Primo sangue è un confronto a due voci. Da una parte la ricostruzione di una vicenda giudiziaria mai completamente risolta, dall'altra un'intima storia familiare. La prima voce è costituita dall'autore del libro, Aldo Pecora, giovane fondatore del movimento antimafie “Ammazzateci tutti”, che ripercorre con scrupolosità documentaria la vicenda del giudice Antonino Scopelliti, assassinato il 9 agosto 1991 in un agguato a Campo Calabro.
Il controcanto è offerto dalla stessa figlia del giudice, Rosanna, che offre la sua testimonianza diretta attraverso i brevi corsivi che aprono ogni capitolo del libro: uno spaccato intimo e familiare che si aggiunge alla ricostruzione istituzionale e sistematica delle vicende. Brani brevi dalla forte connotazione emotiva, che non interrompono la narrazione, ma offrono un punto di vista altro, “privato”.
I capitoli, brevi e scorrevoli, mettono a fuoco aspetti diversi della vicenda. Si alternano sezioni in cui prevale il tono narrativo, l'atmosfera, come “Cronaca di una morte annunciata”, ed altre più informative, ma sempre divulgative e di facile lettura, come quelle in cui viene descritto il processo, contenenti anche documenti informativi come stralci di articoli o estratti di verbali.
L'eterogeneità della struttura del libro rende difficile la sua classificazione come genere letterario. Si inserisce in quel filone di romanzo d'inchiesta con una forte connotazione letteraria, un reportage narrativo sempre in bilico tra informazione e narrazione, un genere ibrido che garantisce una scorrevolezza da romanzo, benché la materia trattata sia tutto tranne che fiction.
Resteranno delusi i paladini del giornalismo anglosassone alla vecchia maniera: freddo, essenziale, privo di giudizi. Si tratta di una ricostruzione partigiana nel senso buono del termine. L'autore prende posizione, vive la vicenda, tradisce una sincera e indiscutibile ammirazione per la figura del giudice Scopelliti, che a tratti chiama familiarmente “Nino”.
Il punto di vista “coinvolto” permette una resa efficace degli spaccati di vita calabrese attraverso le numerose descrizioni paesistiche, volutamente accentuate per rendere la temperatura e l'umore del luogo. Altrettanto eloquenti alcuni brani dal tono quasi grottesco: l'incredibile impatto mediatico di un Totò Riina che si autoproclama un perseguitato o il dialogo-intervista con il sindaco di Campo Calabro Domenico Idone, che glissa sulle domande a proposito del giudice e vuole a tutti i costi parlare del ponte sullo stretto.
E' uno sguardo severo quello che Aldo Pecora ha nei confronti della sua Calabria, terra in cui “è difficile distinguere un dovere e un diritto da un favore” e in cui “la società civile non sa neanche di esistere”. Infatti il sindaco Idone liquida così le sue domande più scomode, dicendo che fa “cattiva pubblicità alla Calabria”, secondo la logica per cui il colpevole non è chi commette il fatto, ma chi ne parla.
Tra interviste, ricostruzioni e squarci narrativi la struttura di Primo sangue è quella di un mosaico costituito da frammenti di vita privata ed istituzionale.
E' la storia di un lutto non ancora elaborato, più che dalla famiglia stessa, dalla terra calabrese, che tende a liquidare la vicenda con la stessa formula, ripetuta in maniera quasi rituale dalle voci di Campo Calabro: “Era una brava persona...faceva del bene a tutti”. Una frase che, nella sua asettica semplicità, riduce il martire a icona, lo santifica e lo rende innocuo allo stesso tempo, lo “seppellisce come un vescovo”, come si dice da quelle parti. Si fanno i funerali con tutti gli onori e a messa finita si va in pace.
Magari si può fare una bella scultura bronzea, come quella ordinata dal sindaco Idone “allo stesso che ha fatto i bronzi di Falcone e Borsellino”.
“Ci si limita al ricordo, alla favola melensa del giudice eroe, morto perché era troppo giusto e onesto. Nessuno osa spingersi oltre”, scrive Pecora.
Emerge quindi chiaro lo scopo del libro, uno scopo pratico, militante: sottrarre la figura del giudice alla santificazione e riaprire la vicenda per indagare quelle zone d'ombra che ancora oggi, a distanza di vent'anni, non permettono di considerare l'affaire Scopelliti un caso chiuso. Tornare ad esplorare la via indicata vent'anni prima da Falcone, quella del patto tra mafia e 'ndrangheta: riaprire il versante calabrese, non sufficientemente battuto all'epoca del processo. Soltanto a questo punto il lutto potrà essere veramente elaborato.
Laura Carli
Il controcanto è offerto dalla stessa figlia del giudice, Rosanna, che offre la sua testimonianza diretta attraverso i brevi corsivi che aprono ogni capitolo del libro: uno spaccato intimo e familiare che si aggiunge alla ricostruzione istituzionale e sistematica delle vicende. Brani brevi dalla forte connotazione emotiva, che non interrompono la narrazione, ma offrono un punto di vista altro, “privato”.
I capitoli, brevi e scorrevoli, mettono a fuoco aspetti diversi della vicenda. Si alternano sezioni in cui prevale il tono narrativo, l'atmosfera, come “Cronaca di una morte annunciata”, ed altre più informative, ma sempre divulgative e di facile lettura, come quelle in cui viene descritto il processo, contenenti anche documenti informativi come stralci di articoli o estratti di verbali.
L'eterogeneità della struttura del libro rende difficile la sua classificazione come genere letterario. Si inserisce in quel filone di romanzo d'inchiesta con una forte connotazione letteraria, un reportage narrativo sempre in bilico tra informazione e narrazione, un genere ibrido che garantisce una scorrevolezza da romanzo, benché la materia trattata sia tutto tranne che fiction.
Resteranno delusi i paladini del giornalismo anglosassone alla vecchia maniera: freddo, essenziale, privo di giudizi. Si tratta di una ricostruzione partigiana nel senso buono del termine. L'autore prende posizione, vive la vicenda, tradisce una sincera e indiscutibile ammirazione per la figura del giudice Scopelliti, che a tratti chiama familiarmente “Nino”.
Il punto di vista “coinvolto” permette una resa efficace degli spaccati di vita calabrese attraverso le numerose descrizioni paesistiche, volutamente accentuate per rendere la temperatura e l'umore del luogo. Altrettanto eloquenti alcuni brani dal tono quasi grottesco: l'incredibile impatto mediatico di un Totò Riina che si autoproclama un perseguitato o il dialogo-intervista con il sindaco di Campo Calabro Domenico Idone, che glissa sulle domande a proposito del giudice e vuole a tutti i costi parlare del ponte sullo stretto.
E' uno sguardo severo quello che Aldo Pecora ha nei confronti della sua Calabria, terra in cui “è difficile distinguere un dovere e un diritto da un favore” e in cui “la società civile non sa neanche di esistere”. Infatti il sindaco Idone liquida così le sue domande più scomode, dicendo che fa “cattiva pubblicità alla Calabria”, secondo la logica per cui il colpevole non è chi commette il fatto, ma chi ne parla.
Tra interviste, ricostruzioni e squarci narrativi la struttura di Primo sangue è quella di un mosaico costituito da frammenti di vita privata ed istituzionale.
E' la storia di un lutto non ancora elaborato, più che dalla famiglia stessa, dalla terra calabrese, che tende a liquidare la vicenda con la stessa formula, ripetuta in maniera quasi rituale dalle voci di Campo Calabro: “Era una brava persona...faceva del bene a tutti”. Una frase che, nella sua asettica semplicità, riduce il martire a icona, lo santifica e lo rende innocuo allo stesso tempo, lo “seppellisce come un vescovo”, come si dice da quelle parti. Si fanno i funerali con tutti gli onori e a messa finita si va in pace.
Magari si può fare una bella scultura bronzea, come quella ordinata dal sindaco Idone “allo stesso che ha fatto i bronzi di Falcone e Borsellino”.
“Ci si limita al ricordo, alla favola melensa del giudice eroe, morto perché era troppo giusto e onesto. Nessuno osa spingersi oltre”, scrive Pecora.
Emerge quindi chiaro lo scopo del libro, uno scopo pratico, militante: sottrarre la figura del giudice alla santificazione e riaprire la vicenda per indagare quelle zone d'ombra che ancora oggi, a distanza di vent'anni, non permettono di considerare l'affaire Scopelliti un caso chiuso. Tornare ad esplorare la via indicata vent'anni prima da Falcone, quella del patto tra mafia e 'ndrangheta: riaprire il versante calabrese, non sufficientemente battuto all'epoca del processo. Soltanto a questo punto il lutto potrà essere veramente elaborato.
Laura Carli
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