sia una cosa bella. Nemmeno una cosa brutta. E’ una cosa che magari ti fa piangere.
-Quando piangi, e le lacrime seguono le linee del tuo viso, fino a sfiorarti le labbra. Allora capisci almeno di che gusto sia il pianto.
-La sofferenza, il dolore, il pianto possono nascere così. Da una ruota bucata, o da un richiamo non ascoltato. Per chi scrive, per chi fotografa, per chi suona il dramma è proprio questo: pensare ad altro.
-E per pensare ad altro non servono venti anni. Non ne servono ottanta. Servono orecchie e un paio di mani più o meno ben fatte.
racconto di Davide ZucchiA tre anni di distanza da
Più semplice perché meno giocata sulle strutture ad incastri spazio-temporali e sulle rotture della continuità narrativa di Amores Perros e 21Grammi. Ma più complessa per il più ampio sforzo produttivo, dovuto all’articolazione del film in tre storie che si svolgono addirittura in tre continenti diversi: una sulla frontiera rovente tra Messico e Usa, una in Marocco e l’ultima addirittura in Giappone. Tre plot legati da una serie di nessi diegetici che emergono lentamente nel corso del film. Assistiamo allora al tentato omicidio di una donna americana giunta in vacanza in Marroco con il marito, e contemporaneamente, alla sorte poco invidiabile della badante messicana cui ha affidato i pargoli ed ancora al cupo dolore di una ragazzina giapponese sordomuta che ha di recente perso la madre.
L’obbiettivo di Iñarritu (e del suo fedele sceneggiatore Guillermo Arringa) era probabilmente quello di raccontare l’incomunicabilità nell’epoca della globalizzazione – di qui il titolo Babel. Incomunicabilità tra stati e culture: l’America claustrofiliaca che erige muri per tenere lontani i milioni di migranti messicani in cerca di lavoro, le difficoltà di comunicazione tra il mondo occidentale e quello arabo; ma anche tra esseri umani: tra marito e moglie (incapaci di parlarsi dopo la morte di uno dei figli) o tra padre e figlia come nella vicenda giapponese, dove la sordità della giovane protagonista si fa simbolo evidente di un’assenza di comunicazione più generalizzata. Tuttavia questo, che costituisce il nucleo tematico più appariscente del film, rimane solo a un livello di superfice. A un livello più profondo ritroviamo il solito tema della coppia Inarritu-Arriaga: quel senso di colpa legato ad un trauma rimosso che riemerge piano piano, incalzato dagli eventi drammatici (e imperscrutabilmente fatali) verso la necessaria catarsi finale. E così il dialogo di chiarimento finale tra Brad Pitt e la moglie, malgrado la cornice “globalizzante”, assomiglia moltissimo alla riconciliazione finale tra il personaggio interpretato da Benicio del Toro e la consorte in
Il film, che parrebbe una riflessione sulla globalizzazione è invece, esattamente come
Ma fino ad un certo punto. Perchè la descrizione della “civilissima barbarie” che si consuma ogni giorno lungo i confini tra Stati Uniti e Messico, nei deserti dell’Arizona, della California e del Texas, sulla frontiera più calda del pianeta – per inciso la parte più sincera e convincente del film – rappresenta l’atto d’accusa di un messicano deluso dal ricco paese vicino che l’ha accolto tra le sue braccia, ma respinge invece i suoi connazionali meno fortunati.
Per il resto il film conferma i meriti e limiti di Inarritu. Da una parte la grande maestria nell’impaginare i film, nell’incastrare le storie – anche se qui la destrutturazione, più “geografica” che narrativa, suona a volte un po’ artificiosa; l’abilità nel dirigere gli attori – quanto mai assortiti tra semiprofessionisti e stelle da blockbuster (non solo Pitt e
Un’ultima (pessima) nota sul doppiaggio della versione italiana. Doppiaggio che vede tutti i personaggi ispanici del film esprimersi con un improbabile accento a metà strada tra un veneto da recita parrocchiale e la parlata del gabibbo. Ma quand’è che anche in Italia qualche distributore “oserà” ciò che è prassi comune in tutti i paesi del mondo (tranne che nella post-autarchica Italia) e cioè mandare nelle sale i film in lingua originale con i sottotitoli?
Francesco Zurlo