Cosa ci attrae, cosa ci convince che un certo partito, un certo candidato “è quello giusto” per noi?
E quanto dura la “fedeltà” elettorale?
La fiducia e l’adesione alle istituzioni del matrimonio e delle elezioni, tradizionalmente alta in Italia, sembra essere diminuita. Si può dire allora, per quanto riguarda le elezioni, che anche gli italiani si allineano sulle posizioni di tedeschi, inglesi e americani, il 20-30% dei quali sceglie l’astensione o l’ “infedeltà elettorale”?
Astensione e instabilità di un segmento consistente del corpo elettorale segnalano indubbiamente un cambiamento valoriale piuttosto netto, ma acquistano un peso ancora maggiore quando l’esito delle competizioni elettorali è deciso da differenze minime tra i blocchi o tra i candidati.
Chiediamoci allora: quali fattori conducono l’elettore in primo luogo alla scelta tra votare e non-votare, e poi, eventualmente, a dare la propria preferenza ad un determinato partito e/o ad uno specifico candidato?
Per molto tempo si è ritenuto che le scelte politiche fossero legate al “qui e ora” di ciascun elettore, ossia a fattori quali l’età, il sesso, il livello di istruzione e il reddito percepito.
Già negli anni ’50, però, un gruppo di studiosi dell’Università del Michigan ha evidenziato come le radici della scelta politica vadano ricercate molto più lontano: dare la propria preferenza ad un partito è la fase terminale di un processo che inizia e si consolida in famiglia nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, e che riflette i modelli di comportamento, di giudizio, di valore proposti ai più giovani da parte degli adulti.
Al modello implicito si aggiungono i comportamenti espliciti di approvazione/disapprovazione attuati dalle persone che l’elettore considera importanti: l’approvazione data all’elettore che si adegua alla tradizione del suo gruppo (familiare, amicale, ecc.) è un importante rinforzo positivo, ma forse ancora più incisivo è il rinforzo negativo della disapprovazione verso chi si discosta dai comportamenti elettorali del suo gruppo di riferimento.
Un altro elemento capace di avere un peso determinante sulla scelta di votare/non votare, ed eventualmente sul chi/che cosa votare, è legato al cosiddetto “effetto recency”, per il quale si tende in genere a dare maggior rilievo agli avvenimenti recenti rispetto a quelli lontani nel tempo. Può accadere così che razionalmente si riconosca che l’approvazione ad un lungo periodo di buon governo non dovrebbe essere messa in discussione a causa di un breve episodio negativo verificatosi alla fine del mandato, ma che poi emotivamente si sia già avviati al più totale disinvestimento.
Già questi primi elementi contribuiscono a rendere il quadro mobile e fortemente sfaccettato.
Da una ricerca effettuata nel 2003 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Roma, si evidenzia poi che coloro che si astengono dal voto o votano scheda bianca, pur appartenendo a tutte le fasce di età, sono in prevalenza maschi, mediamente scolarizzati e non garantiti.
L’astensione di questa fascia di elettori può probabilmente essere messa in relazione con l’enorme numero di informazioni trasmesse quotidianamente dai mass media, informazioni spesso parziali e/o contraddittorie, che non chiariscono i dubbi dell’elettore ma anzi ne aumentano la confusione. Da questa confusione nasce talvolta una sensazione di sfiducia, una scarsa propensione a credere alle promesse elettorali, in definitiva una rinuncia a quell’impegno etico-politico che può portare al cambiamento sociale.
Tra coloro che vanno a votare ed esprimono una preferenza valida si possono distinguere due grandi categorie: gli stabili, il cui legame con un partito è così duraturo da rappresentare in pratica una “caratteristica d’identità”, e gli instabili.
Gli instabili vanno progressivamente aumentando, anche perché sono in atto numerosi cambiamenti, che mutano il quadro di riferimento, richiedendo all’elettore continue ridefinizioni della sua posizione. Tra essi ricordiamo:
- l’evoluzione dei vecchi partiti e la nascita di nuovi
- la costruzione/distruzione delle alleanze
- il cambiamento del mercato del lavoro, con i suoi riflessi su occupazione e proprietà
- la modificazione del panorama locale, nazionale ed internazionale, con i suoi riflessi sulla politica e sull’economia
- la sensibilità “in divenire” verso temi di grande portata come la famiglia, l’ambiente, le pari opportunità, ecc.
Come ogni scelta, però, anche la scelta politica risulta strettamente legata ai bisogni profondi degli elettori, che sono portati a prediligere il partito (o addirittura il candidato) la cui immagine pubblica si avvicina di più all’immagine ideale che essi hanno di sé. La scelta tende allora a cadere sul candidato che mostra di avere le doti caratteriali che l’elettore ha o vorrebbe possedere: ad esempio coscienziosità, intraprendenza, capacità di imporre le proprie idee, tenacia, perseveranza, ecc.
Tuttavia, poiché le occasioni in cui i candidati possono essere visti all’opera non sono molte, spesso gli elettori si basano soltanto sulle impressioni che possono trarre dall’assistere a programmi elettorali o duelli televisivi. Qui i candidati fanno il possibile per accattivarsi le simpatie degli spettatori, puntando a metter in luce tratti caratteriali e valori che ritengono siano largamente condivisi dagli ascoltatori.
Così percentuali consistenti di elettori sono indirizzati a concentrare la loro attenzione, piuttosto che sul programma politico dei candidati, su alcuni tratti superficiali della loro personalità, come ad esempio l’energia, l’amicalità, l’entusiasmo, la sincerità.
Perciò, quando accade (evento ormai frequente) che l’ ”effetto recency” si combini con la focalizzazione sui tratti della personalità dei candidati, il numero degli elettori instabili aumenta.
Certo, non è detto che l’infedeltà elettorale sia negativa, perché può rispecchiare scelte dinamiche e sensibilità ai mutamenti: ma è comunque un dato da considerare con la massima attenzione.
Flavia Marisi
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