25 novembre 2005

INTERVISTA A MARCO TRAVAGLIO


Vulcano in questo numero è andato a trovare Marco Travaglio, giornalista indipendente, e già collaboratore di Indro Montanelli, al “Giornale”, e poi alla “Voce” indimenticata icona del giornalismo italiano.Attualmente collabora con il gruppo l’Espresso (cura una rubrica quotidiana su Repubblica.it, “Carta Canta”) con “Micromega” e “l’Unità”, dove ha una rubrica quotidiana: “Bananas”; un gruppo di suoi amici hanno aperto un sito non autorizzato che raccoglie molti scritti e interviste, www.marcotravaglio.it Il suo esordio come saggista risale al 1994 con un libro “Lo Stupidario del Calcio” presentato dallo stesso Montanelli. La sua carriera giornalistica si concentra presto sui rapporti tra il potere e la malavita. Il suo libro del 2001 sull’origine del patrimonio di Silvio Berlusconi “L’odore dei soldi” è una vera bomba ad orologeria, che si attiva quando viene presentato da Daniele Luttazzi nel corso del programma televisivo “Satyricon”. La prima conseguenza è la cancellazione del programma e l’epurazione del noto attore di satira dalla televisione (ribadita da Berlusconi nel cosiddetto diktat Bulgaro), ma il Cavaliere non si accontenta, e, furente, denuncia sia Travaglio che Luttazzi chiedendo loro un risarcimento di 20 miliardi di Lire, ma recentemente ha perso la causa ed è stato condannato a pagare quasi 100 mila Euro di spese processuali ai legali dei denunciati. Il libro, che fa scandalo perché avvicina in maniera netta e imbarazzante Forza Italia a “Cosa Nostra” fa presto conoscere a tutti il valore e l’importanza di giornalisti come Marco Travaglio.



V- Signor Travaglio, che porzione di mercato occupa il giornalismo indipendente, nel nostro paese?


MT- Mah, una fetta piuttosto limitata, direi. Tuttavia dobbiamo scindere la televisione dalla carta stampata. In TV penso di non sbagliare se dico che i giornalisti indipendenti si contano sulle dita di una mano. Sui giornali o su internet, abbiamo invece una situazione molto differente; ci sono colleghi molto validi, che fanno dell’indipendenza una condizione imprescindibile per esercitare la professione.

V- Quali prospettiva ha un giovane che voglia diventare giornalista?

MT- Senza voler scoraggiare nessuno, dico che oltre ad essere difficile è un percorso in cui piegare la schiena e adeguarsi al potente di turno è determinante per fare carriera. In generale per essere giornalisti, nella più pura accezione del termine, bisogna esercitare sempre lo spirito critico. Ed è proprio per questa ragione che non possono esistere giornalisti governativi. Il giornalista deve sempre fare opposizione.

V- Lei ha lavorato a fianco di Indro Montanelli, qual è l’insegnamento più prezioso che le ha lasciato?

MT- Ne ho sempre in mente non uno ma due. Il primo è quello di scrivere considerando che l’unico vero padrone del giornalista è il pubblico cui sono rivolti gli articoli. Questo è importante perché permette di mettersi nell’ottica di chi legge, evitando così di scrivere per compiacere qualcuno in particolare. Il messaggio deve inoltre essere semplice, e, laddove è possibile si deve usare l’ironia, una delle armi più preziose che abbiamo. Il secondo e forse il più importante, Montanelli me lo ha ripetuto più volte: con chi ha il potere, il giornalista non deve mangiarci mai nemmeno una pastasciutta, per mantenersi il più imparziale possibile e per non mettere a repentaglio lo spirito critico.

V- Lei è noto per non mandare a dire le cose, così, a freddo, la corruzione esiste anche a sinistra?

MT- Esiste. Certamente in misura minore. Purtroppo oggi la politica consta di un mondo in cui la collusione e il clientelismo sono alla base dei rapporti tra le persone. Vedo nella sinistra un meno peggio, non un meglio.

V- Come giudica la nomina di Pietro Grasso come Procuratore Generale Antimafia?

MT- Come giudicarla? Innanzitutto governativa. Il concorso con cui è stata affidata la carica è stato pesantemente influenzato da leggi contra personam nei confronti di Gian Carlo Caselli, l’altro candidato. Stava alla dignità personale di Pietro Grasso rifiutare una carica assegnata così vergognosamente da un governo che in questi cinque anni ha fatto di tutto per mettere in ginocchio la giustizia e la legalità.

V- L’assassinio di Francesco Fortugno, vice Governatore della Regione Calabria, apre una nuova stagione d’oro per la malavita organizzata, oppure assistiamo all’episodio più eclatante di una violenza fuori controllo e priva di copertura mediatica?

MT- La N’drangheta è un’organizzazione che non ha mai smesso di sparare. I regolamenti di conti sono avvenimenti piuttosto comuni, tanto che, pochi anni fa, un killer sparò un razzoteleguidato con un bazooka a spalla contro la macchina corazzata di un boss rivale. Questo non a Beirut, ma in una centralissima piazza di una città calabrese. Il tutto è avvenuto senza creare particolare scompiglio tra opinione pubblica e mezzi di informazione. La N’drangheta a differenza della mafia può contare su un’organizzazione capillare e parcellizzata che non prevede una cupola come per Cosa Nostra, ma una partizione di potere orizzontale, studiata per evitare che i pentiti possano metterne a repentaglio la sopravvivenza. Dunque, lo stato non sta perdendo la gara con la malavita in questi tempi, purtroppo il crimine organizzato ha già vinto. L’omicidio di Fortugno rappresenta solo un ultimo, violento segnale di supremazia. A questo quadro disperato va aggiunta la vergognosa legge sullo scudo fiscale, varata, tanto per cambiare, dal nostro governo, tramite la quale, somme inestimabili di denaro sono rientrati dall'estero o sono emersi dal sommerso a disposizione della 'ndrangheta che li aveva accumulati illegalmente e nascosti

V- Per la Mafia la situazione è diversa, invece?

MT- E’ diversa per il semplice fatto che Cosa Nostra non spara da circa 13 anni. Casualmente proprio 13 anni fa, Dell’Utri intimo amico di alcuni pericolosi boss mafiosi fondava un partito insieme ad un altro amico, Silvio Berlusconi, l’uomo della svolta per Cosa Nostra. La mafia ha beneficiato di molti vantaggi con l’avvento di Berlusconi e del suo governo. Del resto, molti miliardi pioveranno ancora sui boss a causa dei finanziamenti Europei e governativi per la costruzione del ponte sullo stretto. La situazione di oggi è molto simile a quella del 92: le gerarchie potrebbero essere ridisegnate. Ogni volta che questo avviene, Cosa Nostra colpisce con efferata violenza, come fu nelle stragi di Capaci, Roma e Milano. La calma apparente di questi anni potrebbe dunque essere squarciata da un momento all’altro, con un’evoluzione del panorama politico.

V- Le leggi ad personam rappresentano oramai una consuetudine nell’attualità politica nostrana, quali sono le ripercussioni sullo stato di salute della giustizia?

MT- Per assurdo, i governi di centro sinistra sono stati i più deleteri per lo stato della giustizia. Questo non tanto per un maggior accanimento nei confronti della giustizia; sappiamo tutti quanto il Cavaliere tenga a distruggere l’indipendenza e l’efficienza della magistratura. Piuttosto il centrodestra ha sempre affidato le modifiche delle normative a persone così incapaci da non riuscir a portare a termine dei cambiamenti applicabili. Certo è, e qui non mi dilungo molto a spiegarne i motivi, che se la “salva-Previti” dovesse passare, saremmo davanti ad un disastro senza precedenti. Sarebbe un non senso giuridico che bloccherebbe la gran parte dei processi.

V- Lei denuncia senza timore cose che, oltre a stupire mettono quasi a disagio per la loro gravità; non ha mai paura che qualcuno voglia cucirle la bocca?

MT- No, questo no. Non sono testimone di verità ancora nascoste o che aspettano di essere rivelate. Mi baso su atti che, sebbene non siano accessibili a tutti, sono depositati presso i tribunali della Repubblica e quindi pubblici. In parole povere non potrei far incarcerare nessuno con i miei articoli e i miei libri.

V- Marco Travaglio, Comunista. Mi è spesso capitato di sentire questa equazione. Le da fastidio?

MT- Più che darmi fastidio oramai mi fa ridere. Ultimamente, però, qualcosa è cambiato, il presidente Cossiga, strillava a “la7” che io sarei un fascista di destra e un bugiardo falsario. E’ sempre così, quando le cose che vengono denunciate sono vere non si risponde a chi ha formulato l’accusa, ma piuttosto lo si attacca. Paradossalmente preferisco chi, come Stefania Craxi, mi ha denunciato entrando nel merito e sostenendo che avevo scritto il falso accusando suo padre di aver rubato. Naturalmente sono stato prosciolto, visto che suo padre "rubava" davvero, come ha stabilito definitivamente la Cassazione.

V- Il paradigma politico di Silvio Berlusconi è destinato ad avere degli emuli nel nostro paese?

MT- Oh, beh, li ha già. In Italia. Solo chi oramai vive profondamente radicato in un contesto viziato dal conflitto di interesse non si è accorto, quest’estate di un fatto molto grave: abbiamo assistito ad un processo di progressiva identificazione tra i DS e la Unipol nel corso della scalata alla Banca Nazionale del Lavoro. Tutto ciò è molto grave, perché si potrebbe ottenere una situazione in cui il conflitto di interesse risulti endemico, con la presenza di partiti-banca, partiti-assicurazioni eccetera. A fianco di un conflitto di interesse più grande, ce ne sarebbero altri, più piccoli e difficili da controllare.

V- Grazie Marco, per la tua disponibilità e la semplicità con cui spieghi cose per la verità piuttosto complesse.

MT- Grazie a voi, e…in bocca al lupo, Vulcaniani!

A cura di Davide Zucchi

10 novembre 2005

L’ACCADEMIA DI SVEZIA INCORONA HAROLD PINTER

Il 13 ottobre scorso l’Accademia di Svezia ha assegnato il premio Nobel 2005 per la letteratura al drammaturgo inglese Harold Pinter, affermando che nelle sue opere «svela il baratro sotto la banalità quotidiana ed entra con forza nelle stanze chiuse dell’oppressione».

Pinter, classe 1930, nato a Hackney, un sobborgo di Londra, e figlio di un sarto ebreo, esordisce nel 1957 con l’atto unico La stanza, scritto in quattro giorni per un amico, in cui sono già ravvisabili i primi caratteri di quella che sarà la sua futura produzione: atmosfere ambigue che disorientano lo spettatore, un uso del dialogo che sottolinea la difficoltà della comunicazione e l’alogicità della conversazione quotidiana, il gusto per l’omissione degli antefatti, che carica il tutto di un minaccioso mistero. Gli inizi sono tuttavia difficoltosi e il giovane drammaturgo stenta ad affermarsi, raggiungendo però in seguito un successo duraturo che gli varrà il riconoscimento di maggior rappresentante inglese della sua generazione. La prima opera ad avere risonanza ampia è Il guardiano, del 1960, in cui come nuovo elemento Pinter introduce un approfondimento della psicologia del personaggio; seguono altre opere di grande successo, come Il calapranzi (1960), Silenzio (1969), Vecchi tempi (1971), Terra di nessuno (1975), La lingua della montagna (1988), Chiaro di luna (1993). Il suo stile personalissimo è valso la nascita di un aggettivo, pinteriano, ad indicare un disagio, una sensazione forte di timore e incertezza; meno radicale e catastrofico di Beckett, trova, comunque, proprio nell’opera del drammaturgo irlandese e in quella di Kafka le sue radici. Vi sono elementi che ricorrono spesso nelle opere di Pinter: un linguaggio ambiguo, carico di pause e silenzi più espressivi ed oppressivi dello stesso dialogo già di per sé difficoltoso e talvolta fermo su rovelli mai pienamente risolti, che caricano l’atmosfera d’attesa; la rappresentazione dei personaggi in ambienti chiusi, claustrofobici, sinistri, al riparo da un ambiente esterno ostile e minaccioso; la messa in scena dei timori, delle ansietà, delle nevrosi, della ricerca d’identità, degli inganni della memoria, che caratterizzano l’uomo moderno.

Autore di oltre 25 commedie, si è avvicinato nel corso della sua carriera anche alla radio, al cinema (con collaborazioni illustri) e alla poesia, sua attuale principale occupazione; da sempre è noto il suo impegno sociale (con Amnesty International e altre associazioni umanitarie) e quello politico, che lo ha visto spesso schierato contro la guerra, Bush e lo stesso governo Blair; solo pochi giorni prima della designazione a vincitore del Nobel, infatti, in occasione del suo compleanno, il drammaturgo ha presentato un nuovo testo, Voices, ulteriore atto d’accusa contro «la durezza impietosa dell’infernale condizione che stanno vivendo tutti gli uomini, in Occidente come in altre parti del mondo, per colpa di un potere dissennato».

Claudia Bernini

5 novembre 2005

INTERVISTA A GAD LERNER

Quando raggiungiamo la redazione de “L’infedele”, un meraviglioso sole splende su Milano. C’è una piacevolissima illusione di primavera nell’aria. Gad Lerner, con un enorme sorriso, ci accoglie nel suo studio. Dopo averci fatto accomodare attorno alla sua scrivania, si mette a nostra completa disposizione, pronto a raccontarsi. E, come accade da anni nelle sue trasmissioni, riesce anche con noi a mettere in movimento i nostri cervelli e a farci tornare a casa con numerosi argomenti su cui riflettere e meditare.

Ci parli degli inizi della sua carriera e in particolare dell’esperienza in Lotta Continua.
Vi posso dire innanzitutto che ho frequentato moltissimo le aule di Festa del Perdono, ma ahimè non da studente. Mi sono iscritto a lettere con indirizzo classico, nel ‘73 quando ho finito il liceo al Berchet. Poi però Adriano Sofri mi “precettò” chiedendomi di andare a Roma a seguire quella che si chiamava “commissione nazionale scuola” e temo di aver dato in tutto sei esami! Non mi sono mai laureato,e quindi, non seguite il mio esempio! Ma certamente l’esperienza - prima di movimento poi anche di redazione - nel quotidiano di Lotta Continua è rimasta per me qualche cosa che mi ha dato più di quanto non mi abbia tolto. Mi ha etichettato, per cui ancora adesso a vengo visto come “un ex di Lotta Continua”. Ma gli serbo della gratitudine. Il quotidiano di Lotta Continua ha avuto un ruolo fondamentale di insegnamento per due ragioni: la prima è che ci imponeva di concepire il giornale come strumento della trasformazione della realtà, e non come mera professione; e poi perché, essendosi l’organizzazione di Lotta Continua sciolta molto presto, noi che facevamo il giornale ci siamo trovati liberi da vincoli di disciplina di partito. Avevamo realizzato molte innovazioni sia nella grafica che nella scelta degli argomenti, nell’introduzione in un giornale politico di tematiche invece più legate alla sessualità, alla crisi esistenziale del mondo giovanile. E’ stata una grande lezione professionale. Se io sono diventato un giornalista fortunato lo devo anche a quelle innovazioni di linguaggio che ho appreso in quella scuola.
Ma voglio fare un altro cenno alla Statale. Mi infastidiva già a quei tempi dentro all’università il prevalere di un’impostazione dogmatico ideologica nei gruppi dirigenti di quel movimento studentesco, che erano inevitabilmente i figli dell’alta borghesia milanese. Il movimento si dichiarava Marxista – leninista ed esaltava personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse Tung che davvero stridevano con la realtà italiana. Quando andavi a cercare un rapporto con gli oppressi, gli sfruttati, i senza casa, quell’ideologia risultava già un ferro vecchio. Mancava negli studenti uno spirito critico. In realtà sembrava veramente che si scimmiottassero le guardie rosse cinesi, salvo poi la sera tornare in belle case confortevoli.


Com’è proseguita poi la sua carriera terminata l’esperienza di Lotta Continua?
Il mio ingresso nel giornalismo “non militante” fu sofferto. Noi avevamo condotto negli ultimi anni (’77-’79) una battaglia strenua dentro al movimento contro la degenerazione violenta e terroristica degli autonomi e del partito armato del terrorismo di sinistra, delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Quei metodi armati per i quali le persone venivano trasformate in simboli e la vita umana veniva considerata un valore irrilevante e poteva essere cancellata o ferita, erano qualcosa che ci sembrava tradire profondamente le ragioni per le quali c’eravamo impegnati. Ero stanco di quella battaglia dentro al giornale, con il giornale. Quindi nel ’79 “diedi le dimissioni”, per così dire, e feci una certa fatica a passare al cosiddetto “giornalismo borghese”. Mi sembrò quasi un tradimento l’idea che il giornalismo potesse essere trasformato in un mestiere. Andai prima in un giornale di Genova che si chiamava Il Lavoro. Poi ho fatto Radio Popolare, ho scritto anche un po’ sul Manifesto, Dopo sono stato all’Espresso per parecchi anni. Intrapresi questo mestiere senza mai dimenticare da dove avevo cominciato, mantenendo lo stesso atteggiamento critico. L’etichetta del “ragazzo di Lotta Continua” e del giornalista non del tutto affidabile per l’establishment mi è rimasta appiccicata con anche degli evidenti svantaggi. Ho pure conosciuto e frequentato il potere. Non faccio il furbo che finge di essere rimasto fuori dai suoi meccanismi. E lo frequento tutt’ora, ma con un piede dentro e uno fuori.


Come si fa a entrare nella professione giornalistica rimanendo sempre coerenti con se stessi, e senza dover per forza scrivere ciò che vuole il padrone?
Credo che il rimanere coerenti sia un vantaggio, e solo in apparenza ti fa pagare dei prezzi. Vale per tutti i mestieri. Serve una forte passione, una vocazione, alcuni temi che ti appassionano a prescindere dalla busta paga e del percorso professionale, cose su cui pensi valga la pena spendere una vita intera: ecco, se tu entri nel mestiere del giornalista con una vocazione di questo tipo hai una marcia in più. Non c’è niente di peggio che restare indifferenti e piegarsi alla volontà del direttore. Diventi semplicemente uno che si fermerà ai gradini bassi della carriera, un esecutore.


Sempre a proposito della professione. Lei pensa che la maggior specializzazione dei giornalisti sia positivo?
E’ una risposta complessa. Da un lato c’è il sistema italiano, in particolare il sistema delle professioni in Italia che è scandaloso. Ci sono corporazioni chiuse, compresa quella giornalistica che ha un albo che secondo me andrebbe abolito, perché serve solo a difendere chi c’è già dentro da chi vorrebbe entrarci, (ma lo scandalo è ancora più grande tra i notai, tra gli architetti, gli ingegneri, gli avvocati). C’è proprio un sistema illiberale che peggiora la qualità di tutti questi servizi, li invecchia, toglie spirito di concorrenza e quindi di innovazione. Ed è un ostacolo anche alla competizione internazionale. Per quanto riguarda in particolare i giornalisti, non c’è dubbio che per crearsi dell’offerta ci voglia specializzazione. Che ad esempio per fare bene il giornalista economico bisogna saper leggere i bilanci Ma non basta. Serve anche che quel giornalista possa sentirsi libero di denunciare i vizi del capitalismo italiano senza che questo gli appaia impossibile, perché le proprietà dei giornali sono di quelle stesse persone di cui lui deve denunciare i vizi. Noi viviamo un continuo conflitto d’interessi. Secondo me la passione viene prima della specializzazione. Quindi non pretendo affatto di indicare il mio percorso come esemplare, l’ho definito io stesso come molto fortunato. Però credo che quel rischio sia qualcosa per cui valga la pena di vivere. E’ l’impostazione critica che bisogna conservare, il grande strumento che abbiamo.


Crede ancora nella politica?
Sì. Voi avete la sfortuna di affacciarvi in un tempo di guerra. Questa è una circostanza che richiede saggezza. Ci si deve domandare: come si sta in un tempo di guerra? come ci si comporta in questioni fondamentali come il regolare i flussi migratori, la difesa, la prevenzione della minaccia terroristica? come facciamo ad impedire che questo tempo di guerra si traduca anche in un tempo di povertà e di precarietà? Tutto questo impone nuova politica. E la necessità di ripensare completamente le nostre categorie di interpretazione della realtà. Quelle che adoperavamo noi sono ferri vecchi. O si fa questo passo di fantasia, oppure l’illusione di resistere facendoci gli affari nostri e chiudendoci semplicemente nella difesa della nostra quotidianità, verrà spazzata via.


Secondo lei la democrazia è esportabile, come vorrebbero gli USA? Non corre il rischio, questa parola, di ridursi a una scatola vuota?
Certamente, come tutte le parole, anche il termine “democrazia” corre questo rischio. Però noi europei abbiamo una storia che fa sì che noi possiamo riempire di significato sia la parola pace, che la parola democrazia. In maniera diversa dagli americani. Lo dico con grande rispetto per l’America, che è un paese democratico, ma che è un paese che con la guerra ha avuto un rapporto molto diverso da quello che ha avuto l’Europa. Non ha conosciuto la guerra “in casa”, non ha conosciuto le macerie. L’Europa sì. Questo induce talvolta gli americani a guardarci con disprezzo, dicendo che l’Europa è invecchiata e non ha più il coraggio di combattere per difendere i valori fondamentali della democrazia. Invece io credo che sia saggezza e non viltà trarre insegnamento dalla memoria della catastrofe che ci accaduta. Sapere che la guerra ci può sfuggire di mano. Che non è vero che la si possa lanciare e poi governare pensando di poterne poi controllare gli esiti. E lo stesso discorso vale per la democrazia. Credo che ci sia una bella differenza rispetto al sano contagio democratico che si è verificato sul territorio europeo e culminato con l’allargamento ad est dell’Unione, per cui paesi che non erano democratici oggi lo sono diventati pacificamente. Ma anche la Palestina: io credo che la vicinanza di uno stato democratico come Israele, con le cui politiche si può fortemente dissentire - ma che resta uno stato democratico - abbia esercitato un influsso positivo sulla Palestina. E le elezioni che si sono appena svolte lo dimostrano. Dubito invece fortemente che la democrazia si possa esportare con le armi.


A proposito di Israele. Nota, da parte di certa sinistra estrema, un certo antiebraismo?
Sicuramente c’è una crisi di rapporti tra il mondo ebraico e la sinistra che è particolarmente dolorosa. Dentro alle tragedie del 900 la sinistra si è battuta contro l’antisemitismo e ha affermato sempre una concezione laica dello stato, in cui gli ebrei potessero sentirsi a casa loro con i cittadini non ebrei. Oggi invece c’è qualcosa di più che non la critica diffusa alle politiche dei governi israeliani. Si fa fatica a comprendere il perché debba esistere uno Stato ebraico. Si fa fatica a definire che cosa sia l’ebraismo. Come fatto culturale c’è il mistero delle identità: sentirsi cittadini di un luogo ma contemporaneamente con un forte legame con un altro luogo. Pensate alla mia esperienza personale: io sono nato a Beirut da genitori che erano nati in Palestina prima che si chiamasse Israele e ho gran parte della famiglia che vive in Israele. In un certo senso potrei dire che sono cittadino della sponda nord e della sponda sud del Mediterraneo allo stesso tempo. Questo io lo vivo come una ricchezza, ma per altri può essere un’ambiguità. Ma siccome queste ambiguità è dentro a ciascuno di noi, sarebbe bene imparare tutti a viverle come una ricchezza e non pretendere dagli altri una sorta di disciplina, per cui se tu sei di sinistra non devi voler bene a Israele, e se tu sei di sinistra e ebreo sei sospetto, perché c’è il sospetto che in cuor tuo tu voglia bene più a Israele che alla sinistra.

a cura di Chiara Asta e Beniamino Musto