Licata, provincia di Agrigento, pochi giorni fa c’è stata l’ennesima morte sul lavoro. O meglio sotto il lavoro. Un immigrato rumeno irregolare lavorava in nero al restauro di una palazzina fatiscente, per conto di un palazzinaro amico dei condoni. Fatalità volle che il palazzo crollasse in faccia all’operaio sotterrandolo e costringendolo ad una morte lunga due giorni, e privo dei piedi amputati durante i soccorsi. Una storia come le altre se non fosse per la macabra e grottesca asportazione. L’indignazione sale nei confronti di questo “imprenditore” che aveva pure dichiarato che al momento del crollo nella palazzina non c’era nessuno. Nessuno da segnalare ovviamente. Dopo però scopriamo altre cose: la palazzina era stata costruita abusivamente negli anni settanta e di recente era divenuta il rifugio di un latitante mafioso, poi sorprendentemente arrestato. Mancava solo un aereo di linea che ci finiva contro dirottato da separatisti sardi. La costruzione è crollata per la vergogna di essere stata co-protagonista di tutti questi reati. Quindi alla fine la colpa della morte dell’operaio di chi è? Dell’abusivismo edilizio? Del mafioso che avrebbe dovuto segnalare la caducità della sua dimora? Del negriero imprenditore siculo? Della Bossi-Fini che avrebbe dovuto rispedire indietro l’immigrato? Questo lo stabilirà un magistrato colluso con l’ausilio di intercettazioni illegali e grazie all’ambiguità di qualche legge.
Fabrizio Aurilia
Fabrizio Aurilia
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