14 gennaio 2011

Editoriale novembre 2010

Ad ogni atto di violenza verso un protagonista della politica, dalla statuetta contro Berlusconi al fanta-attentato a Belpietro, tornano in auge le condanne ai “seminatori d’odio”. Chi attacca con troppa veemenza un rivale politico sarebbe responsabile del comportamento di un qualsiasi squilibrato che, guidato dalla mano invisibile dell’odio ideologico, scagli statuette o proiettili inceppati verso il nemico di turno.
La pretestuosità dell’argomento è ben evidente anche alle anime belle che si abbeverano alla “stampa dell’amore”. Siamo però sicuri che l’odio sia un sentimento così illegittimo? In nome di che principio non sarebbe possibile, nell’intimo della propria casa, odiare un’altra persona? Esiste forse un obbligo al “volersi bene”, al di fuori delle aule del catechismo? L’odio in sé è perfettamente legittimo, a patto chiaramente che non si traduca in azioni concrete. Il codice infatti proibisce la pratica violenta o l’istigazione, ma fortunatamente non si occupa di stati dell’anima.
E chi non odia nessuno? Fa benissimo, se trova preferibile un’etica personale che suggerisce ecumenicamente di amare il proprio nemico. Ma attenzione, non confondiamo un personale convincimento con la normatività della legge, che non distingue tra giusto e sbagliato ma solo tra legale e illegale. Il rischio è quello di ritrovarsi in uno stato etico simile a certe società anglosassoni, dove i politici si dimettono per aver tradito la moglie. Stiamo attenti a non sostituire una già carente etica del reato, ad un’anacronistica etica del peccato.

Filippo Bernasconi

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