1 maggio 2006

INTERVISTA AL SENATORE GIUSEPPE AYALA

Ex PM antimafia e tra i protagonisti del maxi-processo, ex sottosegretario di Grazia e Giustizia per i Governi Prodi e D’Alema, oggi senatore alla sua quarta legislatura, l’ultima, con i DS. E ancora sesto nella classifica dei senatori compilata da Il Sole24Ore, uomo colto e stimato dalla destra come dalla sinistra, l’onorevole Giuseppe Ayala ha risposto alle nostre domande

Cosa pensa, prima di tutto, della particolare congiuntura politico-istituzionale che si configura adesso: elezione delle camere, elezione del Presidente della repubblica e nuova legge elettorale. Cosa ne verrà fuori?
Innanzi tutto la nuova legge elettorale secondo me è un disastro. Non per il ritorno al proporzionale – sono un sostenitore del maggioritario ma riconosco che non è servito a superare la frammentazione partitica italiana – quanto per la lista bloccata, che consegna la composizione del parlamento alle oligarchie di partito. Non c’è candidato del cittadino: la parte di elettorato indecisa, che si aggira intorno al 30%, sceglie solitamente il candidato in base alle sue personali qualità, ma in questo sistema sempre più de-ideologizzato la lista bloccata reca il simbolo e nessun nome e così allontana il cittadino dalla partecipazione. Il parlamento è prima di tutto costituito da donne e uomini scelti dagli elettori, non da partiti.
Esiste inoltre un problema tecnico: i premi di maggioranza da attribuirsi a base regionale, che per il senato è costituzionalmente vincolata, sono del tutto cabalistici. Non si riuscirà a costituire una maggioranza perché si abbassa l’effetto proporzionale, ma i premi si interdicono a vicenda e chiunque vincerà avrà un senato debole. Questa nuova legge è stata fatta da coloro i quali sapevano dai sondaggi di non vincere per indebolire chi vincerà.
Per quanto riguarda l’eventuale ingorgo istituzionale, Ciampi ha tanto insistito sulla data delle elezioni, che comporta automaticamente la determinazione della data della prima seduta comune delle Camere, proprio per evitare ciò che avvenne nel ’92. La dinamica sarà dunque lineare e ha una sua ratio: Ciampi si dimetterà e le nuove Camere, già legittimate, eleggeranno il nuovo Presidente della Repubblica, che poi nominerà il Governo.

Il 16 dicembre 2004 il Presidente Ciampi ha rinviato un primo disegno di legge-delega legislativa al governo riguardo al riordino dell’ordinamento giudiziario, che è da tempo necessario. Molti i motivi tecnici di tale rinvio, due i motivi sostanziali: usurpazione dei poteri e dell’autonomia dell’ordinamento giudiziario, in particolare del CSM, e inefficacia di alcune delle soluzioni proposte.
Premetto che un intervento normativo sostanziale sull’ordinamento giudiziario è secondo me assolutamente necessario e che per perseguirlo io proporrei una sessione straordinaria di 2 anni che preveda interventi normativi di semplificazione e rinnovamento del codice penale, interventi di migliore organizzazione degli uffici e stanziamento di risorse adeguate.
Alcune tra le obiezioni mosse anche dal CSM al disegno di legge – sono obiezioni che condivido interamente – riguardavano ad esempio la previsione di interventi del Ministro della Giustizia sull’indicazione delle linee di politica criminale per l’anno giudiziario. Come può il Ministro, che non ha alcun potere sugli uffici requirenti, avere tale prerogativa, se non, al più, a livello di parere non vincolante? Un simile sistema sarebbe stato comprensibile nel contesto del vecchio ordinamento del 1941: allora esisteva un potere gerarchico del Ministro della Giustizia sui procuratori, ma poi è stato cassato; allo stesso modo è incostituzionale l’iper-verticizzazione che nel disegno prevedeva un Procuratore della Repubblica al di sopra della Procura generale. Altri anacronistici aspetti del disegno riguardano il meccanismo dei concorsi. Prima di tutto esso si è rivelato inefficace e improduttivo, inoltre, come prima ed evidente obiezione, ci si potrebbe chiedere scherzosamente ma non troppo “tra esaminandi e giudicandi, chi ha tempo di fare le sentenze?”. Certo, l’avanzamento per anzianità è altrettanto eccessivo.

E per quanto riguarda la divisione delle carriere?
Riguardo a questo va rilevato innanzi tutto che in Italia abbiamo un’anomalia: il PM è autonomo e indipendente e conseguentemente ha l’obbligo di azione penale per ogni notitia criminis ricevuta, e tale obbligo costituisce garanzia di non discrezionalità nell’esercizio della sua funzione. Negli U.S.A. e in Francia ad esempio vigono sistemi differenti, che vedono una soggezione del PM alla gerarchia politico-governativa e un differente espletamento della funzione di PM. Poiché in Italia stanno così le cose, è fondamentale per una cultura della giurisdizione meno poliziesca che il magistrato acquisisca esperienza e senso del giudizio come giudice per poi ricoprire adeguatamente il ruolo di PM. Nella mia esperienza personale ho ricoperto la carica di Pretore, giudice unico presente in ogni capoluogo di provincia a cui era affidata l'amministrazione della giustizia in materia civile e penale, ossia rispettivamente il ruolo di PM e giudice. Questa esperienza mi ha permesso di operare al meglio come PM, mi ha reso cosciente di ciò che poteva concedere un tribunale e delle richieste che avrei potuto fare, poiché avevo svolto anche il mestiere di giudice. Al maxi-processo, dunque, oltre alle condanne, ho richiesto numerose assoluzioni, perché consapevole delle accuse poco reggibili, della difficoltà o addirittura impossibilità del tribunale di concedere la condanna con prove insufficienti. Proprio questa consapevolezza mi ha permesso di rafforzare le condanne e ottenere dal tribunale tutte quelle richieste. In mancanza di una simile esperienza le persone vengono spesso fatalmente condizionate dalla Polizia Giudiziaria.
Il ripristino dei concorsi e la separazione – poiché di separazione di fatto si tratta – delle carriere sono gravissimi errori strutturali.

Cosa pensa degli appelli mediatici del Presidente del Consiglio “perseguitato” dai magistrati?
Non ho mai creduto in simili affermazioni. L’unica cosa obbiettivamente evitabile sarebbe stato l’avviso di garanzia consegnato a Berlusconi al G8 nel 1994, un’azione priva di ratio alcuna. Aggiungerei anche la custodia cautelare durante “mani pulite”. Ma a parte questo non vedo persecuzione giudiziaria. La situazione di Berlusconi dipende dal suo essere al contempo uno spregiudicato e abile imprenditore e il Presidente del consiglio.

Si potrebbe aprire un lungo dibattito sul conflitto d’interesse…
Infatti… qui mi limito a dire che Berlusconi non è nato Presidente del Consiglio e che ha sfruttato la sua abilità mediatica da vittima.

La fiducia dei cittadini nell’amministrazione della giustizia è in calo. Di certo queste battaglie mediatiche contribuiscono alla situazione, ma ci sono altri motivi?
Certo, uno in particolare. Alle fasce di popolazione attente è noto che la parte giudicante funziona bene. Capita qualche sentenza meno adeguata, ma in genere la risposta dei giudici è seria e affidabile. La mancanza di fiducia dipende invece dalla lentezza della giustizia. E’ una grave inefficienza dell’organizzazione giudiziaria che è percepibile solo dagli addetti ai lavori - non dal cittadino che purtroppo ne vive gli effetti negativi - ma che paralizza anche la parte che funziona e senza colpa dei giudici comporta un loro calo d’immagine.

La ragionevole durata è un parametro di giusto processo che è stato inserito anche nella nostra Costituzione. Si è letto spesso che la Corte di giustizia dell’Unione Europea riceve ogni anno numerosissimi ricorsi per ingiusta durata dei processi in Italia.
Posso riferire quello che mi è stato detto dai giudici della Corte stessa l’ultima volta che li ho incontrati: “senza i ricorsi per tempi brevi provenienti dall’Italia saremmo sempre in vacanza”. Questo per dare un’idea della gravità della situazione. Purtroppo così anche i contenuti delle nostre sentenze, di cui è riconosciuta l’alta qualità anche nel panorama europeo e dalla Corte di giustizia, vengono sviliti. Cinque anni fa si credeva ancora nella magistratura. E’ un problema politico, perché può essere risolto solo con una sostanziale riforma di riorganizzazione degli uffici e, lo ripeto, dallo stanziamento di risorse adeguate. Ci sono uffici paralizzati addirittura dall’inadeguatezza o mancanza di mezzi come fotocopiatrici e fax…
Per tornare al discorso sulla fiducia, comunque, bisogna ammettere anche la responsabilità di taluni personaggi che fanno parte dell’ordine giudiziario. Ha fatto bene Nicola Marvulli (Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, ndR), all’apertura dell’anno giudiziario, ad ammonire contro il protagonismo e la strumentalizzazione mediatica operata da pochi magistrati che così facendo danneggiano l’immagine di correttezza di tutto l’ordine.

Nella sua esperienza si annovera anche il ruolo di PM antimafia durante uno dei periodi più bui della storia italiana. Cosa è cambiato dopo il maxi-processo? Cosa Nostra non spara da 13 anni: la mafia è sconfitta o ancora più sottile?
Il maxi-processo iniziato a Palermo il 10 febbraio del 1986 ha coinvolto 475 imputati e ha rappresentato l’acmè della lotta alla mafia. Prima e soprattutto è consistito nella verifica giudiziaria di cosa fosse la mafia. Ancora oggi quando si cerca di definire questo complesso fenomeno si ricorre ai verbali del maxi-processo.
Del ’93 la Mafia si è inabissata. Senza omicidi è calata la visibilità del problema, è noto che i riflettori si accendono in casi di particolare violenza e prima del maxi-processo l’allarme sociale per omicidi e guerre di mafia era davvero alto. Certo, è positivo che negli ultimi 13 anni cose simili non si siano più ripetute, ma anche adesso, mentre parliamo, quantità di denaro e partite di droga vengono scambiate e quindi la mafia c’è ancora, ma non è visibile. La sensibilità e l’impegno, dunque, si sono rarefatti, ma non si tratta propriamente di un disegno politico. L’amara idea di fondo è che pressioni e reazioni sono direttamente proporzionali e che, purtroppo, l’agenda dell’antimafia la fa la mafia.
Certo, la mafia non può non avere rapporti con la politica, sia al momento delle elezioni che nel corso delle legislature, ma non si deve generalizzare: non tutti i politici sono collusi, non interi partiti. Dire che “tutto è mafia” è pericoloso, perché è come dire che “niente è mafia”: non si risolve il problema, che non è solo giudiziario ma soprattutto politico. Di certo la mafia non ha interesse ad andare all’opposizione e la politica finisce per esserne sottilmente e diffusamente condizionata. La mia convinzione personale è che la mafia si combatte in Sicilia ma la battaglia si vince a Roma.

a cura di Maria Beatrice Vanni

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