16 luglio 2010

Visita al campo di Rho


Il campo di Rho è uno di quegli esempi di insediamenti nomadi che poco hanno a che vedere con il concetto di “ghetto” descritto negli ultimi tempi dalla cronaca. Si presenta come un’area circondata da zone agricole e complessi industriali sorti di recente che hanno, nel tempo, sottratto sempre più spazio all'area abitativa.
La zona è prevalentemente verde e alterna spazi curati ad altri lasciati incolti. I complessi abitativi, tra roulotte e container, sono rimasti pochi e molte sono le aree lasciate vuote in seguito agli sgomberi.
Inizialmente gli attuali abitanti erano insediati nei terreni agricoli circostanti, da loro acquistati circa quindici anni fa, dove però, in quanto terreni coltivabili, non era legittima la costruzione di alcun tipo di edificio.
Poi, tre anni, fa la giunta comunale ha concesso il permesso per l’apertura del campo. Il progetto originario prevedeva delle baite, ma prevalse la più economica scelta dei container.
Da circa un anno è in corso un graduale processo di svuotamento del campo attraverso la revoca del permesso di occupazione della piazzola, spesso in seguito a motivazioni pretestuose e attraverso metodi intimidatori. Al momento la popolazione è composta da circa trentacinque persone, tra cui quindici bambini, tutti regolarmente iscritti a scuola.

In tutto si possono contare un paio di roulotte e circa cinque prefabbricati dalle porte in lamiera. All’interno le abitazioni si presentano in modo diversificato a seconda delle possibilità delle famiglie, un dettaglio comune a tutte però è l'angolino votivo, con foto della madonna, candele e fiori: una sorta di piccolo altarino domestico.
Il richiamo religioso, più mistico-rituale che propriamente cristiano, ritorna anche all'esterno, con una piccola cappella di forma piramidale, edificata dagli abitanti del campo, di confessione ortodossa, per “ingraziarsi il clero locale” e decorata su tutta la superficie con immagini sacre di santi e di papi.
L'attenzione per gli oggetti di decorazione è presente in tutto il campo: in ogni abitazione mensole e nicchie ospitano ninnoli di vario genere, di carattere più o meno sacro. Quasi un oggetto di culto appare in particolare il modellino di una villa, che troneggia appoggiato sull'armadio in casa di Angelina. Si tratta dell'abitazione che la sua famiglia stava costruendo a Belgrado, una villa grande ed elaborata dall'architettura un po' orientale, che suo marito ha voluto riprodurre in scala ed esporre in bella vista.

Andrea invece vive con i suoi sei fratelli in un'abitazione più modesta. Ha dodici anni e frequenta la prima media, non sa però se riuscirà a terminare con regolare frequenza l’anno scolastico perché il furgoncino con cui i volontari di Opera Nomadi accompagnavano i bambini a scuola è fermo per problemi burocratici di non imminente risoluzione. Alla domanda se sarà o meno promosso quest'anno, risponde incerto che non lo sa, che ha recuperato l'insufficienza in fisica ma non quella in matematica. Sulle sue aspirazioni future ha le idee più chiare: vorrebbe fare “quello che cura i bambini” o il calciatore. Anche Andrea è vittima del cliché italiano del mito della carriera calcistica, mentre parla gioca a P.E.S e racconta del suo goal da centrocampo e dei suoi allenamenti, curati da una volontaria, ex calciatrice del Milan.

Giuliana invece finirà le medie quest'anno ed è una dei pochi ragazzi che ha intenzione di proseguire negli studi: frequenterà una scuola professionale per parrucchieri a Milano. E' una ragazza estroversa, dall'aspetto molto curato, dimostra più dei suoi quattordici anni.
Nel tardo pomeriggio l'atmosfera si vivacizza improvvisamente per il ritorno dei bambini da scuola. E' più tardi del solito perché, con il pulmino inutilizzabile, i ragazzi sono dovuti tornare a piedi. Una volta a casa, confrontano quaderni e calligrafie, fanno a gara a chi scrive meglio e un paio di bambini mostrano orgogliosi la foto di classe; uno in particolare, affascinato dall'aspetto meta-fotografico, non vuole essere immortalato senza. Dopo i primi minuti, passati a discutere della scuola e dei compagni, l'aspetto del gioco puro ha il sopravvento e i ragazzi si concentrano sui loro svaghi abituali.
La giornata di scuola è conclusa ma, con il pulmino fermo, i giorni dalla fine di maggio alla conclusione dell'anno scolastico restano incerti. La frequenza sarà sporadica e per lo più basata su mezzi di fortuna.
Lo stesso obbligo di scolarizzazione, sancito a livello nazionale, nel caso dei ragazzi dei campi nomadi è affidato alla discrezione personale e all'arte di arrangiarsi, all'iniziativa individuale e al lavoro dei volontari. Da parte delle istituzioni, nonostante l' “emergenza nomadi” dichiarata due anni fa, che prevedeva anche proposte riguardo ai giovani e all'istruzione, sembra regnare il completo disinteresse.


Laura Carli e Irene Nava

1 commento:

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