5 ottobre 2006

GIORNALISTA SI NASCE O SI DIVENTA?

Intervista a Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia

Un dibattito che si prolunga ormai da troppo tempo è quello sulla formazione del giornalista. All’inaugurazione del master di giornalismo alla Statale di Milano, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo, ha ripreso l’ argomento dichiarando che giornalista si diventa con la formazione culturale, storica e politica. E’ comunque necessaria una certa vocazione e una certa capacità naturale di parlare con la gente, di andare sulla notizia. Insomma, un po’ di fiuto non guasta.


Dottor Abruzzo, lo scorso agosto lei è stato uno dei protagonisti di un dibattito fra Capezzone, parlamentare rosapugnista, e alcuni esponenti dell’Ordine dei giornalisti. Il parlamentare ha ritirato fuori un vecchio tema caro ai radicali: l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti.
L’Ordine è il riconoscimento giuridico di una professione. E’ un ente pubblico che organizza le professioni. All’interno dell’ordine c’è il consiglio che è il giudice disciplinare e delle iscrizioni, cioè un giudice amministrativo. I radicali vogliono indebolire i giornalisti e adottare il sistema francese. Con tutto il rispetto per la Francia, noi siamo in Italia e la nostra Costituzione ha una norma che i francesi non hanno: l’articolo 33 comma 5, che stabilisce che per svolgere una professione si deve sostenere un esame di stato. Ci vuole comunque qualcuno che lo faccia fare, che si chiami Ordine professionale o in un altro modo. Lo Stato ha però tutto il diritto di riprendersi le deleghe che ha dato agli ordini e di chiuderli, a patto che vengano rimpiazzati da una legge di due o tre articoli in cui si affida l’esame di stato alle università, si stabilisce che l’albo deve essere affisso nel sito internet del ministero della giustizia e che il giudice disciplinare delle professioni intellettuali è la prima sezione civile dei tribunali dei capoluoghi di regione. In alternativa è necessaria una legge dell’ordine che stabilisca le regole deontologiche che il professionista deve seguire. Senza un ordine di appartenenza il professionista diventa un impiegato di redazione e non ha più il segreto professionale da rispettare. Così, quale informatore si fiderà a rivelare le informazioni al giornalista? L’articolo 21 della nostra Costituzione stabilisce la libertà di cronaca, ma questo non vuol dire che essere giornalista ci da il diritto di poter dire tutto quello che vogliamo. La libertà si afferma su due pilastri: dignità della persona e verità sostanziale dei fatti. Si può anche diffamare una persona però il fatto deve essere vero, di interesse pubblico, scritto civilmente e nella sua essenzialità. I nostri padri costituenti hanno disegnato una stampa libera, senza limiti e confini e l’Ordine dei giornalisti realizza questo loro disegno garantendo la deontologia come valore.

Comunque, la maggioranza al governo ha, già detto che nel programma dell’Unione è previsto l’aggiornamento degli Ordini, non la loro abolizione.


Più di una volta lei ha affermato l’importanza di affidare la formazione del giornalista alle università. Allora lei vede di buon occhio le facoltà di giornalismo e scienze della comunicazione?
Il Parlamento ha affidato al ministero dell’università il compito di preparare tutti i professionisti, compresi i giornalisti. Questo principio esiste, va solo attuato.


Ciò nonostante per accedere alla professione è quasi diventato indispensabile frequentare un master o la scuola di giornalismo. La “Carlo De Martino” di via Fabio Filzi è, possiamo dire, il cavallo di battaglia dell’Ordine della Lombardia.
La “De Martino” è la prima scuola di giornalismo italiana realizzata con una delibera del ’74 da questo consiglio dell’Ordine, e che ha cominciato a muovere i primi passi nel ’77. Siamo ora al quindicesimo biennio. Nasce da una collaborazione fra l’Ordine dei giornalisti della Lombardia e la Regione. In 30 anni la Lombardia ha speso per noi 15 miliardi.


Spesso ci si rende conto che gli articoli dei giovani giornalisti mancano di quel “quid” dovuto all’esperienza. La gavetta non è una migliore maestra rispetto alla scuola o ai master?
Questo è un dibattito che va avanti da quasi 80 anni e se ne è occupato anche Gramsci. Nel ‘27 il segretario del sindacato fascista dei giornalisti, Ermanno Amicucci (fu anche direttore del Corriere della Sera) andò, con Bottai (ministro della cultura popolare, il famigerato Minculpop), negli Stati Uniti dove visitò la scuola Pulitzer e se ne innamorò. Con un decreto di un solo articolo, nel ’30 a Roma, partì la scuola professionale di giornalismo e che fu attiva per quattro anni. Bottai, che insegnava a scienze politiche a Perugia, fondò l’indirizzo giornalistico. Chi sceglieva questo indirizzo doveva frequentare la scuola di Roma per sei mesi e poi era dottore in scienze politiche ad indirizzo giornalistico con il diritto di iscriversi nell’albo dei professionisti, allora non esisteva l’esame di stato. In una lettera dal carcere Gramsci dice che è giusto che i giornalisti si formino in una scuola perché devono studiare. Bottai e Amicucci, facevano parte della fronda del partito fascista e furono presto in rotta di collisione con Starace, gerarca ultraortodosso che, spalleggiato dal direttore del “Mattino” di Napoli, fece prevalere il principio secondo il quale i giornalisti non si formano studiando ma nascono “imparati”. A fare le spese della diatriba fra frondisti e ortodossi fu la scuola di Roma che chiuse i battenti dopo appena tre anni.

a cura di Magali Prunai

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