5 novembre 2005

INTERVISTA A GAD LERNER

Quando raggiungiamo la redazione de “L’infedele”, un meraviglioso sole splende su Milano. C’è una piacevolissima illusione di primavera nell’aria. Gad Lerner, con un enorme sorriso, ci accoglie nel suo studio. Dopo averci fatto accomodare attorno alla sua scrivania, si mette a nostra completa disposizione, pronto a raccontarsi. E, come accade da anni nelle sue trasmissioni, riesce anche con noi a mettere in movimento i nostri cervelli e a farci tornare a casa con numerosi argomenti su cui riflettere e meditare.

Ci parli degli inizi della sua carriera e in particolare dell’esperienza in Lotta Continua.
Vi posso dire innanzitutto che ho frequentato moltissimo le aule di Festa del Perdono, ma ahimè non da studente. Mi sono iscritto a lettere con indirizzo classico, nel ‘73 quando ho finito il liceo al Berchet. Poi però Adriano Sofri mi “precettò” chiedendomi di andare a Roma a seguire quella che si chiamava “commissione nazionale scuola” e temo di aver dato in tutto sei esami! Non mi sono mai laureato,e quindi, non seguite il mio esempio! Ma certamente l’esperienza - prima di movimento poi anche di redazione - nel quotidiano di Lotta Continua è rimasta per me qualche cosa che mi ha dato più di quanto non mi abbia tolto. Mi ha etichettato, per cui ancora adesso a vengo visto come “un ex di Lotta Continua”. Ma gli serbo della gratitudine. Il quotidiano di Lotta Continua ha avuto un ruolo fondamentale di insegnamento per due ragioni: la prima è che ci imponeva di concepire il giornale come strumento della trasformazione della realtà, e non come mera professione; e poi perché, essendosi l’organizzazione di Lotta Continua sciolta molto presto, noi che facevamo il giornale ci siamo trovati liberi da vincoli di disciplina di partito. Avevamo realizzato molte innovazioni sia nella grafica che nella scelta degli argomenti, nell’introduzione in un giornale politico di tematiche invece più legate alla sessualità, alla crisi esistenziale del mondo giovanile. E’ stata una grande lezione professionale. Se io sono diventato un giornalista fortunato lo devo anche a quelle innovazioni di linguaggio che ho appreso in quella scuola.
Ma voglio fare un altro cenno alla Statale. Mi infastidiva già a quei tempi dentro all’università il prevalere di un’impostazione dogmatico ideologica nei gruppi dirigenti di quel movimento studentesco, che erano inevitabilmente i figli dell’alta borghesia milanese. Il movimento si dichiarava Marxista – leninista ed esaltava personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse Tung che davvero stridevano con la realtà italiana. Quando andavi a cercare un rapporto con gli oppressi, gli sfruttati, i senza casa, quell’ideologia risultava già un ferro vecchio. Mancava negli studenti uno spirito critico. In realtà sembrava veramente che si scimmiottassero le guardie rosse cinesi, salvo poi la sera tornare in belle case confortevoli.


Com’è proseguita poi la sua carriera terminata l’esperienza di Lotta Continua?
Il mio ingresso nel giornalismo “non militante” fu sofferto. Noi avevamo condotto negli ultimi anni (’77-’79) una battaglia strenua dentro al movimento contro la degenerazione violenta e terroristica degli autonomi e del partito armato del terrorismo di sinistra, delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Quei metodi armati per i quali le persone venivano trasformate in simboli e la vita umana veniva considerata un valore irrilevante e poteva essere cancellata o ferita, erano qualcosa che ci sembrava tradire profondamente le ragioni per le quali c’eravamo impegnati. Ero stanco di quella battaglia dentro al giornale, con il giornale. Quindi nel ’79 “diedi le dimissioni”, per così dire, e feci una certa fatica a passare al cosiddetto “giornalismo borghese”. Mi sembrò quasi un tradimento l’idea che il giornalismo potesse essere trasformato in un mestiere. Andai prima in un giornale di Genova che si chiamava Il Lavoro. Poi ho fatto Radio Popolare, ho scritto anche un po’ sul Manifesto, Dopo sono stato all’Espresso per parecchi anni. Intrapresi questo mestiere senza mai dimenticare da dove avevo cominciato, mantenendo lo stesso atteggiamento critico. L’etichetta del “ragazzo di Lotta Continua” e del giornalista non del tutto affidabile per l’establishment mi è rimasta appiccicata con anche degli evidenti svantaggi. Ho pure conosciuto e frequentato il potere. Non faccio il furbo che finge di essere rimasto fuori dai suoi meccanismi. E lo frequento tutt’ora, ma con un piede dentro e uno fuori.


Come si fa a entrare nella professione giornalistica rimanendo sempre coerenti con se stessi, e senza dover per forza scrivere ciò che vuole il padrone?
Credo che il rimanere coerenti sia un vantaggio, e solo in apparenza ti fa pagare dei prezzi. Vale per tutti i mestieri. Serve una forte passione, una vocazione, alcuni temi che ti appassionano a prescindere dalla busta paga e del percorso professionale, cose su cui pensi valga la pena spendere una vita intera: ecco, se tu entri nel mestiere del giornalista con una vocazione di questo tipo hai una marcia in più. Non c’è niente di peggio che restare indifferenti e piegarsi alla volontà del direttore. Diventi semplicemente uno che si fermerà ai gradini bassi della carriera, un esecutore.


Sempre a proposito della professione. Lei pensa che la maggior specializzazione dei giornalisti sia positivo?
E’ una risposta complessa. Da un lato c’è il sistema italiano, in particolare il sistema delle professioni in Italia che è scandaloso. Ci sono corporazioni chiuse, compresa quella giornalistica che ha un albo che secondo me andrebbe abolito, perché serve solo a difendere chi c’è già dentro da chi vorrebbe entrarci, (ma lo scandalo è ancora più grande tra i notai, tra gli architetti, gli ingegneri, gli avvocati). C’è proprio un sistema illiberale che peggiora la qualità di tutti questi servizi, li invecchia, toglie spirito di concorrenza e quindi di innovazione. Ed è un ostacolo anche alla competizione internazionale. Per quanto riguarda in particolare i giornalisti, non c’è dubbio che per crearsi dell’offerta ci voglia specializzazione. Che ad esempio per fare bene il giornalista economico bisogna saper leggere i bilanci Ma non basta. Serve anche che quel giornalista possa sentirsi libero di denunciare i vizi del capitalismo italiano senza che questo gli appaia impossibile, perché le proprietà dei giornali sono di quelle stesse persone di cui lui deve denunciare i vizi. Noi viviamo un continuo conflitto d’interessi. Secondo me la passione viene prima della specializzazione. Quindi non pretendo affatto di indicare il mio percorso come esemplare, l’ho definito io stesso come molto fortunato. Però credo che quel rischio sia qualcosa per cui valga la pena di vivere. E’ l’impostazione critica che bisogna conservare, il grande strumento che abbiamo.


Crede ancora nella politica?
Sì. Voi avete la sfortuna di affacciarvi in un tempo di guerra. Questa è una circostanza che richiede saggezza. Ci si deve domandare: come si sta in un tempo di guerra? come ci si comporta in questioni fondamentali come il regolare i flussi migratori, la difesa, la prevenzione della minaccia terroristica? come facciamo ad impedire che questo tempo di guerra si traduca anche in un tempo di povertà e di precarietà? Tutto questo impone nuova politica. E la necessità di ripensare completamente le nostre categorie di interpretazione della realtà. Quelle che adoperavamo noi sono ferri vecchi. O si fa questo passo di fantasia, oppure l’illusione di resistere facendoci gli affari nostri e chiudendoci semplicemente nella difesa della nostra quotidianità, verrà spazzata via.


Secondo lei la democrazia è esportabile, come vorrebbero gli USA? Non corre il rischio, questa parola, di ridursi a una scatola vuota?
Certamente, come tutte le parole, anche il termine “democrazia” corre questo rischio. Però noi europei abbiamo una storia che fa sì che noi possiamo riempire di significato sia la parola pace, che la parola democrazia. In maniera diversa dagli americani. Lo dico con grande rispetto per l’America, che è un paese democratico, ma che è un paese che con la guerra ha avuto un rapporto molto diverso da quello che ha avuto l’Europa. Non ha conosciuto la guerra “in casa”, non ha conosciuto le macerie. L’Europa sì. Questo induce talvolta gli americani a guardarci con disprezzo, dicendo che l’Europa è invecchiata e non ha più il coraggio di combattere per difendere i valori fondamentali della democrazia. Invece io credo che sia saggezza e non viltà trarre insegnamento dalla memoria della catastrofe che ci accaduta. Sapere che la guerra ci può sfuggire di mano. Che non è vero che la si possa lanciare e poi governare pensando di poterne poi controllare gli esiti. E lo stesso discorso vale per la democrazia. Credo che ci sia una bella differenza rispetto al sano contagio democratico che si è verificato sul territorio europeo e culminato con l’allargamento ad est dell’Unione, per cui paesi che non erano democratici oggi lo sono diventati pacificamente. Ma anche la Palestina: io credo che la vicinanza di uno stato democratico come Israele, con le cui politiche si può fortemente dissentire - ma che resta uno stato democratico - abbia esercitato un influsso positivo sulla Palestina. E le elezioni che si sono appena svolte lo dimostrano. Dubito invece fortemente che la democrazia si possa esportare con le armi.


A proposito di Israele. Nota, da parte di certa sinistra estrema, un certo antiebraismo?
Sicuramente c’è una crisi di rapporti tra il mondo ebraico e la sinistra che è particolarmente dolorosa. Dentro alle tragedie del 900 la sinistra si è battuta contro l’antisemitismo e ha affermato sempre una concezione laica dello stato, in cui gli ebrei potessero sentirsi a casa loro con i cittadini non ebrei. Oggi invece c’è qualcosa di più che non la critica diffusa alle politiche dei governi israeliani. Si fa fatica a comprendere il perché debba esistere uno Stato ebraico. Si fa fatica a definire che cosa sia l’ebraismo. Come fatto culturale c’è il mistero delle identità: sentirsi cittadini di un luogo ma contemporaneamente con un forte legame con un altro luogo. Pensate alla mia esperienza personale: io sono nato a Beirut da genitori che erano nati in Palestina prima che si chiamasse Israele e ho gran parte della famiglia che vive in Israele. In un certo senso potrei dire che sono cittadino della sponda nord e della sponda sud del Mediterraneo allo stesso tempo. Questo io lo vivo come una ricchezza, ma per altri può essere un’ambiguità. Ma siccome queste ambiguità è dentro a ciascuno di noi, sarebbe bene imparare tutti a viverle come una ricchezza e non pretendere dagli altri una sorta di disciplina, per cui se tu sei di sinistra non devi voler bene a Israele, e se tu sei di sinistra e ebreo sei sospetto, perché c’è il sospetto che in cuor tuo tu voglia bene più a Israele che alla sinistra.

a cura di Chiara Asta e Beniamino Musto

1 commento:

  1. INTERVISTA CON GAD LERNER

    di LAURA TUSSI

    Come colloca la Sua storia di formazione rispetto al personale impegno politico e culturale?

    La mia storia personale ha una particolarità biografica e geografica nel senso che sono contemporaneamente cittadino delle due sponde del mediterraneo, perché sono nato a Beirut, quindi sulla sponda sud di questo mare, con i miei genitori e nonni di parte materna nati in Palestina, prima della nascita dello Stato di Israele e ho nello Stato di Israele buona parte della mia famiglia e quindi ho esperienze e sensibilità legate alla vicenda dei conflitti del mar mediterraneo e contemporaneamente una felice integrazione in Italia, con tutti i miei studi e tutte le mie attività pubbliche che si sono svolte nel corso della mia vita. Cerco sempre di tener presente le due sponde del mediterraneo e la necessità di farle convivere come elemento essenziale anche della mia attività. L’approdo al mestiere del giornalista è stato di tipo particolare perché è avvenuto innanzitutto per una scelta di militanza. Quindi sono attualmente assai grato al quotidiano di Lotta Continua perché mi ha consentito un’idea della professione giornalistica non intesa semplicemente come una carriera, ma come uno strumento di trasformazione della realtà con finalità etica. Inoltre per le particolari circostanze per cui ho lavorato nel quotidiano di Lotta Continua dopo che si era sciolta l’organizzazione, ossia il movimento, non avendo quindi dovuto subire discipline di partito, in quanto non eravamo l’organo di una forza politica, questo ci ha consentito notevole libertà di ricerca, permettendoci di sviluppare un atteggiamento antidogmatico e creativo anche nell’innovazione dei linguaggi e delle forme giornalistiche. In seguito, mi è capitata la fortuna di attraversare diversi media dai quotidiani, ai settimanali, dalla radio, alla televisione, dalle trasmissioni di approfondimento giornalistico, al telegiornale, e questo è stato evidentemente un arricchimento delle mie esperienze, in cui però ho sempre cercato di mantenere quelle impostazioni e quelle sensibilità provenienti dalla mia storia.

    Come può il centro sinistra far fronte alle nuove ed incombenti sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?

    Il nodo più difficile da sciogliere perché rischia di essere impopolare in un Paese benestante quale continua ad essere l’Italia, nonostante il suo declino e le evidenti debolezze di competitività, è il fatto di essere una nazione che ha ancora una base di ricchezza diffusa importante che magari si consuma lentamente, ma consente livelli e stili di vita che naturalmente la gente con ragione vuole difendere e nonostante questa situazione noi sappiamo che il problema della stabilità, della pace e della giustizia sociale nel mondo, passa attraverso un riequilibrio delle risorse. E’ molto difficile proporlo come asse centrale della propria azione, perché sembrerebbe imporre delle rinunce a vantaggio dei più deboli e dei più poveri. Non si può fare politica chiedendo semplicemente alla gente di rinunciare a ciò che ha; e dunque si tratta invece di trasformare la situazione e affermare una centralità di questi valori di giustizia, di coesistenza e di solidarietà, come anche gli unici vantaggiosi davvero, in quanto sono gli unici che possono garantire a noi stessi e soprattutto ai nostri figli un futuro di pace, perché oggi la nuova dimensione in cui siamo costretti purtroppo ad agire è quella di un tempo di guerra prolungato. La percezione diffusa innanzitutto tra gli Americani, ma sempre più tra gli Europei, è che l’illusione che abbiamo vissuto nel mondo ricco di un lunghissimo periodo di pace e di crescita è un sogno che si è infranto. Quindi noi dobbiamo contemporaneamente fare tesoro della memoria delle tragedie vissute e in particolare in Europa e il fatto di esserne gli eredi e i testimoni. Quindi occorre la centralità di questa memoria e dei valori, immaginando una trasformazione della vita quotidiana che dia speranza e che alimenti l’ottimismo, il senso di comunità, dando una risposta ad un bisogno di compagnia contro la solitudine che contraddistingue sempre più la dimensione metropolitana. Ci siamo a lungo illusi di poter ignorare le guerre periferiche, cosiddette lontane, ma ormai è evidente a tutti che l’instabilità, la miseria e la guerra delle zone apparentemente “lontane” ha conseguenze dirette anche sulla nostra vita e minaccia i nostri sistemi. Quindi non esiste una guerra che si possa tenere “lontana” o un conflitto che si possa ignorare come se non ci riguardasse.

    Le ultime guerre in medio oriente fanno intravedere diverse tipologie di dittatura capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?

    L’America non è una dittatura, ma una grande democrazia e che tale resti e che senza la forza dell’America e senza un rapporto positivo che non si consideri indipendente dai problemi di un governo mondiale, andiamo tutti incontro al disastro. Immaginare il futuro semplicemente come una rottura con gli Stati Uniti significa immaginare guerra e povertà per tutti noi. Al contrario non abbiamo altra scelta che puntare sulla crescita delle società civili anche in quei paesi che non hanno avuto fino ad oggi un’esperienza democratica, ma che hanno dentro alle loro società delle forme di vitalità che facciamo fatica a riconoscere. Quindi a partire da Paesi con i quali abbiamo avuto un incontro, una contaminazione nata dall’esperienza ambigua del colonialismo, si può puntare sulla ricerca di interlocutori nelle donne, nei ceti intellettuali e puntare su questi protagonisti come nostri alleati, sia in una prospettiva di crescita economica senza cui non è pensabile nemmeno che si affermino dei modelli democratici, sia appunto una politica intransigente nella difesa dei diritti civili e nella lotta contro gli integralismi.

    La Shoah ha precipitato l’umanità verso un abietto declino. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio, stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno del tessuto sociale? Esistono strategie politiche certe e determinate da parte dei partiti progressisti per far fronte a queste terribili evenienze?

    Nella nostra capacità di restare sensibili al rischio del pericolo del ripetersi di genocidi e di guerre etniche conta in maniera decisiva la trasmissione di memoria e anche il senso di colpa che si è evidenziato in Europa all’indomani dello sterminio degli Ebrei che non è stato l’unico genocidio del 1900. Occorre ricordare come già quel senso di colpa nell’immediato dopoguerra abbia sollecitato i superstiti e le nuove classi dirigenti a correre ai ripari, attraverso lo strumento del diritto internazionale fondamentalmente, quindi costruendo all’interno del vecchio continente nuove istituzioni di coesistenza e di integrazione sia economica che politica, fino a questo modello del tutto inedito e prezioso dell’Unione Europea che oggi si è allargata anche a Est dopo la fine della guerra fredda, realizzando il primo esperimento riuscito di esportazione pacifica della democrazia e sia anche sul livello del governo globale. Non è un caso che dalla cultura europea dopo la seconda guerra mondiale sia nata la proposta che poi ha trovato le sue tesi fondamentali nell’appropriazione della carta dei Diritti Universali dell’Uomo e che lì si sia assegnato un ruolo di governance mondiale per quanto imperfetto e precario alle Nazioni Unite e al loro Consiglio di Sicurezza. Sono convinto che senza una dimensione di diritto internazionale di questa natura il mondo precipita di nuovo nello squilibrio, nel disordine mondiale e che questa instabilità deve essere risolta. Quando si parla di equilibrio multipolare e diciamo all’attuale governo degli Stati Uniti che non può pensare di affrontare unilateralmente un progetto di governo e supremazia del mondo, intendiamo proprio questo, che per quanto sgangherata sia l’Istituzione delle Nazioni Unite, per quanto sia percossa da scandali, per quanto pesino al suo interno le dittature, i regimi totalitari, non si può fare nessun passo senza le Nazioni Unite.

    Quanto la Shoah è figlia del Cristianesimo?

    Questo tema è stato affrontato coraggiosamente, con reticenza, ma anche con aperture coraggiose dalle stesse conferenze episcopali dei diversi paesi europei che hanno dovuto rintracciare un filo di continuità fra secoli e secoli di discriminazioni e disprezzo nei confronti degli Ebrei e di affermazione di dottrine antigiudaiche che nascevano dalla fatica a riconoscere il perché della persistenza di una presenza ebraica dopo l’avvento di Gesù. Tutto questo ha creato il terreno dell’ostilità e del pregiudizio su cui poi ha potuto innestarsi così efficacemente un’ideologia che indubbiamente è anticristiana e pagana come quella del nazionalsocialismo. L’idea della soluzione finale e la pratica dello sterminio sono indubbiamente anticristiane e pagane, ma si sono alimentate anche di queste culture secolari.
    Laura Tussi

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